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27 April 2024
0 25 minuti 2 anni

La guerra in Ucraina riscrive la politica energetica dell’Europa. E impone delle scelte all’Italia

La guerra scatenata da Vladimir Putin nel cuore dell’Europa ci dice che nulla sarà più come prima. Negli equilibri geopolitici, va da sé. E nella politica energetica del vecchio continente. Il cataclisma innescato dalla marcia dei tank e dai bombardamenti a tappeto russi sull’Ucraina ha prodotto effetti a cascata impensabili fino a poche settimane fa. Bruxelles, come prima reazione, non ha soltanto confermato la sua scelta “green”, accelerando gli investimenti verso rinnovabili e l’idrogeno. Ha trovato – fatto ancora più rilevante e meno scontato – lo slancio per prendere una decisione accarezzata per lungo tempo, ma sempre rimandata: modificare il quadro delle forniture di gas naturale (scelto come combustibile di “transizione” per sostituire carbone e nucleare) per recidere il suo cordone ombelicale con la Russia e diminuirne la dipendenza. Dipendenza, sì. Se si pensa che soltanto nell’aprile dello scorso anno Gazprom – il colosso russo di stato controllato direttamente dal Cremlino, primo produttore al mondo di gas – sottolineava in una nota al mercato, con la dovuta enfasi, i 65 miliardi di metri cubi esportati in un anno verso l’Europa, livello mai raggiunto negli ultimi dieci anni. E che ben si sarebbe potuto nuovamente superare se soltanto fosse arrivato il via libera delle authority europee e tedesche al Nord Stream 2, il raddoppio del gasdotto che, passando sotto il Baltico, collega la Russia con la Germania, assicurando alla Ue una fornitura che da sola vale 55 miliardi di metri cubi.

Non è escluso che le mancate autorizzazioni (i lavori sono terminati a settembre e potenzialmente le forniture potrebbero già iniziare) vadano inscritte tra le cause che hanno convinto Vladimir Putin a scatenare la guerra. Ma che la questione sia centrale lo dimostra il fatto che tra le prime sanzioni decise contro Mosca ci sia proprio la “rinuncia” al Nord Stream 2. E questo nonostante l’infrastruttura sia stata fortemente voluta dai tedeschi: Angela Merkel aveva incontrato Putin negli ultimi mesi del suo mandato alla cancelleria per confermare l’appoggio al progetto, mentre il suo predecessore, il socialdemocratico Gunther Schroeder è stato presidente del consorzio che ha costruito i due gasdotti (di cui fanno parte anche le società tedesche Uniper e Wintershall, l’olandese Gasunie e la francese Engie) e stava per essere nominato nel cda di Gazprom.

 

Il percorso dei gasdotti Nord Stream 1 e 2

 

Energia, o della guerra con altri mezzi

Tutto quanto è accaduto nel mercato del gas fino a oggi non vale più. In attesa che la diplomazia trovi una strada che contenta di far tacere le armi, la politica energetica si è trasformata in una guerra condotta con altri mezzi. Del resto, Vladimir Putin ha commesso tre errori. Il primo, strategico, perché puntava a una guerra lampo per prendere Kiev in pochi giorni. Il secondo, politico, perché non si aspettava una risposta così ferma da parte dell’Unione Europea. E il terzo – economicamente parlando – ancora più grave, perché sta mettendo in pericolo le fondamenta finanziarie del Cremlino costruite principalmente sulle esportazioni di gas naturale, di cui la Russia è la principale produttrice al mondo. E con le quali negli ultimi 20 anni ha stretto rapporti con il resto d’Europa che solo fino a una settimana fa sembravano indissolubili. Insomma, scatenando la guerra è come se Putin avesse cominciato a chiudersi i rubinetti da solo. Non solo del gas, ma anche della valuta pregiata destinata alle casse statali visto che gli idrocarburi (la Russia è anche il terzo produttore al mondo di petrolio) coprono quasi la metà del budget statale.

Consapevole dei rapporti di forza, Gazprom ha giocato per tutto l’inverno con i flussi destinati all’esportazione. Da inizio anno, il gas è arrivato nella Ue in misura inferiore alle medie. Questo fino agli ultimi giorni che hanno proceduto l’invasione, per poi raddoppiare le quantità una volta scoppiato il conflitto. Una strategia a fisarmonica che le è stata utile anche per tenere elevato il livello delle quotazioni. Diverso anche l’uso delle tre rotte su cui viaggia il gas dai ricchi giacimenti siberiani all’Europa: dal nord Stream 1 e dai tubi dall’Ucraina la materia prima è sempre fluita regolarmente nell’ultimo anno; un po’ meno dal gasdotto Yamal che passa dai paesi baltici e dalla Polonia. Ufficialmente, per problemi tecnici e di manutenzione. Ma non è escluso che sia stata una sorta di pressione per sbloccare il Nord Stream 2. In ogni caso, se è di guerra che si tratta, è “asimmetrica”: lo dimostra il fatto che nell’elenco delle banche russe colpite da sanzioni non figura Gazprombank. Perché, nonostante il conflitto, il gas continua ad arrivare in occidente e i paesi Ue in qualche modo lo devono pagare. Persino in questi giorni il gas transita nel sottosuolo della tormentata Ucraina, che incassa le tariffe di passaggio.

È l’ulteriore conferma di un matrimonio problematico, ma allo stesso tempo necessario. Per non restare al buio o al freddo dell’inverno, l’Europa – per ora – ha bisogno ancora del gas russo. Lo dicono i numeri: negli ultimi anni il colosso di stato Gazprom è tornato a coprire oltre il 40% del fabbisogno complessivo di gas consumato degli stati membri della Ue, per riscaldamento o per la produzione di energia elettrica. È di gran lunga il primo fornitore, visto che i giacimenti norvegesi del Mare del Nord – al secondo posto della classifica – soddisfano oramai non più del 17% dei consumi totali.

 

 

 

Tra le braccia della Cina

L’addio al metano di Mosca non è tuttavia senza conseguenze. Perché abbandonare il gas russo, significa non solo doversi garantirsi fonti di approvvigionamento alternative. Ma accettare il fatto che il Cremlino possa legarsi economicamente – e dunque politicamente – sempre di più a Pechino. Non per nulla, proprio nelle ore in cui sono partiti i primi colloqui tra le delegazioni russa e ucraina in Bielorussia, Gazprom ha fatto sapere di aver chiuso in via definitiva l’accordo – annunciato nel dicembre 2019 – per la costruzione di un gasdotto lungo 3mila chilometri in grado di portare in Cina fino a 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno. La stessa quantità garantita dal Nord Stream 1 e 2 verso la Germania, più di cinque volte la capacità del gasdotto Tap. Si chiamerà “Forza della Siberia” ed è il più grande contratto mai sottoscritto da Gazprom nella sua storia. Si tratta di un progetto avviato da Mosca proprio per anticipare la strategia energetica europea che ha deciso di uscire definitivamente dai fossili entro il 2050. Trovare partner alternativi a cui spedire il gas ancora per qualche anno, oltre che affidabili pagatori. E Pechino è entrambe le cose, visto che ha fissato l’uscita dai fossili al 2060 e ha un bisogno disperato di gas da sostituire al carbone che sta soffocando le sue megalopoli in una cortina velenosa di CO2.

 

La svolta di Bruxelles

La domanda, ora, è fino a che punto si spingerà la politica di autonomia di Bruxelles. E fino a che punto userà l’arma energetica. E, soprattutto, dove trovare le alternative per sostituire il gas russo. Per rispondere, si deve necessariamente partire dalla scelta politica. Il cambio di paradigma è stato spiegato dell’Alto rappresentante dell’Ue per la Politica estera, Josep Borrell, al termine del Consiglio europeo di difesa pochi giorni fa:

L’energia non potrà restare fuori da questo conflitto. Che ci piaccia o meno abbiamo una dipendenza dal gas e dal petrolio russo e la dobbiamo diminuire il prima possibile. Questa riduzione della dipendenza è una politica esistenziale

Come e con quali conseguenze? “La dipendenza è aumentata nel corso degli anni, mentre dicevamo di volerla ridurre e non abbiamo fatto altro che aumentarla e aumentarla”, ha aggiunto Borrell. “È il momento di ridurla sul serio per mezzo delle rinnovabili e dell’idrogeno, anche se ci saranno turbolenze nel mercato energetico, come succederà e sta succedendo, e aumenteranno i prezzi che verranno pagati dai consumatori”

La risposta, in ogni caso, non può che partire dalla Ue. Che già aveva mosso i primi passi in questa direzione ancora prima che salisse l’allarme ai confini ucraini, all’interno delle discussioni per combattere il caro energia. La prime timide proposte ora diventeranno una strada da percorrere molto più velocemente: una politica di acquisti comuni (di non facile realizzazione in un settore fortemente liberalizzato) ma soprattutto di infrastrutture comuni. Bruxelles ha già accolto l’idea di un sistema di stoccaggi da gestire tramite un consorzio di operatori (di cui l’italiana Snam sarà uno dei perni nel suo ruolo di leader europeo del trasporto gas). Si tratta di ex giacimenti esausti trasformati in depositi dove immagazzinare materia prima da utilizzare in caso di emergenza climatica ma anche per calmierare i prezzi. Per ironia della sorta, una parte di questi ex giacimenti era già stata individuata proprio in Ucraina.

La rete dei gasdotti in Europa

 

Rielaborazione dati Repubblica 

 

Il secondo punto riguarda i gasdotti. L’alternativa alle forniture via tubo è costituita dal Gas Naturale Liquefatto (LNG) che viaggia via nave: viene compresso a temperature bassissime e poi riportato ai volumi originari dai rigassificatori prima di essere immesso in rete. I paesi Ue disporrebbero anche di una rete adeguata di impianti per aumentare l’afflusso. Sono una ventina gli impianti in attività sulle coste europee: di questi ben sei si trovano in Spagna e uno in Portogallo. Peccato che tra la penisola iberica e la Francia ci sia solo un piccolo gasdotto, insufficiente per le nuove ambizioni di autonomia energetica di Bruxelles. Non a caso, nell’ultima settimana di febbraio è stato rilanciato il progetto Midcat, un tubo che partendo dal Portogallo arriva in Francia, convogliando il gas in arrivo ai rigassificatori ma anche una parte del gas algerino. L’iniziativa è stata del premier portoghese Antonio Costa che ne ha parlato al premier spagnolo Pedro Sanchez e al presidente francese Emmanuel Macron al termine del Consiglio europeo del 25 febbraio. Poste le basi sul fronte infrastrutture, la Ue deve poi trovare alternative al gas russo, senza scordare il sottostante tema economico: il GNL costa sul mercato molto di più del gas russo, perché non è legato a contratti di lungo periodo

 

Algeria, Qatar, Giappone. O del dove prendere il gas

Proprio per questo motivo, una soluzione di lungo periodo non può che passare da una azione comune europea, una soluzione politica che coinvolga altri governi che facciano da garanti con gli operatori. Per esempio, con il Giappone, che ha messo a disposizione sia riserve di gas che di petrolio. Oppure con il Qatar, che rifornisce già i rigassificatori europei (quello di Rovigo per l’Italia). Ma ancora più importanti saranno le forniture di LNG americano: gli Usa sono diventati esportatori netti da quando si è sviluppata la tecnologia dello shale gas, che ha di fatto raddoppiato la produzione nazionale. Subito dopo il lockdown, le navi gasiere in partenza dai “liquefattori” americani hanno preso per lo più la strada dell’Asia, con la Cina in testa, dove i prezzi era più alti. Con il picco delle quotazioni anche sul mercato europeo, le rotte si sono spostate: a gennaio, secondo quanto riferisce il sito lavoce.info, c’è stato il record di forniture dagli Usa con 10 miliardi di metri cubi. Il che ha garantito la tenuta degli stoccaggi europei: i depositi al momento sono pieni in media nella Ue al 29%, con una punta massima in Italia al 39% in Italia. In pratica, quel che resta della stagione fredda – sostengono gli esperti – potrebbe essere traguardato anche se dovessero venir meno le forniture dalla Russia.

 

 

 

L’Italia riparte dall’Algeria

Come detto, il ruolo della Ue sarà fondamentale per una soluzione strutturale. Per l’immediato i singoli paesi dovranno anche un po’ arrangiarsi. Perché se è vero che l’inverno con temperature sopra la media ha contribuito a non svuotare le scorte, gli stoccaggi devono essere riempiti nuovamente e questo di solito avviene in estate, quando i prezzi tradizionalmente scendono. E siccome le forniture russe potrebbero anche essere sospese da un momento all’altro, bisogna trovare nel brevissimo periodo una soluzione B. Il governo tedesco, da parte sua, ha varato un provvedimento che assegna 1,5 miliardi a un fondo dedicato per l’acquisto di GNL. Da parte sua, l’Italia ha varato una strategia che si basa su più pilastri. In parte già anticipata da Mario Draghi nel suo intervento indirizzato al Senato del primo marzo: “Le opzioni al vaglio, perfettamente compatibili con i nostri obiettivi climatici, riguardano prima di tutto l’incremento di importazioni di gas da altri fornitori, come l’Algeria o l’Azerbaijan; un maggiore utilizzo dei terminali di gas naturale liquido a disposizione; eventuali incrementi temporanei nella produzione termoelettrica a carbone o petrolio. Se necessario – ha aggiunto – sarà opportuno adottare una maggiore flessibilità sui consumi di gas, in particolare nel settore industriale e quello termoelettrico”.

Come si vede il premier non esclude periodi di “razionamento” dell’energia, se sarà necessario. Ma questo si vedrà: da subito, invece, è stato dato mandato a Terna – la società pubblica che gestisce la rete ad alta tensione – di verificare la disponibilità delle sei centrali elettriche a carbone (ma di cui due in Sardegna) ancora in attività ad aumentare la produzione e fino a quanto. Inoltre, sempre il primo marzo, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è stato in missione ad Algeri – accompagnato dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi – per incassare il via libera a maggiori forniture destinate al nostro Paese. In linea con quanto sta già avvenendo da inizio anno: nel mese di febbraio, l’Algeria è diventato il primo fornitore dell’Italia sorpassando la Russia (1,7 miliardi di metri cubi contro 1,3 miliardi) mentre al terzo posto è salito l’Azerbaijan.

 

 

 

10miliardi di metri cubi sotto il mare

C’è una cima legata a uno scoglio, pochi metri al largo. L’avrà lasciata, chissà quando, qualche gommoncino: è lisa, sporca di alghe, ma tutto sommato tiene. Per fortuna. Perché a quella corda è attaccato un pezzo d’Italia. In questo grande risiko del gas se speranza c’è, gran parte viene infatti da qui. San Foca, comune di Melendugno, la spiaggia del Tap, acronimo di Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che collega l’Italia con l’Azerbaijan.

Di questa opera si è detto in questi anni tantissimo, forse anche troppo. Perché suo malgrado è diventato un simbolo: per gli amanti delle grandi opere, perché sono 870 chilometri di tubo che viaggia anche a 820 metri sotto il mare, un diametro di un metro all’incirca. Si parte dall’Azerbaijan, si passa dalla Turchia, Grecia, Albania, fino all’Italia. Un simbolo per chi invece le grandi opere le vede come uno stravolgimento, un pericolo, “un’alterazione del paesaggio preesistente”, per citare una formula che viene ripetuta spesso nelle tonnellate di carte fin qui prodotte. Un simbolo, evidentemente, anche per la politica: per quella industrialista, che del gasdotto ne ha fatto bandiera di sviluppo e delle proteste, invece, logo di becero campanilismo. E di quella ambientalista, che invece quei malumori li ha eletti a programma. Insomma: come spesso in Italia, il Tap è stata la sintesi perfetta dell’incapacità tutta italiana di affrontare una questione complessa.

 

La costa di Roca Vecchia, frazione di Melendugno, punto di arrivo del gasdotto Tap dall’Azerbaigian 

 

 

Risultato: l’opera è stata inaugurata, funziona ormai da mesi. E la vera importanza della partita si apprezza oggi, quando tutti l’avevano ormai dimenticata. Tap porta in Italia 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Rappresentavano circa il 10% del nostro fabbisogno ed è importante utilizzare il verbo al passato perché nel frattempo alcune cose sono cambiate. La diminuzione dei flussi dalla Russia ha cambiato le carte in tavola tant’è che, gli ultimi dati disponibili, parlano del Tap come la porta di ingresso del 14% del gas italiano. Tanto, ma evidentemente ancora troppo poco. Ecco perché, come ha spiegato il presidente del Consiglio, Mario Draghi, la vera partita è quella che riguarda ora il raddoppio dell’opera. Che significa? “Non la costruzione di una nuova infrastruttura” rassicurano subito dall’azienda, come a voler interrompere prima ancora che comincino nuove polemiche. Ma, per spiegarla in una maniera comprensibile a tutti, il raddoppio della sua portata. In sostanza, grazie a due impianti che andrebbero realizzati in Turchia e in Grecia, nello stesso tubo viaggerebbero 20 miliardi di metri cubi. Il doppio di quelli attuali. Per farlo serve però tempo: quattro anni, dicono dall’azienda. Qualcosa di meno, assicurano altri tecnici. Ma la sostanza è quella.

Quello che appare incredibile è come, oggi che siamo in emergenza, per trovare le voci contrarie bisogna fare una grandissima fatica. Il presidente della Regione, Michele Emiliano, che era stato alfiere della battaglia No Tap resta in silenzio. Anzi, tiene a precisare: “Mai stato contro il gasdotto, la nostra era stata soltanto una battaglia relativa all’approdo: ritenevamo che fosse più opportuno farlo arrivare nella zona industriale di Brindisi piuttosto che in una delle spiagge più belle del Salento”. Il Movimento 5 Stelle che aveva giurato: “Con noi al Governo mai si farà il gasdotto” oggi fa pressioni sull’Azerbaijan affinché il raddoppio sia fatto nel più breve tempo possibile. E soprattutto che venga garantita, sempre, la portata dei 10 miliardi di metri cubi. Cosa che, oggi, non sempre avviene. L’ultimo dei combattenti è il sindaco di Melendugno, Marco Potì. Quando il governo 5 Stelle aveva dato il via libero al progetto, i suoi amici erano andati in spiaggia a bruciare le bandiere del Movimento. “Io resto dello stesso parere: penso che sia un’opera pericolosa, perché portare un gasdotto in un centro abitato è pericoloso. E inutile”. Come inutile? “Il gas non va oltre Brindisi perché manca il raccordo della Snam. E anche il raddoppio non avrebbe alcuna reale incidenza per il nostro Paese”.

 

 

Il gas e la nostra sicurezza nazionale

Il sindaco Potì resta in trincea, quindi. E a nulla servono numeri e rassicurazioni dell’azienda e degli esperti che invece sostengono che no, mai come in questo momento, al di là di ogni polemica, il gas di Tap serve. E serve tanto che l’intera partita energetica è vista da qualche mese sotto un altro punto di vista: quello della sicurezza nazionale. “La guerra in Ucraina” spiega una qualificata fonte dell’intelligence a Repubblica, “ci ha messo davanti a una realtà, che a noi era chiara da tempo. Ma che un pezzo della politica aveva fatto finta di non capire e non vedere. L’energia è tra le più potenti armi di difesa e di ricatto sul piano della politica internazionale, seconda soltanto alle armi. E come tale va trattata”.

Ecco cosa scrive il Dis, il Dipartimento di informazione per la Sicurezza, nella sua ultima relazione. “Le profonde implicazioni della transizione energetica in atto, che investono a un tempo aspetti tecnologici, economici e sociali con una rapidità priva di precedenti storici, hanno riflessi anche sul piano della sicurezza del Sistema Paese. In tale quadro, emergono profili di rischio che si declinano su diversi orizzonti temporali e la cui portata è apparsa in tutta la sua evidenza sia per quanto attiene la forte incertezza che caratterizza i prezzi dell’energia, sia con riferimento alle complessità derivanti da un disallineamento a livello internazionale tra le posizioni di chi, seguendo la leadership dell’Ue, mira a un rapido processo di decarbonizzazione e chi attribuisce una diversa priorità alla riduzione delle emissioni”. Tradotto: noi stiamo puntando, su indicazione della Ue, sulla decarbonizzazione. Abbiamo, per questo, chiuso le centrali a carbone che ci garantivano sì produzione ma anche insostenibile inquinamento. Altri paesi, però, non lo stanno facendo. Il mercato, così, è drogato. E noi siamo in grossa difficoltà.

Ecco perché senza carbone, e con un investimento sulle rinnovabili ancora zoppicante, l’Italia in tema energetico è dipendente dal gas. E dunque dai suoi produttori. “Con una quota prossima al 40 % – dice infatti il Dis – il gas costituisce la principale fonte primaria del paniere energetico nazionale” e la sua valenza è accentuata dal fatto che “le centrali alimentate a metano rappresentano circa la metà della produzione elettrica italiana”.

 

Il percorso del gasdotto Tap

 

Che succede se la Russia smette di fornircelo? Un’ipotesi irreale fino a qualche tempo fa ma che oggi va assolutamente presa in considerazione. Nel medio periodo. Ma anche nell’immediato. Se chiudono i rubinetti che tenuta abbiamo? L’Italia ha sempre avuto una riserva, proprio per affrontare situazioni complesse. Ma mai si era pensato a un momento zero, come quello che si sta prospettando. “Secondo dei calcoli che abbiamo effettuato”, ha spiegato l’intelligence nel corso dell’ultima riunione del Nisp, il Nucleo interministeriale situazione e pianificazione – una sorta di gabinetto di guerra che si è insediato la scorsa settimana, con l’inizio della guerra in Ucraina, sotto la guida del sottosegretario alla presidenza, Roberto Garofoli

l’autonomia è di poco meno del 40%. In termini pratici parliamo di un mese, un mese e mezzo al massimo

A metà aprile potremmo essere senza scorte. Che sarebbe un grave problema, certo. Ma non insormontabile non fosse altro perché ci si appresta alla stagione estiva. Il vero problema sarebbe affrontare così l’autunno e l’inverno del 2023. “In quel caso – hanno detto chiaramente i nostri apparati di sicurezza – la situazione potrebbe diventare insostenibile”.

Che fare quindi? Nel lungo periodo è in piedi un discorso con la Germania che ha puntato forte sull’idrogeno. E alla quale noi potremmo offrire energia prodotta con le rinnovabili. Ma si parla di anni, molti anni. Gli Stati Uniti hanno ufficialmente offerto la loro disponibilità, aumentando le attuali forniture e mettendo a disposizione anche navi gasiere dal Kuwait. Ma quello che manca sono i rigassificatori che servirebbero appunto a rendere utilizzabile il metano in arrivo via mare. In questo momento in Italia – hanno spiegato al tavolo – sono attivi tre impianti: Rovigo, Livorno e La Spezia che complessivamente possono trattare fino a 60 milioni di metri cubi al giorno e viaggiano al momento (in periodo invernale) attorno a 40 milioni. Un minimo di spazio c’è quindi per aumentare le forniture. Ma minimo, appunto. E per approntarne dei nuovi – come nel caso della Tap anche i rigassificatori sono oggetto, da sempre, di dure battaglie dei territori che non ne vogliono l’installazione – serve molto tempo. Troppo.

video e grafici cliccando il link sotto riportato

Sorgente: Il ricatto del gas – la Repubblica

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