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- Rassegna Stampa conflitti israele palestinaRAFAH: Domenica i militanti di Hamas hanno liberato altri 17 ostaggi, tra cui 14 israeliani, in una terza serie di rilasci nell’ambito di un accordo di cessate il fuoco.
I rappresentanti della Croce Rossa hanno trasferito gli ostaggi fuori da Gaza domenica sera. Alcuni furono consegnati direttamente a Israele, mentre altri partirono attraverso l’Egitto.
L’esercito ha detto che uno degli ostaggi è stato trasportato in aereo direttamente in un ospedale israeliano.
Come parte dell’accordo, Israele avrebbe dovuto liberare 39 prigionieri palestinesi domenica successiva.
È stato il terzo giorno consecutivo in cui Hamas ha rilasciato ostaggi israeliani detenuti a Gaza in cambio di prigionieri palestinesi.
Un quarto scambio dovrebbe avvenire lunedì, l’ultimo giorno del cessate il fuoco di quattro giorni tra i nemici. Si prevede la liberazione di 50 ostaggi e 150 prigionieri palestinesi.
Israele ha dichiarato guerra a Hamas dopo che il gruppo militante islamico ha effettuato un attacco transfrontaliero il 7 ottobre che ha ucciso circa 1.200 persone e ha preso in ostaggio 240 persone. Secondo le autorità sanitarie del territorio controllato da Hamas, un’offensiva israeliana a Gaza ha provocato la morte di oltre 13.300 persone.
I mediatori internazionali guidati da Stati Uniti e Qatar stanno cercando di prolungare il cessate il fuoco.
Sorgente: Hamas rilascia il terzo gruppo di ostaggi a Gaza come parte dell’accordo di tregua
https://www.facebook.com/watch/?v=358387886691481
CronacaIn concomitanza con la guerra a Gaza, i crimini dell’occupazione e dei coloni in Cisgiordania sono aumentati 25/11/2023 55/2023 In concomitanza con la guerra a Gaza L’escalation dei crimini da parte dell’occupazione e dei coloni in Cisgiordania In concomitanza con la guerra nella Striscia di […]
- Rassegna Stampa conflitti palestinaIn concomitanza con la guerra a Gaza, i crimini dell’occupazione e dei coloni in Cisgiordania sono aumentati25/11/2023
55/2023
In concomitanza con la guerra a Gaza
L’escalation dei crimini da parte dell’occupazione e dei coloni in Cisgiordania
In concomitanza con la guerra nella Striscia di Gaza, le autorità di occupazione e i coloni stanno approfittando della preoccupazione del mondo per ciò che sta accadendo a Gaza, per commettere più crimini e attacchi contro i cittadini, soprattutto nelle aree classificate come (C) e nelle aree adiacenti alla Striscia di Gaza. gli insediamenti.
La Commissione Indipendente per i Diritti Umani, “Board of Grievances”, ha documentato lo sfollamento di famiglie palestinesi e gli attacchi compiuti da coloni sotto la protezione dell’esercito di occupazione in Cisgiordania dopo il 7 ottobre, compresi gruppi di coloni che hanno espulso cinque famiglie dalla Shalaldah famiglia dalle loro case nella zona di “Qanub” in favore dell’espansione dell’insediamento “Asfar”, costruito su terre confiscate ai cittadini a est della città di Sa’ir . Le famiglie sono state espulse in più fasi.L’11/10/2023, un gruppo di coloni noto come Hills Youth ha attaccato la caserma del cittadino Muhammad Abdel Fattah Touma Shalalda, ne ha bruciato il contenuto, compresi foraggio e mobili, e ha rubato 160 capi di pecora e 40 sacchi pieni di olive.
Il 2/11/2023, lo stesso gruppo di coloni, nella stessa zona, ha bruciato ripetutamente quattro baracche della stessa famiglia e ne ha espulso i membri: queste case appartengono a Muhammad Abd al-Rahim Shalalda, che sostiene una famiglia di 6 persone, e Ibrahim Ahmed Shalalda, che ha una famiglia di 18 persone, Qasim Naeem Shalalda ha una famiglia di 7 persone e Zidan Ahmed Shalalda ha una famiglia di 9 persone.
Durante la visita del rappresentante dell’Autorità alle famiglie sfollate, questi hanno riferito che non avevano ricevuto alcuna visita da parte di alcun organismo ufficiale da quando erano state sfollate con la forza nell’area di Qanan Badran, a est della città di Shuyoukh, mentre le autorità locali fornivano loro alcuni beni di prima necessità. , soprattutto per i bambini.
La Commissione Indipendente ha inoltre monitorato le forze di occupazione, fin dai primi giorni della guerra a Gaza, isolando gli arabi di Rashayda chiudendo l’unica strada che porta al villaggio di Rashayda, a sud-est di Betlemme, impedendo l’ingresso o l’uscita da esso, e isolando completamente per un periodo superiore a 40 giorni. Questa rigida chiusura del villaggio ha violato il diritto dei cittadini all’accesso ai servizi sanitari, impedendo l’ingresso delle ambulanze nel villaggio, ha causato l’aborto di una donna e ha interrotto il processo educativo. Il villaggio ha inoltre sofferto durante il periodo di chiusura di una grave carenza di generi alimentari e di cibo. mangime per il bestiame e durante il periodo di chiusura è stato causato un danno a una conduttura dell’acqua fornita al villaggio da coloni e soldati dell’esercito di occupazione.
Gli attacchi compiuti dai coloni e dall’esercito di occupazione costituiscono crimini di guerra, tra cui sfollamenti forzati e punizioni collettive, e richiedono un’azione internazionale per garantire protezione ai cittadini palestinesi indifesi, soprattutto nelle aree remote vicine agli insediamenti, e richiedono inoltre che le autorità palestinesi competenti seguano informarsi sulle condizioni delle famiglie e delle comunità colpite e fornire loro il sostegno necessario.
Un soldato israeliano a Gaza pubblica una clip sul suo account Tiktok in cui suona la chitarra sulle macerie delle case demolite a Gaza. Gli israeliani hanno elogiato il suo umore durante la guerra, ma alcuni di loro gli hanno chiesto: dove hai preso questa […]
- Rassegna StampaUn soldato israeliano a Gaza pubblica una clip sul suo account Tiktok in cui suona la chitarra sulle macerie delle case demolite a Gaza.
Gli israeliani hanno elogiato il suo umore durante la guerra, ma alcuni di loro gli hanno chiesto: dove hai preso questa chitarra? Il soldato non rispose
Su TikTok Un giovane di nome Hamada, cantante e chitarrista, precisò che questa chitarra apparteneva a lui ed era l’ultimo regalo del padre morto nel 2014.
Hamada è un cantante e musicista di Gaza, e sotto la minaccia delle armi è stato sfollato con la forza dalla sua casa nel nord della Striscia di Gaza.
Hamada ha espresso la sua tristezza e il suo shock quando ha detto: “Ciò che ci ha fatto Israele non è abbastanza?”
Ci hanno ucciso e costretto a lasciare le nostre case, poi hanno rubato anche le nostre cose e i nostri ricordi, e i soldati hanno pubblicato foto di loro stessi mentre si divertivano e si godevano ciò che avevano rubato dalle case palestinesi nel nord della Striscia di Gaza.
Il primo ministro Netanyahu, pochi giorni fa, ha invocato la teoria di Amalek per giustificare i massacri di Gaza, basandosi su una Bibbia ebraica: “ricordati cosa ti ha fatto Amalek, dice la nostra sacra Bibbia in 1 Samuele 15:3: ora vai e colpisci Amalek e […]
America conflitti israele Medio Oriente palestina Politica EsteraIl primo ministro Netanyahu, pochi giorni fa, ha invocato la teoria di Amalek per giustificare i massacri di Gaza, basandosi su una Bibbia ebraica: “ricordati cosa ti ha fatto Amalek, dice la nostra sacra Bibbia in 1 Samuele 15:3: ora vai e colpisci Amalek e distruggi tutto ciò che possiedono e non risparmiarli, e uccidi uomini e donne, bambini e neonati, buoi e pecore, cammelli e asini”. ( https://bit.ly/3MPDmbV ).
Con la loro scandalosa “ dottrina Amalek ” paleobiblica, Netanyahu e i suoi alleati suprematisti colonizzatori Ben-Gvir e Smotrich giustificano il loro infanticidio per restare al potere: applicano la loro controversa ermeneutica in modo unilaterale, eccezionale e solipsistico, ma che manca di validità universale e ha tre risoluzioni dell’ONU in sospeso per la creazione dello Stato inalienabile palestinese: 142 (del 1948), 242 (del 1967) e 338 (del 1973). Vedi le mappe ( https://bit.ly/3uurIg7 ) e anche da The Economist ( https://bit.ly/3sFA7Nn ).
Senza entrare nella sua inquietante dichiarazione sulla “ingegneria specifica del Covid-19 per evitare di danneggiare gli ashkenaziti (leggi: i Khazariani ” ( https://bit.ly/40M7oD7 ), Robert Kennedy Jr. forse ha ritrattato per non subire la sorte di suo padre e di suo zio: Israele è per noi una roccaforte. È quasi come avere una portaerei in Medio Oriente. Questo è il nostro più antico alleato. Se Israele scompare, Russia, Cina e i paesi BRICS+ controlleranno il 90% del territorio mondiale petrolio, e questo sarà un disastro per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ( https://bit.ly/40Mg10n ).
Nel 1982, il macellaio di Sabra e Shatila, il generale Ariel Sharon, si vantava: non preoccupatevi delle pressioni americane su Israele. Noi, il popolo ebraico, controlliamo gli Stati Uniti e gli americani lo sanno ( https://bit.ly/3MP5Fas ).
Biden e Netanyahu, chi comanda veramente
Il colonnello in pensione Douglas McGregor ha appena commentato: Gli israeliani, di fatto, possiedono Washington. Hanno ottenuto ciò che volevano. Francamente, Netanyahu esercita più influenza e autorità a Washington dello stesso Biden. Gli israeliani hanno deciso che questa è un’occasione per regolare i conti con tutti i loro nemici, poiché possono contare sull’influenza del nostro potere ( https://bit.ly/47E0X7h ). Netanyahu è il re degli Stati Uniti , non di Israele!
Gli accademici John Mearsheimer e Stephen Walt hanno dimostrato il potere della “ lobby israeliana ” negli Stati Uniti nel loro libro che denuncia l’onnipotente asse Hollywood/Wall Street/multimedia ( https://amzn.to/3MNcn0z ).
Non è nell’interesse di Netanyahu e dei suoi alleati suprematisti Ben-Gvir, ministro della Sicurezza (sic), e Smotrich, ministro delle Finanze, sostenere il diritto catastale teologico perpetuo della terra (sic) di Israele fin dai tempi dei Cananei/ Fenici / Semiti Sono antecedenti agli Israeliti/Ebrei/Ebrei/Israeliani – per non parlare dei convertiti Khazariani ( https://bit.ly/3QqemJr ), di origine mongola, che fa deragliare l’inafferrabile legge del ritorno ( https://amzn. a/2MR0PfM )–.
Il noto ricercatore belga Elijah Magnier (EM), uno dei massimi esperti contemporanei del Medio Oriente, dimostra che “ Filistine , la Palestina, fu abitata inizialmente da arabi cananei, non ebrei”. Quindi la terra di Canaan è anteriore ad Abramo e Mosè ( https://bit.ly/49KqqOa ).
EM commenta che il nipote di Noè era Canaan, figlio di Cam, da dove provengono i popoli cananei (Genesi 9:18) . I Cananei e la loro tribù affine, i Gebusei, sono popoli arabi che migrarono in Palestina dalla penisola arabica prima (sic) degli ebrei, intorno al 2500 a.C. C. Infine, i Fenici, come i loro vicini moabiti ed edomiti, erano popoli semitici cananei . Anche Gerusalemme è di origine cananea-fenicio-semitica: il suo nome significa molto probabilmente Città di Shalem , dio della religione cananea; Dizionario delle Divinità e dei Demoni nella Bibbia ( https://bit.ly/49Jr5Q3 ): identificata anche come Venere, secondo le famose Tavole di Ugarit .
I veri proprietari teologici e catastali dell’antica Palestina sono i Cananei/Fenici/Semiti che oggi non potrebbero recuperare i loro beni saccheggiati poiché mancano di 300 bombe termonucleari clandestine (https://bit.ly/3SEJGqm) e del sostegno illimitato degli Stati Uniti.
Fonte: alfredojalife.com
Traduzione: Luciano Lago
I LIMITI DELLE CLASSIFICHE – Babele. L’Italia pare virtuosa ma le liste ignorano lacune e parametri diversi degli altri Paesi. E oltretutto uccidono più i vecchi: l’età media dei killer è 54 anni Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi giorni è che quando […]
Donne Esteri femminicidio informazione Politica violenze sulle donneI LIMITI DELLE CLASSIFICHE – Babele. L’Italia pare virtuosa ma le liste ignorano lacune e parametri diversi degli altri Paesi. E oltretutto uccidono più i vecchi: l’età media dei killer è 54 anni
Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi giorni è che quando i negazionisti del patriarcato sono in difficoltà con le parole ricorrono ai numeri. Lo fanno un po’ come fa Salvini quando non sa che dire e spara cifre a caso confidando nell’autorevolezza della matematica e nell’ignoranza dell’interlocutore.
Per avvalorare la tesi secondo la quale l’Italia non ha un problema di patriarcato, svariati giornalisti stanno citando una classifica dei femminicidi che dimostrerebbe in maniera inequivocabile come l’Italia sia il paradiso dell’emancipazione femminile. La classifica è quella della fondazione indipendente Openpolis e riporta le statistiche sugli omicidi volontari commessi da familiari o partner (ed ex partner) ogni 100 mila donne nei Paesi Ue.
Le criticità della classifica però sono molte, perché mancano i dati di ben 12 Paesi e perché la loro raccolta è complessa, visto che la classificazione dell’omicidio di genere ha spesso parametri sfumati. Inoltre, sono disponibili classifiche di anni diversi e non tutti attingono dai dati più recenti, ma da quelli che fa più comodo riportare. Francesco Verderami del Corriere della Sera, ospite in tv, ha dichiarato che “per femminicidi la Lettonia è al primo posto, l’Italia al dodicesimo posto. Non è un problema di cultura patriarcale!”.
Così ha sostenuto anche Alessandro Sallusti, quello per cui non esiste una cultura patriarcale, ma “Adamo ed Eva hanno fatto un gran casino” e “nel civile Nord Europa dove il patriarcato non esiste, per esempio in Svezia e Norvegia, ci sono più femminicidi che in Italia”. Maurizio Belpietro su La Verità sostiene la stessa tesi pubblicando un grafico. Secondo lui le statistiche ci dicono che i femminicidi avvengono di più dove le donne sono emancipate e ci sono famiglie gay, queer e “non so cos’altro”.
Secondo l’altro noto esperto di violenza di genere, ovvero il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, i femminicidi “nascono anche dalla violenza che circola sul Web” perché questi giovani di oggi, signora mia. Nessuno gli ha spiegato che l’età media del femminicida è 54 anni e mezzo. Ma torniamo a questa benedetta classifica e in particolare a quella pubblicata da La Verità. Notare che è la classifica di Openpolis ma non l’ultima, bensì quella del 2018 e che riporta dunque dati non aggiornati. La dicitura è “omicidi di donne” e non “femminicidi”, differenza non da poco. L’Italia è sì all’ultimo posto per femminicidi, ma il dato riportato è quello del 2023, quindi inserito forzatamente in una statistica del 2018 e con riferimento a un anno solare non ancora terminato.
Per il Canada il dato è del 2021 e per gli Stati Uniti del 2020. Insomma, un minestrone.
Le differenze tra Italia e Paesi come Francia, Olanda, Spagna e Germania sono così minime da risultare ininfluenti. Il discorso sull’emancipato Nord Europa in cui le donne sono ammazzate come polli, gioca poi su un equivoco (o sull’ignoranza) che per Nord Europa si intenda la Penisola scandinava, quando si tratta invece dei Paesi baltici: i primi posti sono infatti occupati da Lettonia e Lituania mentre la Svezia, nella classifica più recente, è dietro di noi. Norvegia e Finlandia non sono rilevate. Ed è un gioco delle tre carte disonesto, visto che quelli che Belpietro chiama “Paesi più progrediti” del Nord Europa sono Paesi complessi di area post-comunista in cui si fanno i conti con diseguaglianze sociali, col record dei suicidi, con una società dallo stampo fortemente patriarcale.
Inoltre, come riportato da Euronews, Lituania e Lettonia sono tra i Paesi in cui si consuma più alcol al mondo e l’alcol facilita la violenza, soprattutto tra le pareti domestiche. In questi Paesi, infatti, c’è anche il più alto tasso di omicidi anche non di genere. Insomma, le classifiche raccontano poco e se raccontano qualcosa andrebbero riportate e interpretate correttamente.
A questo, poi, va poi aggiunta una considerazione: il numero dei femminicidi in un Paese non può essere l’unico parametro con cui si misurano i traguardi di eguaglianza ottenuti dalle donne. La sottomissione del patriarcato riguarda anche gli aspetti economici e sociali, la parità salariale, il welfare, l’accesso ai ruoli apicali e molto altro (e in questa classifica temo che l’Italia si piazzerebbe male). L’unico dato che conta davvero, alla fine, è questo: le donne vengono uccise nell’82% dei casi da partner e familiari, mentre gli uomini che vengono uccisi da partner e familiari sono il 18%. Dunque, le donne sono uccise in quanto donne, gli uomini no. I vari negazionisti del patriarcato potrebbero pubblicare questo semplice dato e magari smettere di chiamare “maestrine” le donne che li correggono, perché gli unici a dover tornare a scuola, forse, sono loro.
(DI SELVAGGIA LUCARELLI – ilfattoquotidiano.it)
Sorgente: Femminicidi, truffa negazionista sui dati – infosannio – notizie online
di Laura Tussi – 20/11/2023 Siamo una piccola e importante realtà con un unico obiettivo: contribuire a cambiare il mondo per renderlo abitabile con dignità per tutte e tutti. A quasi dieci anni di distanza dal nostro primo incontro, parliamo di nuovo con Marco Bersani […]
Acqua pubblica Ambiente cultura Diritti sociali Diritti umanidi Laura Tussi – 20/11/2023
Siamo una piccola e importante realtà con un unico obiettivo: contribuire a cambiare il mondo per renderlo abitabile con dignità per tutte e tutti.
A quasi dieci anni di distanza dal nostro primo incontro, parliamo di nuovo con Marco Bersani di Attac Italia delle grandi battaglie globali per una società più equa, dignitosa e sostenibile. Dalla storica campagna per l’acqua bene comune all’opposizione a guerre e militarismo, ripercorriamo i più di vent’anni di storia di una delle più rappresentative fra le reti di movimenti altermondialisti.
«Dobbiamo riappropriarci degli spazi della democrazia», ci ha detto Marco Bersani quando lo abbiamo incontrato per la prima volta, ormai dieci anni fa. Era da poco passata la prima ondata dei movimenti anti globalizzazione, era il periodo della grande lotta contro la privatizzazione delle risorse idriche e Attac Italia, che Bersani rappresenta, era in prima fila, così come oggi. Abbiamo risentito Marco per fare il punto sulle battaglie vecchie e nuove del movimento, senza dimenticare le drammatiche contingenze che il mondo sta vivendo, con una spinta bellica che è purtroppo ancora più preoccupante del periodo in cui Attac emetteva i suoi primi vagiti.
Attac Italia nasce nel 2001 ed è parte della rete internazionale di Attac, una delle più grandi fra quelle che criticano il neoliberismo, costruita in questi anni dal movimento altermondialista. Perché si autodefinisce “movimento di autoeducazione orientata all’azione”?
L’atto di nascita di Attac può essere ricondotto alla pubblicazione nel 1997 dell’articolo Disarmare i mercati di Ignacio Ramonet su le Monde Diplomatique. In quell’articolo si sottolineava come la cifra del capitalismo odierno dovesse essere ricercata nella progressiva finanziarizzazione dell’economia e come solo inserendo quel tema nell’agenda dei movimenti sociali si potesse affrontare adeguatamente quello che veniva denominato “il modello liberista”.
Tassazione delle transazioni finanziarie, messa in discussione del debito, lotta ai paradisi fiscali, all’egemonia culturale neoliberale e al formarsi di un’oligarchia finanziaria furono gli assi sui quali nacque nell’anno successivo Attac France e via via tutte le realtà nazionali che composero ben presto la rete internazionale di Attac. L’associazione è presente in oltre 40 Paesi, da quasi tutti gli stati europei al nord Africa, dall’America Latina al Giappone.
Per quanto riguarda l’Italia, il percorso vide nella primavera del 2000 il lancio di un primo appello – “Facciamo Attac” –, al quale seguirono decine di assemblee in tutto il Paese che portarono alla costruzione di una tre giorni nazionale a Bologna nel giugno 2001, un mese prima delle straordinarie e drammatiche giornate del G8 di Genova.
Attac si autodefinisce “movimento di autoeducazione orientata all’azione” perché da una parte ritiene che, proprio per capire la complessità del modello capitalistico al tempo della finanziarizzazione, occorra formarsi e saper analizzare i repentini mutamenti della realtà che ci circonda. Dall’altra, ha sempre considerato la formazione come propedeutica all’azione. Perché il mondo non va solo capito, ma anche trasformato. Sono queste le ragioni per le quali l’attività di Attac si caratterizza per l’organizzazione di università popolari nazionali e territoriali e, nel contempo, per la costruzione e/o partecipazione a campagne e mobilitazioni di massa.
Come Attac siete stati parte del movimento altermondialista di Genova 2001?
Attac è stata l’unica organizzazione non brasiliana fra le promotrici del Forum Sociale Mondiale che ha esordito nel 2001 a Porto Alegre e si è successivamente dato un appuntamento annuale mondiale in diversi luoghi del pianeta, per coordinare la rete globale dei movimenti sociali che, dietro lo slogan “Un altro mondo è possibile”, lanciarono la sfida al modello liberista, costruito attorno alla famosa frase pronunciata nel 1979 dall’allora premier inglese Margareth Thatcher: “There is no alternative”.
Genova 2001 fu sostanzialmente il battesimo di piazza di Attac Italia, che partecipò sin dall’inizio al processo di costruzione e di avvicinamento a quell’appuntamento; nel mentre stava contemporaneamente costruendo il proprio avvio sul territorio italiano. Questa doppia “gravidanza” – la nascita di Attac Italia e la nascita del movimento altermondialista nel nostro Paese – fu un’esperienza ricca, intensa e straordinaria.
Attac era una delle moltissime reti che facevano parte del Genoa Social Forum e il sottoscritto era, a nome dell’associazione, membro del Consiglio dei Portavoce che ha costruito e gestito quelle drammatiche giornate, nelle quali le élite politiche, economiche e militari decisero che quella straordinaria partecipazione di massa andava stroncata con la repressione più violenta mai prodottasi in questo Paese dalla nascita dell’Italia repubblicana. Perdemmo Carlo in quelle giornate e con lui un po’ dell’innocenza e della speranza di quel movimento.
Di tutti movimenti pacifisti e associazioni per la nonviolenza e il disarmo siamo affiliati a ICAN, la campagna internazionale per l’abolizione delle armi di distruzione di massa nucleari. Ican ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2017 per aver costituito il trattato ONU TPAN, trattato per la proibizione degli ordigni nucleari. Come si pone Attac nei confronti dei vari governi per fare ratificare questo trattato?
Pur non essendo il tema del disarmo uno di quelli sui quali Attac produce un’attività specifica, la nostra associazione è da sempre per la costruzione di una società senza esercito, senza armi e, naturalmente, senza nucleare civile e militare. La proliferazione di armi e la detenzione di bombe atomiche non hanno nulla a che fare con la deterrenza, né tantomeno con la sicurezza delle popolazioni, come la storia dimostra.
Solo una società che si cura è una società sicura. La guerra è il massimo dell’incuria: distrugge vite, famiglie e relazioni, devasta territori e ambiente, sradica le esistenze delle persone, esaspera le disuguaglianze sociali, ingabbia le culture, sottrae la democrazia. Lo strumento della guerra è figlio legittimo della cultura patriarcale, quella che persegue il dominio e la sopraffazione, e rimuove ogni consapevolezza sulla fragilità dell’esistenza e sull’interdipendenza fra le persone e con l’ambiente che abitano.
La ratifica del Trattato ONU TPAN dovrebbe essere il primo atto di ogni governo democratico e, nel caso dell’Italia, dovrebbe essere accompagnata dallo sfratto immediato delle decine di testate nucleari che il nostro Paese continua a ospitare – in totale spregio della nostra Costituzione – presso le due basi militari di Ghedi (BS) e di Aviano (PN). È una battaglia che acquista ancor più importanza in questi ultimi anni dove la guerra sembra diventata ormai l’unica modalità di governo nella riorganizzazione geopolitica dei rapporti di forza far le grandi e meno grandi potenze statuali, economiche e militari.
Attac Italia è stata fra i promotori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e del Comitato referendario “2 SI per l’Acqua bene comune”, che ha portato alla vittoria referendaria nel giugno 2011. È da sempre impegnata sul tema dei beni comuni come base per la costruzione di un altro modello sociale basato sulla democrazia partecipativa. In quali altre campagne è impegnata?
Ci tengo a sottolineare che tutte le campagne dentro le quali Attac ha dato il suo importante contributo seguono il filo rosso della finanziarizzazione. Anche la campagna per l’acqua pubblica – una stagione straordinaria di partecipazione sociale che è stata capace di produrre interamente dal basso addirittura una vittoria referendaria – ha visto Attac in prima fila perché nel frattempo il processo di finanziarizzazione era “straripato” dall’economia, alla società, alla natura e ai beni comuni.
Attac ha sempre considerato la formazione come propedeutica all’azione. Perché il mondo non va solo capito, ma anche trasformato
Successivamente a quel percorso, siamo stati fra i promotori della campagna Stop Ttip, successivamente estesasi a tutti i trattati di libero scambio, i quali, dietro la triade “crescita, concorrenza, competitività” si prefiggono di considerare i diritti del lavoro, i diritti sociali e i diritti della natura come variabili dei profitti delle multinazionali.
Contemporaneamente abbiamo promosso la critica radicale ai vincoli di austerità imposti dall’UE, mettendo al centro da una parte la questione della trappola ideologica del debito e la necessità del suo annullamento, contribuendo alla nascita anche in Italia di CADTM, il Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi. Dall’altra, focalizzando il tema di una nuova finanza pubblica e sociale sia aprendo un focus su Cassa Depositi e Prestiti – che gestisce 280 miliardi di risparmi dei cittadini – sia a livello di comunità territoriali con la recente campagna “Riprendiamoci il Comune”.
Siamo infine fra i promotori del percorso della “società della cura”, uno spazio politico attraversato da centinaia di realtà, nato durante la pandemia per mettere in campo non solo la presa d’atto collettiva della totale insostenibilità del modello capitalistico, ma anche la costruzione di un’alternativa di società basata sul paradigma della cura – di sé, delle altre e degli altri, del vivente e del pianeta – contro l’attuale paradigma del profitto che permea la società, la natura e l’intera vita delle persone. Siamo una piccola e importante realtà con un unico obiettivo: contribuire a cambiare il mondo per renderlo abitabile con dignità per tutte e tutti.
Sorgente: Marco Bersani: Attac e il sogno di un mondo “abitabile con dignità” — Liberacittadinanza
>L’estrema Destra di rabbia e da paura I Paesi Bassi si sono risvegliati con un paesaggio politico sconvolto dal verdetto delle urne, definito un ‘cataclisma’ da molti analisti, seppure preannunciato dagli ultimi sondaggi, al termine di una campagna elettorale molto breve e movimentata. Wilders ha […]
Europa Fascismo - Nazismo Politica Estera>L’estrema
Destra di rabbia e da paura
I Paesi Bassi si sono risvegliati con un paesaggio politico sconvolto dal verdetto delle urne, definito un ‘cataclisma’ da molti analisti, seppure preannunciato dagli ultimi sondaggi, al termine di una campagna elettorale molto breve e movimentata. Wilders ha già dato il via a trattative con potenziali ma difficili potenziali alleati per riuscire a formare una coalizione di governo. Ma prima cercare di capire cosa potrà accadere, serve ragionare su cosa e perché è accaduto.
Le tre lezioni della vittoria dell’estrema destra olandese
Il titolo di Internazionale al commento di Pierre Haski, France Inter, già dice molto. «Per molto tempo Geert Wilders è stato una figura eccentrica e inquietante, ma allo stesso tempo marginale nel paesaggio politico olandese. Famoso per le sue dichiarazioni contro i musulmani, Wilders ha insultato in particolare i marocchini, molto presenti nei Paesi Bassi, venendo anche condannato per questo».
L’ex ‘eterno perdente’. Sul vincente finale vedremo
«Sempre terzo o quarto alle elezioni, il 22 novembre Wilders ha finalmente vinto. Lo stupore suscitato dal risultato elettorale è proporzionale alla portata del suo successo: 37 seggi su 150, il doppio rispetto alla legislatura precedente. La ricetta è la stessa vista in altri paesi: un programma contro l’immigrazione che sfrutta la paura. La vittoria di Wilders riflette una tendenza diffusa in tutto il continente, dalla Svezia al Portogallo, passando per l’Italia e naturalmente per la Francia».
Le tre lezioni
In attesa di sapere se Wilders avrà i numeri per governare – dovrà stringere alleanze per formare una coalizione – possiamo trarre almeno tre lezioni dalla vittoria dell’estrema destra in uno dei paesi fondatori dell’Unione europea.
Uno, immigrazione senza soluzioni credibili
«Prima di tutto, i partiti tradizionali – di destra e di sinistra – non hanno saputo trovare toni e idee sul tema delle migrazioni che potessero contrastare il discorso aggressivo dell’estrema destra, basato sulla chiusura.
La destra pensa d’impedire al suo elettorato di spostarsi verso l’estrema destra comportandosi come gli estremisti, ma in questo modo non fa altro che aprirle la strada. La sinistra si rifugia sul terreno delle discriminazioni. In Germania abbiamo visto nascere addirittura un partito contro l’immigrazione di sinistra».Quando l’estrema destra arriva al potere, com’è successo in Italia, mostra la sua mancanza di soluzioni. L’Europa avrebbe i mezzi per affrontare l’argomento in modo adeguato, ma finora non è riuscita a superare le contraddizioni interne.
Due, partiti tradizionali da rinnovare
«La seconda lezione riguarda l’incapacità dei partiti tradizionali di rinnovarsi, favorendo gli estremisti. La forza dei grandi partiti si è ridotta sensibilmente, come dimostrano i casi della Francia e dell’Italia. Il risultato è stato l’emergere di coalizioni improbabili o di esperienze instabili. L’estrema destra può rivendicare di non essere stata ancora messa alla prova, come ha fatto Meloni in Italia l’anno scorso».
Tre, lo stato dell’Europa
«Infine, la terza lezione riguarda lo stato dell’Europa, sempre più preoccupante. Viviamo un momento di cambiamento negli equilibri del mondo, di guerre e rivalità. Per non parlare del possibile ritorno di Donald Trump alla guida degli Stati Uniti, che di sicuro non farebbe sconti agli europei.
La strategia più logica sarebbe quella di rafforzare l’Europa per affrontare questa ridefinizione dei rapporti di forza. Ma lo smarrimento dell’opinione pubblica, la mediocrità delle ambizioni politiche e le manipolazioni di ogni tipo sui social network hanno l’effetto contrario. I nazionalisti propongono soluzioni locali quando le sfide sono su scala molto più grande».Dopo la catastrofe Brexit, prossima ‘Nexit’?
Pensavamo che gli europei avessero imparato qualcosa dal suicidio in diretta del Regno Unito con la Brexit. Eppure, sette anni dopo, gli olandesi hanno eletto un sostenitore della Nexit, l’uscita dei Paesi Bassi dall’Unione europea. Una notizia poco incoraggiante in vista delle elezioni europee del prossimo giugno.
Geert Wildel sarà capace di governare?
Pur avendo edulcorato le sue dichiarazioni populiste, anti-immigrazione, anti-Islam ed euro-scettiche durante la campagna elettorale, il 60enne Wilders, soprannominato il ‘Trump olandese’, rimane fedele alla sua storica linea ideologica, come si evince dal suo programma di governo. Il leader di estrema destra si è nuovamente impegnato a «garantire che lo tsunami dei richiedenti asilo e immigrazione si riduca». Secondo le prime analisi, la coalizione che si profila all’orizzonte avrà un impatto determinante sulle politiche dell’Olanda in materia di immigrazione, di lotta ai cambiamenti climatici, in chiave restrittiva, destinata anche a ridimensionare il posto del Paese nell’Unione europea.
Lo sguardo da Bruxelles
A meno di sette mesi dalle elezioni europee, l’arrivo al potere di Wilders crea allarme a Bruxelles e in molte capitali europee.
- Il leader di estrema destra olandese, che ha criticato la visita del presidente Zelenskyj la scorsa primavera all’Aia, si oppone alla consegna di armi all’Ucraina, e rifiuta di vederla aderire alla Nato. Lui, oltre all’ungherese Orban, al neo premier slovacco Fico, e ai dubbi turchi di sempre.
- Male anche per l’uscente premier Rutte, che aveva manifestato il suo interesse per la carica di segretario generale della Nato e che era in buona posizione per ottenerla, che ora rischia di avere più difficoltà a convincere gli alleati a nominarlo.
- Problemi anche per l’ex commissario e vice presidente della Commissione Ue Timmermans, che ha lasciato la Commissione europea per intraprendere la campagna elettorale, e ha subito una dura battuta d’arresto.
Accusato di aver trascorso troppo tempo a Bruxelles, non è mai riuscito a essere protagonista nella campagna elettorale in patria, ma ora promette battaglia: «Ora è giunto il momento di difendere la democrazia. Continueremo a difendere lo Stato di diritto, insieme ad altri democratici. Per noi lo Stato di diritto è sacro».
Sorgente: Perché in Olanda ha vinto un’estrema destra con problemi a governare –
Una legge di non facile applicazione e un grande progetto ma tutto privato: così in Italia proteggiamo i sopravvissuti alla violenza Elisa Messina «Orfani speciali» li chiamava Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa che, per prima (prima anche dello Stato) si dedicò a una ricerca […]
- Rassegna Stampa Donne femminicidio Governo PoliticaUna legge di non facile applicazione e un grande progetto ma tutto privato: così in Italia proteggiamo i sopravvissuti alla violenza
«Orfani speciali» li chiamava Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa che, per prima (prima anche dello Stato) si dedicò a una ricerca sugli orfani dei femminicidi: «Quei tanti orfani di mamme uccise dai padri. Tanti, tantissimi ma ignorati e segregati – Scriveva Baldry nel 2017 nel presentare un enorme dossier a cui lavorava da tre anni – Come stanno oggi, dopo 5, 10, 15 anni da quel tragico e assurdo giorno? Chi sono? dove sono adesso? E cosa è accaduto loro, dove stanno, con chi? A questi figli cosa è stato detto? La legge cosa ha fatto di loro? E quegli adulti che si sono ritrovati ad aprire le loro case che sostegno psicologico ancora prima che economico è stato dato, se è stato dato, dovendo loro stessi, i familiari delle vittime, elaborare il loro di lutto e trauma, nonché gestire tuti i problemi sociali e giuridiche derivanti dall’omicidio?».
Quando Baldry si poneva queste domande gli orfani di femminicidio erano, agli occhi della legge, equiparati a tutti gli altri orfani. Il legislatore non si era posto il problema di pensare al loro diritto di futuro oltre il lutto tremendo che li aveva colpiti. Oggi, a quasi dieci anni dalla partenza del primo progetto di mappatura dedicato a loro e alle persone che se ne prendono cura, possiamo dire che qualcosa si è mosso, una legge ad hoc esiste. Ma c’è ancora molta strada da fare. In varie direzioni.
Innanzitutto, quanti sono e chi li aiuta? «Non ci sono stime ufficiali su quanti siano gli orfani delle vittime di femminicidio in Italia, come non esiste una mappatura dei femminicidi anche se il Ministero dell’Interno ci sta lavorando» spiega Mariangela Zanni, consigliere nazionale di D.i.Re, Donne in rete contro la violenza. Oggi un primo progetto, privato ma dalle dimensioni importanti, dedicato agli orfani e alle loro famiglie esiste ed è stato varato dall’impresa sociale «Con i bambini» nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Si chiama «A braccia aperte», prevede un investimento di 10 milioni che arrivano dalle fondazioni bancarie (Acri) e si snoda capillarmente su tutto il territorio nazionale in quattro progetti (Nord Est, Nord Ovest, Centro Italia e Sud) coinvolgendo operatori pubblici e realtà del terzo settore: cooperative, associazioni, centri antiviolenza.
Sono 157 gli orfani presi in carico dai progetti su scala nazionale attivati da «Con i Bambini» nell’iniziativa «A braccia aperte». Ma è un dato variabile perché altri 260 in tutta Italia sono stati già agganciati e a breve inizieranno anch’essi un percorso di sostegno e accompagnamento con le loro famiglie. I numeri maggiori sono al Sud. «Ma perché al Sud il lavoro di ricerca e sostegno è iniziato da molto tempo» rivela Fedele Salvatore, presidente dell’associazione Irene 95 che da anni a Napoli si occupa di minori vittime di violenza assistita e che partecipa al progetto per il sud «Respiro».
Il 74 per cento ha tra i 7-17 anni, il 17% tra i 18-21 e l’8% ha meno di 6 anni.
«Per rintracciarli abbiamo fatto un capillare lavoro di ricerca su siti di informazione, servizi sociali, tribunali, centri antiviolenza. Siamo risaliti fino a delitti commessi 9 o 10 anni fa» spiega Anna Agosta, consigliere D.i.Re e presidente dell’Associazione Thamaia Onlus che partecipa al progetto «Respiro». «Abbiamo incontrato orfani storici sui quali si era sedimentata un’assenza di attenzione – racconta Salvatore – Alcuni non hanno mai incontrato i servizi sociali, ad altri, a distanza di 5,6 anni dal delitto non era stata mai raccontata la verità sui fatti: “la mamma è morta in un incidente” è spesso la pietosa bugia ricevuta. Non è stato semplice, dopo tutto questo tempo, raccontare la verità, ma è solo comunicando la verità, in modo corretto che si possono aiutare questi ragazzi. Le bugie dette per “buon senso” non aiutano, anzi, finiscono per far danni».
Il 36% di loro era presente quando è stata uccisa la madre. Uno su quattro ha assistito. L’impatto psicologico che ne deriva è devastante e porta a una vera sindrome denominata «child traumatic grief»: la sofferenza è tale che il bambino diventa incapace di elaborare il lutto e si trova intrappolato in uno stato di dolore cronico. «Per questo, intorno all’orfano e all’enormità di quello che lo colpisce devono lavorare persone competenti con un approccio che si chiama “trauma informed”, focalizzata sulla comprensione del trauma e la sua elaborazione» racconta Salvatore.
Il 13% degli orfani presenta forme di disabilità.
Il 42% vive in famiglie affidatarie, spesso gli zii o i nonni della mamma, il 10% vive in comunità (pensiamo ai minori stranieri che non hanno parenti qui), il 10% con una coppia convivente e solo il 6% è stato dato in adozione.
L’83% delle famiglie affidatarie arriva a fine mese con grande difficoltà, anche per la necessità di dover ricorrere a specialisti e professionisti che aiutino i bambini. Quindi il sostegno organizzato dal progetto “A braccia aperte” non può che essere articolato: è psicologico, economico ed educativo ed è rivolto ai minori e alle loro famiglie. Ma prevede anche interventi nelle scuole frequentate dai minori, progetti di avviamento al lavoro, pagamento di rette universitarie. Importante anche la parte dedicata alla formazione di tutti gli operatori coinvolti: quelli dei servizi socio-sanitari, dei Centri antiviolenza, le forze dell’ordine, il personale del tribunale per i minorenni, gli insegnanti. «Proprio per evitare tutti quelli errori commessi spesso in buna fede da familiari o da operatori pubblici. In alcuni casi, poi, la famiglia affidataria è quella del padre omicida con tutto quello che questo comporta, ovvero si tende a giustificare il crimine del familiare in carcere parlando di raptus. E si porta il minore dal padre in prigione senza prepararlo a un incontro come quello» racconta Salvatore.
Le risorse in campo per il progetto nazionale sono importanti: 10 milioni messi a disposizione dal Fondo per le povertà educative che dispone, in totale, di 760 milioni forniti dalle fondazioni bancarie (Acri) che ottengono in cambio dallo Stato un credito d’imposta. «Stiamo parlando del primo progetto nazionale, anzi, il primo in Europa pensato su misura per sostenere questi bambini e ragazzi raggiungendoli sul territorio» spiega Zanni, «coinvolge tante realtà del terzo settore e servirà per dare linee guida alle istituzioni in modo che colmino quel vuoto che c’è stato finora».
Che cosa ha fatto il legislatore per questi orfani e per le famiglie che li hanno accolti? si chiedeva Baldry. Una legge dedicata in effetti, c’è, la n°4 del 2018, che riconosce una serie di tutele processuali ed economiche. Per esempio si procede automaticamente al sequestro dei beni dell’indagato per risarcire i danni dei figli della mamma uccisa. Un analogo automatismo trasferisce l’eredità della madre ai figli. Già, prima accadeva che la pensione di reversibilità della donna uccisa finisse al partner in carcere. Inoltre si stabilisce un fondo economico dedicato e si dà la possibilità a questi orfani di cambiare cognome.
«La legge è la risposta a qualcosa che Baldry ha svelato, ovvero i bisogni degli orfani e come rendere più agevole per loro il “dopo”. Dalla partecipazione al processo all’eredità, al recupero di un risarcimento del danno, ai bisogni materiali» spiega Elena Biaggioni, penalista e vicepresidente D.i.Re. «Una legge innovativa ma con il grosso limite di essere poco conosciuta e poco usata anche perché le procedure per la sua applicazione sono complesse». La criminologa, scomparsa nel marzo 2019, fece appena in tempo a vedere l’approvazione della norma di cui era stata stimolo. Ma i cui decreti attuativi furono varati ben due anni dopo.
«Familiari e care giver degli orfani, non sono in grado di destreggiarsi tra i commi e gli articoli. Per non parlare della modulistica da compilare e presentare in prefettura rispettando scadenze e burocrazia» spiega Fedele Salvatore. A che serve una buona legge se poi le persone non riescono ad usufruirne? Ora il progetto “A braccia aperte” sta evidenziando tutte le difficoltà pratiche e offrendo soluzioni di semplificazione anche attraverso specialisti e legali che affianchino le famiglie affidatarie. Un esempio tra i tanti che ci fa capire che la legge va semplificata ce le spiega Salvatore: «Tutti i benefici finanziari di cui gli orfani hanno diritto, a partire dal sequestro dei beni, sono applicabili quando c’è una sentenza di condanna anche di primo grado. Ma decadono in caso di suicidio del padre omicida. E questo avviene circa nel 30 per cento dei femminicidi».
Non solo. La legge prevede copertura per spese medico-sanitarie ma si tratta quasi esclusivamente di sostegno psicoterapeutico. Ma un bambino può aver bisogno, banalmente, di un apparecchio per i denti. Così, anche in questi casi, interviene il nuovo progetto con la possibiltà di doti specifiche.
Parlando con gli esperti e gli operatori che hanno lavorato al progetto si scopre che non è stato affatto semplice convincere le persone a fidarsi e affidarsi specie quando si risale a delitti indietro nel tempo. «Molti preferiscono non rivangare – racconta Zanni che lavora al progetto Nord Est – Abbiamo trovato persone arrabbiate, che non si sono sentite comprese». Per questo uno dei nodi del progetto è quello di attivare protocolli di aiuto dedicati alle prime ore dopo il trauma quando la famiglia è scioccata e frastornata: ci vogliono persone specializzate che sappiano comunicare e accompagnare. Anche in dettagli apparentemente marginali, come la partecipazione a un funerale.
«Mio padre ha ucciso mia madre»: vivere da orfani di femminicidio
clicca il link per sentire la testimonianza
Sorgente: Quanti sono gli orfani di femminicidio e chi si prende cura di loro?- Corriere.it
La psicologa: ‘La cultura del possesso sminuita anche tra i giovani’ (ANSA) “Sei mia o di nessun altro”. Nei recenti femminicidi emerge l’incapacità dei maschi violenti, anche giovanissimi, di accettare un rifiuto. Ma c’è anche la difficoltà di molte giovani a percepire alcuni comportamenti, come […]
- Rassegna Stampa Donne femminicidio informazione Politica violenze sulle donneLa psicologa: ‘La cultura del possesso sminuita anche tra i giovani’ (ANSA)
“Sei mia o di nessun altro”.
Nei recenti femminicidi emerge l’incapacità dei maschi violenti, anche giovanissimi, di accettare un rifiuto. Ma c’è anche la difficoltà di molte giovani a percepire alcuni comportamenti, come il controllo dello smartphone, come violenza. “Occorre agire subito, con l’educazione affettiva che coinvolga non solo scuola, ma famiglie e società in modo trasversale”, spiega Maria Spiotta, psicologa di Differenza Donna, che gestisce il numero antiviolenza 1522.
Video Dal raptus alla gelosia, gli stereotipi da abbattereguarda il video cliccando il link in fondo all’articolo
La violenza di genere, sottolinea la psicologa, “ha un sommerso importante: anche sulle vittime si parla di numero oscuro. Non c’è una sola causa di questa violenza, ma un legame con la cultura del possesso c’è, in una società intrisa di stereotipi rispetto ai ruoli maschili e femminili”. Nelle facoltà scientifiche, ad esempio, le immatricolazioni delle ragazze sono basse. Un problema che nasce da piccoli, spiega l’economista Azzurra Rinaldi: studi sul divario di genere nelle aspirazioni (dream gap) evidenziano come molte bambine già a 5 anni non si sentano “intelligenti”. Nei libri, fin dalla primaria, “la mamma stira, il papà lavora”, aggiunge l’economista autrice del volume “Le signore non parlano di soldi”.
Al 1522, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, sono aumentate le chiamate di ragazze che, di fronte a un atto violento, parlano di “discussione” o “gelosia”. “Raccontano, ad esempio, che non riescono a prendere la parola nella relazione, ma hanno difficoltà a individuare la violenza. Bisogna dare un nome alle cose”, spiega Maria Spiotta. “Serve anche tornare a trasmettere empatia. Ben venga l’educazione affettiva nelle scuole di ogni ordine e grado, meglio se curricolare – purché coinvolga le famiglie, fondamentali nel dialogo con i figli – e sia fatta da esperte che lavorano sul campo da anni”, conclude la psicologa.
Sorgente: Contro la violenza sradicare gli stereotipi fin da bambini – 25 novembre – Ansa.it
Edizione del 25 novembre 2023 A Roma e a Messina arriva l’onda transfemminista. La Giornata internazionale contro la violenza di genere punta al cuore nero del paese dei cento femminicidi in un anno. Dove una presidente del Consiglio donna si regge su un sistema di […]
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A Roma e a Messina arriva l’onda transfemminista. La Giornata internazionale contro la violenza di genere punta al cuore nero del paese dei cento femminicidi in un anno. Dove una presidente del Consiglio donna si regge su un sistema di potere maschile
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LOTTA LIBERANel magazzino di Castel San Giovanni abbiamo incrociato le braccia per quattro volte in un mese e mezzo, ma non finisce qui. Oggi siamo al fianco delle donne che protestano a Roma e Messina. Il 22 dicembre nuova astensione dal lavoro
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Gli Arabi sarebbero fuggiti perché “spinti dall’orrore della guerra, in parte istigati dai governi arabi a fuggire” (pag. 39)Mi meraviglio che lei non conosca e non citi le opere degli storici israeliani “revisionisti” che hanno avuto modo di studiare tutta la documentazione desecretata dagli archivi israeliani negli anni ’80, compresi i diari di Ben Gurion. Mi riferisco in particolare allo splendido libro “La pulizia etnica della Palestina” del noto storico Ilan Pappé, già professore all’università di Haifa e che oggi insegna all’università di Exeter in Inghilterra. Pappé ricorda e dimostra con ampia documentazione che alla base dell’esodo degli Arabi vi fu uno spietato piano di pulizia etnica (cosiddetto Piano Dalet) studiato a tavolino dai Sionisti negli anni precedenti e poi attuato con estrema brutalità e cinismo dalle ben organizzate milizie ebraiche sotto la direzione del “socialista” Ben Gurion. Attenzione! In questo caso sono importanti le date. La pulizia etnica iniziò già alla fine del 1947 e continuò fino al maggio del 1948, cioè già 6 mesi prima della proclamazione dello stato di Israele (14 maggio) e quindi anche prima del susseguente intervento (debole e scoordinato) degli stati arabi, quando la pulizia etnica e l’occupazione della maggior parte della Palestina già era stata fatta.Il segnale per l’inizio dell’operazione di evacuazione forzata, operata con massacri di interi villaggi, bombardamenti di interi quartieri cittadini come ad Haifa, sgomberi sotto minaccia delle armi, accompagnamento di intere comunità alla frontiera caricate su camion, fu la risoluzione dell’ONU 181/1947 nel novembre del 1947. Questa risoluzione, contenente una proposta di spartizione della Palestina, peraltro non vincolante e senza che fosse stata minimamente consultata la popolazione araba maggioritaria nel paese favorevole ad uno stato unico interetnico e interreligioso, era sotto molti aspetti assurda e di difficilissima attuazione. Basti dire che fu assegnato il 56% del territorio agli Ebrei che all’epoca erano solo un terzo della popolazione residente e che quasi tutti i distretti assegnati al futuro stato ebraico erano a maggioranza di popolazione araba, con la sola eccezione del distretto di Tel Aviv! Ben Gurion e gli atri dirigenti sionisti capirono, molto lucidamente dal loro punto di vista, che per far sorgere Israele era necessario cacciare preventivamente la maggior parte degli arabi palestinesi per permettere la colonizzazione. E così fu fatto, ad imitazione dei nordamericani che cacciavano i pellerossa per avere spazio per i coloni.Anche altri storici israeliani hanno ricordato questi fatti, tra cui anche Benny Morris che lei cita in bibliografia, ma senza però ricordarne l’opera principale che lo rese inviso all’establishment sionista: “La nascita del problema dei profughi palestinesi revisionato” (1988). Morris fu anche licenziato dal “Jerusalem Post” e imprigionato per obiezione di coscienza; ma poi è stato “perdonato” ed è divenuto professore all’università di Beer Sheba per alcune sue successive dichiarazioni del tipo: si c’è stata la pulizia etnica, ma è stato un “male necessario”. Necessario a chi? Non certo ai Palestinesi, ma certamente necessario per poter far nascere Israele. La politica di pulizia etnica dell’intera Palestina (sogno mai smentito dai Sionisti) è andata avanti in varie fasi e con diverse modalità per 75 anni. Oggi si manifesta con la progressiva colonizzazione forzata della Cisgiordania e la progressiva espropriazione dei suoi abitanti, e con la grande operazione di pulizia etnica in corso a Gaza dove già un milione e 700.000 Palestinesi hanno dovuto lasciare le proprie case e dirigersi verso la frontiera egiziana sotto l’incalzare dei bombardamenti. Credere alla storiella che l’uccisione di quasi 15000 persone, in maggioranza bambini e donne, la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali, sia fatta per stanare qualche piccolo gruppo di guerriglieri di Hamas (pag. 14) è un insulto all’intelligenza. Sulla questione di Gaza consiglio di leggere anche il libro di Pappè “Ultima fermata Gaza” e quello di Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi: “Gaza e l’industria israeliana della violenza”, che parlano anche dei massacri avvenuti negli ultimi 20 anni.Meraviglia anche che nel libro, già dal retrocopertina, lei accrediti l’altra storiella propagandistica alimentata dai Sionisti sul fatto che la colonizzazione della Palestina sarebbe un “ritorno” degli Ebrei dispersi 2000 anni orsono nella cosiddetta “diaspora”. Vi fu nell’antichità una parziale diaspora, sia volontaria in cerca di fortuna ad Alessandria e Roma, sia forzata dalle deportazioni seguite alle rivolte antiromane del 68/70 e del 135 d.c. Tuttavia il nucleo principale degli antichi abitanti della Palestina si è mantenuto ed è in buona parte alla base dell’attuale popolazione palestinese, convertitasi prima al Cristianesimo e poi all’Islam. Mi meraviglia che lei ignori il best-seller di un altro noto storico israeliano, professore all’università di Tel Aviv, Shlomo Sand: “L’invenzione del popolo ebraico”. In questo noto libro Sand contesta il mito della diaspora e del “ritorno”, ricordando che gli Ebrei moderni sono frutto di conversioni di intere popolazioni. Gli Askenaziti europei discendono da una popolazione nord-caucasica abitante nella Russia meridionale (i Cazari), mentre i Sefarditi discendono dalla conversione di tribù berbere, trasferitesi in Spagna insieme agli Arabi (con cui andavano perfettamente d’accordo) e poi cacciate dai re cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, nel 1492. Il progetto nazionalista e colonialista sulla Palestina ad opera dei Sionisti askenaziti (che peraltro rappresentano un ramo secondario e minoritario della grande tradizione ebraica) deve essere visto come un’impresa coloniale europea in Medio Oriente. La maggior parte degli Askenaziti in Russia e Polonia erano in realtà socialisti e comunisti e lottavano per una rivoluzione sociale collettiva che liberasse anche loro.Infine vorrei contestare un’altra storiella propagandistica molto sfruttata: quella secondo cui a Camp David nel 2000 fu offerta da Barak ai Palestinesi una soluzione imperdibile che essi rifiutarono (pag. 78). In realtà fu offerto ai Palestinesi solo il 73% di quel già modestissimo 22% del territorio occupato dagli Israeliani con la guerra del 1967, cioè il 16% complessivo!. Le colonie ebraiche non sarebbero state smantellate. Il territorio palestinese sarebbe stato diviso in varie zone staccate, non comunicanti. I confini esterni e lo spazio aereo dello staterello palestinese (rigorosamente demilitarizzato) sarebbero rimasti sotto il controllo israeliano. La “capitale” palestinese sarebbe stato il villaggio di Abu Dis presso Gerusalemme, città che restava tutta sotto il controllo di Israele dopo l’annessione anche di Gerusalemme Est. Inoltre Il diritto al ritorno dei profughi (in accodo la nota risoluzione dell’ONU 194/1948) non era riconosciuto, forse perché il ritorno porterebbe ad una popolazione palestinese di 12 milioni di persone contro i 7 milioni di Ebrei israeliani In altre parole era come offrire ai pellerossa di Toro Seduto e Cavallo Pazzo una piccola riserva controllata dai “bianchi”. Anche su questo si può leggere l’articolo di Ilan Pappé: “Il processo di pace è da sempre in un vicolo cieco” (16 ottobre 2020) , pubblicato anche in Italia dalla rivista Jacobin.Le amare parole di Pappé ci fanno riflettere sul fatto che la pace è lontana. La soluzione “due stati”, ipocritamente portata avanti dagli Occidentali, è ormai impraticabile perché il processo di colonizzazione è andato troppo avanti. Sarebbe auspicabile un unico stato plurietnico e multiconfessionale con uguali diritti per tutti; ma questo comporterebbe un grande passo indietro da parte degli Israeliani, come quello che fecero i Bianchi del Sudafrica permettendo la nascita di uno stato multietnico. Purtroppo nel 2018 Israele ha ribadito il suo carattere rigidamente confessionale con la legge costituzionale che afferma che Israele è lo stato dei soli Ebrei, dove solo gli Ebrei godrebbero della piena cittadinanza. Questa affermazione rende ridicola anche l’affermazione che Israele sarebbe “l’unica democrazia del Medio Oriente”, visto che questa presunta democrazia non si applica ad un’altra popolazione (già più numerosa della popolazione di fede ebraica anche senza i profughi: sette milioni e mezzo contro 7 milioni) oppressa, occupata militarmente, scacciata, espropriata e colonizzata da 75 anni.Cordiali Saluti,
Sorgente: ISRAELE E I PALESTINESI: LETTERA APERTA A MARCO TRAVAGLIO – OP-ED – L’Antidiplomatico