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Quarant’anni Dopo. Tiziano Rinaldini, all’epoca coordinatore auto della Fiom, ripercorre i 35 giorni alla Fiat che sconvolsero il sindacato: finì una fase, le imprese ebbero campo libero

Massimo Franchi

«Fu un evento straordinario. Per me fu un lutto pesantissimo. Il senso della sconfitta era totale. E sapevo che, almeno in quel momento, non c’era rimedio. Una giornata drammatica, quasi tragica. La marcia dei 40mila e la sconfitta in quella vertenza con la Fiat fu la chiusura di un’intera fase in cui le lotte operaie avevano contato molto nel paese».
Tiziano Rinaldini nel 1980 era coordinatore del settore auto per la Fiom. Fu l’uomo che tenne il primo comizio ai cancelli della Fiat nel giorno in cui l’azienda comunicò i licenziamenti. «Era appena finita l’assembleona dei lavoratori, ero su un palchetto modesto, come sempre in Fiat. Era in corso una riunione a Roma, ma a Mirafiori gli operai decisero compattamente di rimanere ai cancelli. Fu un sollievo perché avvertivamo il rischio che molti rientrassero in fabbrica. La compattezza ci diede l’idea di una lotta certamente difficile contro l’azienda ma quanto meno governabile. Era il 9 settembre, il primo dei 35 giorni che si conclusero con la marcia dei 40mila».

La “marcia dei 40 mila” del 14 ottobre 1980

In quei giorni aveste il sentore che sarebbe finita il quel modo? Che il sindacato sarebbe stato travolto dalla marcia dei colletti bianchi?
La marcia fu il segnale che saremmo stati sconfitti. Ma l’esito fu figlio di più eventi, diversi e non in relazione diretta. In corteo per Torino non furono 40mila, lo sanno tutti, al massimo 15-20 mila. E molti li portò la Fiat stessa. Il punto di svolta però fu un altro. Durante la vertenza ci fu un momento, lo riconobbe dopo anche Romiti, in cui la Fiat stessa si rese conto che non ce l’avrebbe fatta e che doveva scendere ad una mediazione. Il punto decisivo era la rotazione dei lavoratori nella cassa integrazione: questo avrebbe evitato la spaccatura tra di loro, l’unità e l’omogeneità è sempre stata il punto di forza del movimento operaio. Ma proprio quando la proposta di mediazione del ministro Donat Cattin era quasi ufficiale, quella sera il governo cadde per 17 franchi tiratori. Fra i tanti misteri di quella repubblica nessuno ha mai saputo chi fossero.

Sta dicendo che pensa che la Fiat intervenne per far cadere il governo o è un sospetto?
Non ho elementi per dirlo. Il mio è solo un sospetto. Dico solo che chi fossero quei 17 franchi tiratori e perché fecero cadere il governo non si è mai saputo.

Come influì la caduta del governo sulla trattativa?
Mentre noi ci precipitammo a Torino per discutere con la Fiat, l’azienda aveva già modificato la sua proposta: non 15 mila licenziamenti ma 24 mila lavoratori in cassa integrazione a zero ore, indicati con nome e cognome. Fu la mossa che ci spiazzò perché proiettò sui lavoratori la sensazione – reale – che erano in trappola, che erano stati divisi in modo discriminatorio e che non sarebbero più tornati in fabbrica. A quel punto era impossibile proporre uno sciopero. La scelta della Fiat era stata di stravincere: spaccare i lavoratori e rendere impotente il sindacato che non poteva più fare leva sulla solidarietà tra gli operai.

Senza la caduta del governo Cossiga sarebbe finita diversamente?
Tutto quello che so è che non era inevitabile che finisse così. Non sarebbe cambiato molto per la storia del sindacato ma avremmo potuto dire che la lotta aveva portato qualche risultato. Invece…

Molti nel sindacato però diedero un giudizio articolato di quell’accordo. Non fu subito considerata quella sconfitta epocale che ora è riconosciuta. Perché?
Anche noi come Fiom e Cgil impiegammo 15 anni per definirla tale. Andammo a dire ai lavoratori che nell’accordo c’erano anche parti buone, come i rientri in fabbrica. Ma sapevamo che non era così, che era una sconfitta totale.

La svolta fu la caduta del governo: doveva presentare il lodo sulla «cassa» a rotazione. Berlinguer fu l’unico a capire la posta in gioco

Il pensiero va a Luciano Lama, allora segretario della Cgil. O sbaglio?
Come sempre chi capeggia è più responsabile. L’errore fu però comune a tutti e Lama è parte di un respiro sindacale che non si può ridurre solo a questo passaggio. Fu il sindacato nel suo complesso che non percepì che quella alla Fiat nel 1980 non era una battaglia sindacale fra le tante, non era una questione solo della Fiat, ma un passaggio strategico della contrattazione tra aziende e sindacato che chiuse la fase aperta nel 1969 con il contratto dei metalmeccanici e lo statuto dei lavoratori. Il sindacato subì altre sconfitte storiche – ad esempio l’occupazione alle Reggiane degli anni ’50 dove c’era mio padre – ma anni dopo tornò a vincere. Nel 1980 la Fiat andò avanti fino in fondo perché non poteva più sopportare che il sindacato potesse essere il soggetto della contrattazione sul luogo di lavoro, sulle condizioni di lavoro e sulle scelte strategiche dell’impresa. Da quel momento infatti l’impresa ebbe completa libertà, non aveva più la soggettività dei lavoratori tra le palle. E da lì partì l’epoca della finanziarizzazione, della globalizzazione in corso ancora oggi. Cambiò il potere in gioco. Prova ne sia che l’anno dopo, quando la Fiat per accordo doveva riassumere 300 operai a giugno e io come coordinatore Fiom andai per far rispettare l’accordo, fu Annibaldi a dirmi: «Lei non ha capito. Quella fase è finita, l’accordo per noi non è un vincolo, semplicemente non esiste». E da quel momento tutte fecero così.

In quei 35 giorni ai cancelli venne Enrico Berlinguer. Anche su quella visita ci sono interpretazioni diverse. Quale ruolo e conseguenze ebbe nella vertenza?
Berlinguer non fece quella mossa d’accordo con il partito. Che il partito, soprattutto quello torinese, avesse un’altra idea lo certifica quello che mi disse un suo dirigente – che non nomino perchè non ho davanti a me – all’inizio della vertenza. Quando io all’inizio dei 35 giorni ai cancelli gli dissi che l’unica soluzione era la cassa integrazione a rotazione, lui mi rispose: «Se è così, la rotazione è impossibile». Berlinguer invece capì lo stato d’animo degli operai, capì che quella vertenza era decisiva, strategica. Per questo venne anche se l’impatto del suo intervento fu minimo perché la politica ci lasciò praticamente soli. Mi piace pensare che lo fece perché era veramente comunista, sapeva che il capitalismo era irriformabile.

La sconfitta alla Fiat fu però anche la molla che portò anni dopo Claudio Sabattini a elaborare l’idea di autonomia per la Fiom e per il sindacato.
Sì, lì partì una riflessione che Claudio portò a conclusione negli anni ’90, l’essere sindacato nel futuro in Italia e nel mondo. Sul prossimo numero di Inchiesta pubblicheremo un suo inedito in cui riassumeva i giudizi sulla sconfitta alla Fiat. Il caposaldo era il concetto di indipendenza, non autonomia. Quando gli elementi di riferimento politico esterni crollano, come accadde a fine anni ’80, il sindacato deve avere una propria progettualità politica per avere indipendenza nella contrattazione a prescindere da partiti e governi. La sua idea era arrivare ad un sindacato europeo, internazionalista come il movimento operaio delle origini. In più il sindacato non doveva essere un riferimento solo per gli associati, ma ogni lavoratore doveva partecipare alle piattaforme e votare i contratti.

Almeno su quest’ultimo punto l’accordo interconfederale del 2018 è arrivato.
No, non è così. Solo i metalmeccanici a inizio anni duemila lo fecero.

Volevo chiudere con una nota ottimista…
Beh, la lotta attuale sul contratto dei metalmeccanici mi dà qualche speranza di resilienza.

Sorgente: «La marcia dei 40 mila, una sconfitta storica. Ci insegnò l’indipendenza» | il manifesto

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