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La festa del lavoro è il primo maggio. Quella della mamma il 12. Sono così vicine sul calendario ma, almeno nel nostro Paese, maternità e lavoro sembrano due mondi davvero distanti. L’ultimo dato OCSE sul gender gap (il ‘divario di genere’) salariale ci dice che in Italia le donne, a parità di ruolo, guadagnano il 5,6% meno degli uomini. Il dato, però, tiene conto solamente delle lavoratrici a tempo pieno. Ed è perciò parziale se si considera che, nel nostro Paese, 4 donne su 10 lavorano part timeLa ragione principale di questa condizione è soprattutto una: la maternità. Come mai in un Paese che si ritiene moderno e rispettoso dei diritti siamo a questo punto? È solo un problema culturale e sociale oppure anche dal punto di vista legale e previdenziale ci sono cose che non vanno? Nel giorno in cui le celebriamo, vediamo come sono considerate dal punto di vista lavorativo le madri. Anticipazione: purtroppo non benissimo.

Madre e lavoratrice, in Italia è un binomio difficile per ragioni culturali ma anche di welfare

Abbiamo chiesto a Carolina Casolo, consulente fiscale che da poco ha creato il portale ‘SportelloMammeper aiutare le donne nella giungla di norme, requisiti e procedure, di raccontarci come lei, quotidianamente, vede la situazione. Racconta: “Dal mio punto di vista, il problema della maternità da noi è sicuramente culturale: si crede che se diventi mamma non sarai più in grado di essere una professionista affermata. Se diventi mamma, stai rinunciando alla tua carriera. Non conta quanti master una donna può aver frequentato o quante marce in più possiamo avere dal punto di vista del multitaskingSarai solo e soltanto ‘madre’“.

C’è però un aspetto che secondo Casolo contraddistingue in negativo l’Italia: “Siamo un Paese totalmente arretrato dal punto di vista del welfare. Concediamo 5 mesi di maternità obbligatoria e ci aspettiamo che una mamma, che magari ha affrontato un parto difficoltoso, torni in ufficio dopo 3 mesi nelle stesse condizioni psicofisiche di prima. E concediamo 6 mesi facoltativi con una riduzione di stipendio al 30%. In Polonia, per esempio, la maternità obbligatoria è garantita almeno per 12 mesi. Per non parlare delle madri in ‘partita Iva’ (lavoratrici autonome, non dipendenti, ndr) che vengono umiliate e obbligate a farsi mantenere in attesa di ricevere il pagamento dell’indennità quasi a un anno dal parto. I governi si susseguono, si spendono parole per migliorare gli ammortizzatori sociali, se ne creano di nuovi che puntualmente spariscono l’anno successivo per tagli al bilancio. Ma con la pressione fiscale e previdenziale che grava oggi sulle imprese e le partite Iva, ci sarebbe liquidità possibile per estendere la maternità almeno a un anno solare”.

Storie di ordinaria discriminazione, parte 1

Avere un figlio è una gioia immensa, ma significa anche farsi carico di responsabilità, impegni e costi. In Italia, si è convinti che per un periodo di tempo più o meno lungo, tali impegni siano di fatto incompatibili con un percorso professionale continuativo. Per una donna, in particolare, sembra voler dire ‘interrompere’ la propria carriera.

Nel settore pubblico, visti i grandi numeri, l’impatto è limitato, ma non mancano episodi aberrantiRacconta a upday Claudia (nome di fantasia, ndr), insegnante precaria alle scuole superiori: “Da due mesi sono in maternità ‘obbligatoria’ (ovvero da 1 mese prima della nascita del bambino fino ai 3 mesi del neonato). Nel frattempo, mi è arrivata una convocazione da una scuola. Io non posso fisicamente lavorare per legge, ma posso accettare quella richiesta perché, da lavoratrice ‘a singhiozzo’, accumulo così punti preziosi per la mia carriera in vista di future convocazioni o concorsi pubblici. Ebbene, quando la segreteria della suddetta scuola mi ha chiamata, ho ritenuto corretto far presente di accettare, ma di non poter lavorare essendo diventata madre da un mese. Non l’avessi mai fatto. La persona dall’altra parte, con tono estremamente stizzito, mi ha detto di avere “bisogno di gente che lavori!“, paventando di rivolgersi a qualcun altro. Fortunatamente, conosco i miei diritti e so che se hanno chiamato me significa che sono stata la prima in graduatoria a rispondere, quindi a mia volta ho risposto a muso duro che in caso sarei andata per vie legali”.

Ma è nel privato che da molte imprese un congedo di maternità è visto a volte come una tragedia immane che mette a rischio il futuro aziendale. Non è perciò raro sentire o leggere storie di lettere di dimissioni fatte firmare in bianco alle donne prima dell’assunzione o, addirittura, accordi privati sull’impegnarsi a non avere figli per un certo periodo di tempo. Tutte cose che, non c’è bisogno di dirlo, sono contro la legge. Ma quando il potere contrattuale è troppo sbilanciato da una parte, quando chi lavora non conosce o non riesce a tutelare fino in fondo i propri diritti, quando trovare un posto di lavoro è già di per sé un successo, non c’è da stupirsi che in molte accettino e si pieghino a questi squallidi ricatti.

Storie di ordinaria discriminazione, parte 2

Per le ‘partite Iva’, ricevere l’indennità di maternità è a volte un vero incubo. Racconta Casolo: “Tutti i giorni ricevo molte email di donne che sono preoccupatissime; una, in particolare, mi ha commosso. Una ragazza di 28 anni, che ha sudato per crearsi una professionalità, per una particolare normativa potrà purtroppo percepire la maternità solo dal contratto di lavoro part time subordinato e non dalla sua vera attività, che è quella libero professionale. Con una notevolissima riduzione dell’indennità, va da sé. È così preoccupata e spaventata che sta meditando se realmente portare a termine la gravidanza oppure no. Se sia ha partita Iva e si vuole avere un figlio, bisogna sedersi al tavolino e fare i conti. Bisogna magari vedere quale anno sia più ‘conveniente’ per il reddito, bisogna verificare se si hanno i requisiti per richiedere l’indennità. È un lavoro nel lavoro, è stressante e spesso non è giusto. Gli enti di riferimento lavorano male, spesso gli operatori di prima linea non conoscono le normative, perdono i documenti. La maggior parte di queste mamme riceve poi i pagamenti mesi e mesi dopo, a volte anche anni. E se ci si vuole lamentare si può fare soltanto ricorso e i tempi si triplicano”.

Un’altra storia dà l’idea del ginepraio burocratico e normativo in cui a volte si finisce: “Per una delle ‘mie’ mamme sono andata a Torino presso la sede Inps competente ben cinque volte dopo centinaia di mail, pec e chiamate. Avevano perso i documenti due volte, avevano sbagliato i conteggi per tre volte. La mamma in questione ha percepito i primi pagamenti della maternità al decimo mese di vita del figlio. Ovviamente, non vengono riconosciuti interessi sul ritardo dei pagamenti e non viene nemmeno lontanamente chiesto scusa. Si abusa spesso del proprio potere ‘pubblico’ e non ci si rende conto dei disagi e dei meccanismi drammatici che si possono insinuare in una famiglia. Parlo per esempio della frustrazione di non disporre dei propri soldi (che sono legittimamente dovuti) o dell’eventuale dipendenza economica verso un terzo”.

SportelloMamme, il portale che aiuta le donne con la maternità

A fronte di tutte queste storie, a Casolo è venuta in mente un’idea: “SportelloMamme nasce per dare a tutte le donne il diritto di sapere cosa, quando e come spetta, se mai decidessero di diventare mamme o se già lo sono. Io sono una consulente fiscale e sono cresciuta insieme ai miei clienti: nella crescita, molti sono diventati genitori e si sono rivolti a me per chiedere aiuto nella compilazione delle domande di maternità, allattamento etc. Così, mi sono imbattuta nella giungla della disinformazione statale sulla previdenza in tema di maternità e paternità”, spiega.

“Ho iniziato a studiare tutti i contributi, gli ammortizzatori, le norme e ho creato uno sportello che assiste gratuitamente per consulenze e informazioni. In base a un questionario di poche domande, sono in grado di informare su quale contributo o ammortizzatore spetterà. È un punto di partenza: SportelloMamme dota gratuitamente degli strumenti primari che servono per affrontare la maternità, poi sta a ognuna scegliere se farsi aiutare nelle pratiche (in questo caso, da professionista, Casolo chiede un compenso ndr) oppure presentare le domande in autonomia. Vogliamo diventare un punto di riferimento, sia per supportare tramite le informazioni, sia per poter un domani dialogare con le istituzioni e cercare di migliorare la condizione di oggi”.

Sorgente: Maternità e lavoro, in Italia, non vanno d’accordo – upday news – Le notizie dall’Italia e dal mondo

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