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27 April 2024
0 7 minuti 7 mesi

Il secolo armeno. Pochi in piazza contro il premier Pashinyan, ma gli armeni si sentono traditi da Mosca

In una sola settimana il Nagorno-Karabakh è diventata terra di nessuno. I militari azeri pattugliano la regione e fanno bella mostra dei trofei di guerra ritrovati nei magazzini. Intorno a loro, il deserto. Oltre 100mila sfollati dal Nagorno-Karabakh sono fuggiti in Armenia, ormai non resta che una piccola parte dei 120mila residenti che abitavano la Repubblica dell’Artsakh prima dell’operazione fulminea di Baku e si sa che ci sono 40 pullman inviati dal governo armeno per evacuare chi non aveva un mezzo proprio. Nei pressi della frontiera sudorientale i tendoni della Croce Rossa sono ancora lì, mezzi vuoti, i volontari finalmente possono sedersi e riposare dopo giornate infinite.

INTANTO A EREVAN continuano ad arrivare profughi nei centri d’accoglienza, mentre l’opposizione ha provato a organizzare l’ennesima protesta di massa fuori dal parlamento che però potrebbe aver seppellito la speranza di rovesciare il governo in carica. Come se la situazione non fosse già al limite, in serata l’ennesima notizia inattesa porta nuova apprensione: il ministero della Difesa azero ha dichiarato che un suo soldato è stato ucciso da un cecchino armeno vicino all’area di Kut. «Si stanno prendendo le misure del caso» hanno fatto sapere da Baku.
Mercoledì scorso, l’«operazione anti-terrorismo» azera era iniziata proprio con le accuse, finora non supportate da alcuna prova, del governo di Aliyev agli indipendentisti armeni di aver ucciso sei suoi soldati. Poche ore dopo i reparti azeri erano in marcia verso le città del Nagorno-Karabakh. E ora? «Sto provando a sentire qualcuno al ministero», ci dice David, che ha buoni contatti ovunque. Le speculazioni aumentano la tensione. «Non credo che siano così sfacciati da iniziare una guerra mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulla crisi umanitaria del Karabakh» azzarda, «ci sono anche gli osservatori dell’Onu; o, almeno, dovrebbero esserci a breve».

NELL’ATTESA di sviluppi l’Armenia ha intentato una causa contro l’Azerbaigian presso la Corte internazionale di giustizia. Nel testo si chiede alla Corte di sostenere i diritti tutelati dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Cerd). Contemporaneamente, Erevan ha chiesto assistenza alla Commissione europea per sostenere economicamente gli sfollati giunti dal Nagorno-Karabakh. La scelta non è casuale: nonostante la mancanza di continuità geografica, in Armenia (principalmente a Erevan) in molti guardano all’Europa come comunità di riferimento.

Le radici cristiane, i continui scambi culturali e l’importante emigrazione verso la Francia hanno creato, soprattutto dopo la Rivoluzione di Velluto del 2018, una grande aspettativa verso Bruxelles. E l’Ue non ha mai raffreddato le spinte europeiste dell’attuale governo armeno (nato proprio nel 2018), salvo poi disinteressarsene completamente allo scoppio della guerra del 2020. A ciò si aggiunga la crescente dipendenza dei Paesi Ue dal gas e dal petrolio azero in sostituzione di quello russo e quindi al momento sembra assai improbabile che le istituzioni europee possano schierarsi nettamente con l’Armenia o imporre sanzioni all’Azerbaigian. Sul versante interno, il criticatissimo premier armeno, Nikol Pashinyan, può tirare un sospiro di sollievo: al momento non c’è nessuno in grado di mettere in discussione seriamente la sua leadership.

A CONCLUSIONE della manifestazione nella grande Piazza della Repubblica, il politico Vazgen Manukyan ammette: «Il ‘Comitato nazionale’ si è assunto la responsabilità di rimuovere Nikol Pashinyan. Abbiamo stabilito una tabella di marcia chiara per farlo. Non ha funzionato, abbiamo commesso un errore perché abbiamo sopravvalutato la nostra forza umana e organizzativa». In altri termini, la piazza dell’opposizione ha perso. Intanto i leader della vecchia Armenia pagano lo scotto di essere considerati filo-russi. E, nonostante, i tentativi della propaganda russa di imputare la disfatta alla politica «vassalla della Nato» di Erevan, la stragrande maggioranza degli armeni accusa la Russia di tradimento.

IL MANCATO intervento del contingente di pace durante i mesi di embargo imposto dalle truppe azere e il disinteresse durante l’operazione militare della settimana scorsa (malgrado l’alto ufficiale russo ucciso dai soldati di Baku) hanno aperto una spaccatura che sta progressivamente erodendo il consenso di cui Mosca godeva. Per l’armeno medio Pashinyan è colpevole di non aver saputo proteggere il proprio Paese e di scelte errate in politica estera, ciò è fuori di dubbio; ma la Russia è colpevole di abbandono nel momento del bisogno. Persino molti degli anziani abitanti del Nagorno-Karabakh, i più strenui sostenitori della tradizionale vicinanza Erevan-Mosca, non difendono più il Cremlino (come pure avevano fatto dopo la sconfitta nella guerra del 2020, in cui la Russia non era intervenuta).

La tesi che si sente più spesso è che per punire la svolta filo-occidentale del governo di Pashinyan, il Cremlino abbia deciso di lasciare l’Azerbaigian libero di agire, d’accordo con la Turchia. È solo una teoria, ma potrebbe non essere troppo lontana dalla realtà. E, in ogni caso, la perdita di un «vassallo» nel Caucaso meridionale per Mosca è un danno enorme. Soprattutto se si considera il rafforzamento del panturchismo di Erdogan, assurto a deus ex machina degli equilibri regionali. Anche per questo, a breve, «i canali tv russi in Armenia potrebbero essere oscurati». Per tutta risposta, Mosca potrebbe aumentare le tariffe del gas diretto in Armenia e adeguarle ai prezzi di vendita all’Europa già dal primo dicembre prossimo.

INSOMMA, si chiude un capitolo di storia per l’Armenia, l’ennesimo capitolo drammatico, e il futuro appare incerto. Ciò che sappiamo è che questa guerra potrebbe portare a una rimodulazione negli equilibri geopolitici del pianeta e che l’ennesima crisi del Nagorno-Karabakh potrebbe essere solo il principio di un nuovo capitolo con protagonisti diversi.

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