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Quando diciamo diritti noi lo diciamo per tutti. La nostra vita è complessa e complicata. Su tutti i punti noi dobbiamo fare battaglia comune. Se alziamo l’asticella dei diritti, stiamo tutti meglio

Olol

CARACOL OLOL JACKSON: UN SOGNO A OCCHI BEN APERTI CHE SI REALIZZA

 

(da un incontro con Francesco Pavin)

 

Gianni Sartori

 

All’inizio fu la Pantera. Poi le Pantere.

Dal movimento di studenti ribelli alla riforma Ruberti (dicembre 1989- aprile 1990) iniziava il tragitto politico-esistenziale di Olol Jackson. La  visione del film di Mario e Melvin Van Peebles “Panther” costituì invece l’elemento  scatenante della presa di coscienza di un promettente quindicenne: Francesco Pavin, classe 1979.

La cassetta del film era stata procurata da Olol naturalmente. Mai distribuita in Italia, proveniva presumibilmente dal Leoncavallo che l’aveva sottotitolata in italiano. O forse – azzardo – era la mia? Ricordo che all’epoca la prestai – non sottotitolata, ma già in italiano, pirateria pura – anche ai giovani compagni del compianto Collettivo Spartakus

Comunque sia – ricorda Pavin – venne proiettata a metà degli anni novanta nel CSO Ya Basta!. Quello che qualche anno dopo sarebbe stato arbitrariamente demolito dalla giunta Hullweck”.

 

Ovviamente la nostra storia – spiega – è anche, soprattutto, quella di Olol Jackson”. Nato nel 1969, prematuramente scomparso alla fine del 2017, Olol “lo conobbi appunto  all’occupazione di Ya Basta! intorno al 1994. Olol seppe interpretare, tradurre qui da noi quella che possiamo definire la “rottura zapatista”.

Ossia, per i non addetti “uscire dal fortino assediato in cui rischiavano di rinchiudersi i centri sociali e aprirsi ai nuovi movimenti degli anni novanta – ispirati appunto dal movimento zapatista messicano –  poi conosciuti come No-global. In un certo senso rappresentava la conclusione di una fase, come dire, fortemente identitaria”. In quei frangenti si apriva “la necessità di uscire dal ghetto”. I Centri sociali, una parte almeno, decise di sciogliere gli ormeggi e affrontare il mare aperto. Di non essere più totalmente autoreferenziali, ma di “parlare finalmente con tutti, aprirsi alle altre, molteplici e variegate soggettività alternative”.

A segnare uno spartiacque, il 10 settembre 1994. Giornata di “Opposizione Sociale” indetta dal Leoncavallo (il Centro sociale di Milano frequentato da Fausto e Iaio, due compagni assassinati dai fascisti dei NAR nel 1978).

Un breve ripasso. Dopo il tentativo della giunta Pilitteri dell’agosto 1989 (sostanzialmente fallito nonostante le devastazioni operate dalle forze dell’ordine) c’era stato lo sgombero – in parte “concordato” – dal n. 22 di via Leoncavallo (quartiere Casoretto) con approdo al capannone industriale di via Salomone n. 71. Ben presto scacciati –  agosto 1994 – -anche da lì, i leoncavallini occuparono lo stabile, una ex cartiera, al n. 7 di via Watteau. Il 10 settembre 1994 fu una giornata (o meglio, un pomeriggio) campale. La manifestazione – seguita in diretta da Radio popolare – venne indetta per protesta contro lo sgombero del mese precedente. L’agguerrito corteo era aperto dalle “mamme del Leocavallo” e quel pomeriggio milanese era destinato a passare alla Storia – oltre che per le dure cariche della polizia –  per gli scontri successivamente definiti “colossali”.

 

Altra data storica, almeno per Vicenza, quella dello sgombero e demolizione di Ya Basta! Dopo – e forse non casualmente – le drammatiche giornate di Genova del luglio 2001.

Inizia allora per i desplazados (sfollati) vicentini una autentica diaspora, una fase di  “nomadismo conflittuale, uno stillicidio di occupazioni e sgomberi successivi che rappresentano l’elemento caratterizzante del quadro politico di quel periodo”.

Un inciso e un passo indietro. In precedenza c’era già stato “il tentativo – stroncato sul nascere – dell’occupazione di una scuola abbandonata in via San Antonino e il pestaggio di alcuni compagni – ricordo Cedro in particolare – da parte della polizia. All’epoca della prima giunta Variati”. 

Comunque è soprattutto dopo lo sgombero di Ya Basta! che “lo scontro diventa continuo e la discussione perenne,

anche tra di noi. Cresciamo e impariamo a far politica. Se la giunta Hullweck si era illusa di eliminarci deve ricredersi. In realtà – tra denunce e processi –  ci ha costretti a formarci politicamente, imparando a nostre  spese e bruciando le tappe.Tieni presente che – a parte Olol – eravamo quasi tutti dei ventenni”. Prende così il via una attività – possiamo definirla frenetica senza tema di esagerare – nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di ritrovo giovanili…

Un tirocinio propedeutico a quanto si va già profilando all’orizzonte: la questione  Dal Molin. A cui Pavin e compagni arrivano mentalmente ben attrezzati. Già la seconda Guerra del Golfo (marzo 2003) non li aveva colti impreparati. Importanti, per esempio, i numerosi interventi a San Pio X (quartiere sfregiato dall’ingombrante presenza statunitense della Caserma Ederle) con la distribuzione di questionari,  le inchieste, la nascita di un Osservatorio sulle servitù militari, l’organizzazione da parte di Olol di un dibattito “storico” con don Albino Bizzotto.

E l’intuizione che “quella del Dal Molin non sarà una battaglia di nicchia”. Nemmeno una passeggiata, del resto. Un primo, ancora modesto corteo (circa 200 studenti) sfilerà nel 2005 in Corso Palladio contro quello che all’epoca si riteneva soltanto un ampliamento della Ederle. Da qui “prendono vita e consistenza radici e rami di quella che sarà l’Assemblea permanente e poi il Presidio – il tendone – inteso come luogo in cui non rinchiudersi, ma sviluppare, allargare, estendere il movimento contro la base”.

Anche in questa fase  Olol “presente a tutte le iniziative di tutti i vari comitati” costituisce il cardine attorno a cui ruota e si svolge la battaglia.

“Abbiamo agito – continua Francesco – non come estrema sinistra, ma cercando di coniugare la necessaria radicalità con l’esigenza, complementare e indispensabile, della trasversalità”. Non per egemonizzare il movimento, quindi  “per quanto fossimo sicuramente maggioritari e protagonisti nelle lotte – ma per – coltivare uno spazio non istituzionale  in cui metterci contemporaneamente in discussione con tutti”.

 

Questo per quanto riguarda il recente passato. Venendo ai nostri giorni“quando la morte improvvisa e inaspettata di Olol ci ha posti di fronte al problema di ricordarlo, di restituirgli, almeno in parte, quanto lui ci ha dato, abbiamo applicato quello stesso metro di misura. Una forma embrionale di comunità che si aggrega, si condensa  attorno a una lotta”.

A questo punto un inciso. Francesco evoca “la scomparsa dei luoghi tradizionali, canonici del confronto quali erano sia le parrocchie che le Case del popolo e le sedi dei gruppi negli anni settanta (una decina soltanto a Vicenza: da Potere Operaio a Servire il Popolo, gli anarchici, lotta comunista…oltre ai partiti storici della sinistra come PCI e PSIUP), conseguenza e corollario dell’attuale scomposizione e frantumazione sociale. Del dilagare di un individualismo esasperato, foriero di imperante, sostanziale  spirito di inimicizia nelle relazioni umane”.

Certo, anni fa tutti loro avrebbero “ pensato a un progetto per il Chiapas, la Palestina o il Kurdistan.  Ma qui e ora ci troviamo immersi  in questa vertiginosa crescita delle  disuguaglianze – vecchie e nuove- che si vanno allargando e diffondendo (vedi la rarefazione di servizi essenziali per i meno abbienti, pensiamo alle crescenti difficoltà nell’accesso alle cure, alla dispersione scolastica…)”.

Francesco ricorda che nel 2005, all’epoca della rivolta per la tragica morte di due adolescenti francesi (Zyed Benna e Bouna Traoré, in fuga dalla polizia) avevano intervistato un esponente del MIB (Mouvement de l’Immigration e des Banlieues). Per Nourdine Izanasni “…quando uno non ha la possibilità di curarsi i denti, questo a 60 anni può diventare un problema serio. Potresti non essere in grado di mangiare, per esempio…”.

Ecco, proprio “partendo  da questo genere di considerazioni apparentemente semplici, ma non scontate, ci siamo posti la questione di come poter ricostruire una comunità”. Dopo aver avviato – tra maggio e giugno 2018 – un percorso formativo di volontari dello sportello informativo socio-sanitario (inteso non come un duplicato dei servizi già esistenti, ma piuttosto come un punto di riferimento a cui rivolgersi per conoscere i propri diritti in tema di salute e farli rispettare), il progetto prevede l’apertura di un ambulatorio medico solidale in grado di offrire cure gratuite alla fasce più emarginate della popolazione. Come esigenza primaria è stata per ora individuata quella di ambito odontoiatrico.

Ovviamente è prevista anche la palestra in cui accogliere attività sportive – come Yoga e Tai Chi – intese a riattivare e rigenerare le varie funzioni psicomotorie.

 

E quindi “invece di star qui a riprodurre all’infinito la nostra organizzazione, abbiamo scelto di andare oltre, buttare il cuore oltre l’ostacolo…”.

Una bella sfida, a prescindere.

Sia ben chiaro: “Questo progetto NON è quello del  Bocciodromo, un Centro sociale che svolge attività culturale e politica. Con la scomparsa di Olol una parte di noi ha immaginato di imbarcarsi su di un nuovo vascello, di solcare altri mari. In sostanza, se io metto in piedi un ambulatorio popolare dove anche uno che votava per la Lega o comunque un “sovranista”, viene a curarsi e si ritrova fianco a fianco con un migrante proveniente, che so,  dal Delta del Niger, forse comincio a costruire un ponte, una relazione. Contribuisco a far comprendere che la guerra tra poveri non ha senso (caso mai quella dal basso verso l’alto).

Attraverso la quotidiana, meticolosa ricostruzione di welfare su basi mutualistiche.

Suddivisi in gruppi di lavoro, tra cui quello denominato “salute-sport” che da subito ha iniziato a riflettere sulla salute confrontandosi con realtà già affermate, sia a livello nazionale  come Emergency, sia a livello locale come Salute Solidale.  In maggio, per il compleanno di Olol, la Polisportiva Independiente ha organizzato il primo torneo di calcio a cinque, con squadre provenienti da tutto il Veneto. Poi, sempre nel maggio dell’anno scorso “abbiamo vinto un bando nazionale di Banca Etica e avviato un progetto – i sentieri di Caracol – per individuare percorsi podistici accessibili a tutti nella zona di Gogna (il lembo di Colli Berici – non ancora completamente invaso dalle ville dei benestanti –  in prossimità del quartiere dei Ferrovieri oltre il fiume Retrone nda).

E poi un festival – “L’arma della memoria”-  organizzato per il 25 aprile dal gruppo cultura. Dieci giorni di incontri, dibattiti e presentazione di libri sulla resistenza dalla Grande guerra ai moderni conflitti dei nostri giorni.

 

“Tornando a Olol – prosegue Pavin – sottolineo come lui avesse ben chiaro nella mente il modello organizzativo delle Pantere nere (il  Black Panther Party for  Self-Defence, quello originario di Huey P. Newton e Bobby Seale fondato nel 1966 a Oakland, diffidare delle imitazioni nda). Tra l’altro, “Panther” è il film che mi ha cambiato la vita, come ti dicevo. Nella realistica ricostruzioni degli eventi fatta dai Van Peebles, l’ambulatorio, la mensa popolare, le necessità del quartiere (ricorderai che tutto era cominciato richiedendo l’installazione di un semaforo presso un incrocio pericoloso…) diventano appunto gli elementi che consentono alla comunità di coagularsi, ricomporsi. Non per un generico assistenzialismo,  non solo per rimediare alle inadempienze dello Stato – facciamo anche questo, certo – ma anche per rivitalizzare la comunità criticando nel contempo l’esistente. E fornire non solo sanità gratuita, ma anche cultura, consapevolezza”.

In qualche modo si riformula quanto a suo tempo realizzavano le meritevoli e meritorie Società di Mutuo Soccorso, quello a cui hanno rinunciato i partiti che attualmente “sono soltanto immagine, pensano a raccattare voti…”.

Oltre che uno spazio libero da pregiudizi sociali ed economici, Caracol Olol Jackson dovrà diventare “un luogo dove posso curarmi, studiare (con a disposizione un auditorium, il doposcuola, una biblioteca… nda), avere un sindacato che mi informa sui miei diritti; un luogo dove contrastare l’insorgere di ulteriori differenze di classe come quelle legate alla dispersione scolastica per i figli di famiglie disagiate. A tale proposito abbiamo voluto studiare il modello delle Solidarity Schools (così come delle Solidarity Clinics)  sorte in Grecia all’inizio della crisi. Del resto, niente di nuovo. Lo facevano al Leoncavallo ancora negli anni settanta, quando professori in pensione e studenti fornivano gratuitamente ripetizioni”.

Alla mia domanda, maligna, se non temono che qualcuno ne approfitti, Francesco mi rassicura: “Abbiamo solidi legami sociali con i quartieri, conosciamo la gente,  conosciamo i bisogni reali delle persone…

Qualche dato. A Vicenza il sindacato ADL Cobas, di cui Olol era attivissimo esponente, ha oltre 900 iscritti. Già in piedi da tempo il lavoro con i migranti per l’alfabetizzazione. Sempre in tema di cultura e apprendimento, è doveroso ricordare come Olol fosse un lettore onnivoro, un eterno “affamato e assetato” di sapere. Con una solida e ampia cultura personale che poi spendeva e spandeva con intelligenza nel suo agire politico e sociale.

Il Caracol sarà anche “un luogo della memoria, un archivio storico dei movimenti sociali di questa città”. Sempre precisando che “Caracol Olol Jackson e Bocciodromo sono due esperienze sorelle, ma in luoghi e contesti diversi. Se il Bocciodromo era e rimane un luogo dove difendere tale spazio di libertà, il Caracol sarà comunque un’altra cosa. Non va inteso, per dire, come un’esperienza solo per i giovani. Soprattutto diventerà una “casa”, un’idea questa che Olol ha sempre inseguito”.

Già, lui che di case ne aveva cambiate parecchie. A san Pio X in un condominio di via Fabiani, poi ai Ferrovieri. Nell’ultimo anno a Mossano, poco lontano dalla mia. Neanche il tempo di farci qualche giro sui Colli, accidenti.

E all’idea di “casa” riporta anche il simbolo adottato. La chiocciola  – con esplicito passamontagna zapatista – che si porta appresso la sua casetta resiliente. Talvolta tradotto – forse impropriamente – come “lumaca”, il termine caracol andrebbe – a mio avviso – inteso appunto come chiocciola (o se vogliamo “bovolo”, corniolo”), il gasteropode provvisto di conchiglia e con un “piede” alquanto sviluppato.

Piano, piano, arriverà dove deve.

Sicuramente.

 

Gianni Sartori

 

 

 

 

 

NOTA BENE

 

Per sostenere il progetto è possibile fare una donazione (deducibile o detraibile ai sensi della vigente normativa fiscale):

> presso il conto corrente di Banca Etica, IBAN IT 80 Y 05018 11800 000016690992, intestato ad Associazione Caracol Olol Jackson Onlus;

> presso il conto corrente della Banca San Giorgio Quinto Valle Agno, IBAN IT 14 Z 08807 11802 027008070810
, intestato ad Associazione Caracol Olol Jackson Onlus;

> direttamente dal sito o dalla pagina  facebook;

> con il crowdfunding dal sito www.produzionidalbasso.com.

 

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