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Sergio Bocconi

Rammarico. E verosimilmente anche una valutazione dell’esito della trattativa come scelta obbligata. Ma per i Benetton la tragedia del Ponte Morandi e l’uscita da Autostrade, 23 mesi dopo, al di là delle considerazioni radicalmente differenti dei vari attori, rappresenta anche la chiusura di un lungo capitolo di una storia d’impresa, una storia che appartiene al modello italiano di capitalismo per lo più familiare e che si inserisce a pieno titolo in quella del nostro Paese. Un capitolo che dice che nulla sarà più come prima.

I Benetton non lasciano con Autostrade né l’Italia né la sua economia. Tuttavia il dramma di Genova ha determinato un cambiamento in un gruppo che, nato dalla fantasia e dalla visione imprenditoriale di quattro fratelli, oggi non esprime in cima alla holding-cassaforte, Edizione, un leader di famiglia. E nel riflettere sulla governance che verrà definita nell’imminente assemblea della cassaforte, i richiami all’unità in questo momento difficile dicono molto. Anche delle divisioni.

Del capitalismo familiare italiano, quella dei Benetton rappresenta una storia esemplare se si pensa anche solo alle origini. Quando Luciano, il capostipite, e la sorella Giuliana hanno cominciato a vendere i capi d’abbigliamento «fatti in casa» a Treviso, nel 1955, mai avrebbero immaginato tutto il resto. Così come quando, dieci anni dopo, insieme agli altri due fratelli, Gilberto e Carlo, fondano il gruppo a Ponzano Veneto, non avrebbero probabilmente scommesso nemmeno sul successo internazionale che li porta, nell’arco di altri dieci anni, a esportare oltre il 60% della produzione. Uno sviluppo che verrà favorito anche dalla collaborazione con Oliviero Toscani, fotografo che rende, con le immagini nella pubblicità, Benetton un marchio globale. Provocando ma intercettando il mondo.

Poi gli startupper dei «golfini colorati delle ore libere» disegnano un altro scenario, come e insieme ad altri imprenditori, drappello non certo numeroso in un Paese con tanto risparmio ma poco capitale destinato agli investimenti: il gruppo partecipa da protagonista al processo delle privatizzazioni con Autogrill e Autostrade. Un passo, quest’ultimo, definito da alcuni come «un regalo del centrosinistra». Diversamente Gianni Mion, il manager richiamato l’anno scorso al vertice della holding del gruppo dove era arrivato per la prima volta nel 1986 e ne era uscito nel 2012 dopo essere stato a lungo l’uomo di fiducia di Gilberto, ha sottolineato qualche giorno fa come le istituzioni abbiano chiamato i Benetton a entrare in diverse società.

Fatto sta che il gruppo nel 2001 prende parte anche con Pirelli alla «conquista» di Telecom, venduta loro dai «capitani coraggiosi», «avventura» poi tramontata fra mille progetti e ostacoli e dai quali i Benetton sono usciti con oltre 1,5 miliardi di perdita. Il gruppo, grazie alla trasformazione che l’ha portato dalla manifattura pura del made in Italy a diventare un colosso di servizi (aeroporti compresi) e utilities, si espande poi all’estero, soprattutto con Abertis.

Ma il 14 agosto 2018 tutto si ferma. La tragedia colpisce l’«impero» di Ponzano Veneto dalle fondamenta. In quei giorni prevale, se non il silenzio, una bassa voce che verrà rimproverata a lungo. Interrotta ai primi di settembre da Gilberto Benetton che al «Corriere della Sera», dichiara la «indimenticabile sofferenza». Gilberto, come poco prima il fratello Carlo, morirà in autunno.

I passi successivi del gruppo durante l’inchiesta, con il cambio di vertici, il riconoscimento di errori e di responsabilità di propri manager, non possono far tornare indietro il tempo, una sorta di «ravvedimento operoso» che non ricostruisce una storia ormai segnata per sempre. Lo sanno bene Alessandro (figlio di Luciano), Franca (figlia di Giuliana), Sabrina (figlia di Gilberto) e Christian (figlio di Carlo). La seconda generazione che siede nel consiglio di Edizione si trova ora di fronte a scelte personali e relative ai destini del gruppo. Fra divisioni e richiami all’unità. Inevitabili tanto più oggi.

Sorgente: Benetton e Autostrade, il passo indietro ventuno anni dopo: non avevamo scelta – Corriere.it

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