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Siamo andati a casa del fumettista la cui ultima iniziativa è per Ilaria Salis, la maestra milanese detenuta a Budapest. E poi Acca Larentia, Vannacci, i social e quelle accuse di antisemitismo…

di Fabio Tonacci

E comunque, resistenza. Intervistando Zerocalcare sul divano di Zerocalcare (sì, quello: lo studio-pensatoio-tavola-ricovero-dannazione e anche un po’ emergenza abitativa che appare nei suoi disegni), si afferra un filo che annoda temi alti e bassi a un concetto, variamente declinato, di resistenza.

L’antifascismo, l’egemonia culturale della destra e la subalternità ai social, le guerre, la politica che dichiara ma non dice, la soglia dei 40 anni, il desiderio di diventare padre e il timore di non esser pronti. Si parte, dunque, e vediamo dove porta il filo.

 

Il fumettista italiano Zerocalcare, pseudonimo di Michele Rech, nella sua casa seduto sul suo divano-pensatoio
Il fumettista italiano Zerocalcare, pseudonimo di Michele Rech, nella sua casa seduto sul suo divano-pensatoio

(agf)

La conversazione comincia da una donna, Ilaria Salis, la maestra milanese detenuta a Budapest a cui Michele Rech, in arte Zerocalcare, ha dedicato un fumetto su Internazionale.

Perché si è interessato alla storia?

«Intanto perché una persona che finisce in galera perché ha fatto a botte coi nazisti mi sta automaticamente a cuore. Quando poi i magistrati ungheresi le hanno proposto un patteggiamento di 11 anni, a noi è sembrato il momento di scriverne».

 

 

Noi chi?

«Mi sono confrontato con gli amici di Ilaria e con chi ha attraversato insieme a me la stagione 2003-2010, quando frequentare i centri sociali significava scontrarsi coi fascisti che bruciavano macchine e accoltellavano ragazzini. Gli stessi che ora dicono che Ilaria è una terrorista».

“La non violenza è una posizione etica alta, ma predicarla sulla pelle degli altri no”: è l’angolatura con cui nel fumetto affronta il caso Salis. Vale anche per i pacifisti che chiedono agli ucraini di accordarsi con Putin rinunciando alla propria terra?

«Sì e no. Non credo al pacifismo dogmatico, pur reputandomi una persona pacifica. Quando però ci sono di mezzo gli stati nazione è più complesso, perché seguono logiche che non sempre sono quelle dei popoli».

 

Un disegno di Zerocalcare per i lettori di Repubblica
Un disegno di Zerocalcare per i lettori di Repubblica

 

Ilaria Salis è stata arrestata un anno fa durante l’Honor day, raduno di gruppi neonazisti europei tollerato dal governo ungherese.

«Non è che questi vincono le elezioni, a parte Alba Dorata in Grecia prendono percentuali da prefisso telefonico. Però se li incontri per strada rischi che ti spacchino i denti. E sono formazioni che mantengono una dialettica con i partiti della destra identitaria, che invece le elezioni le vincono».

Per vedere braccia tese non occorre andare a Budapest, basta farsi un giro ad Acca Larentia la sera di ogni 7 gennaio. È un evento da vietare?

«No, diventerebbe un assist per loro perché ci si impantana nella polemica sulla violenza politica e sulla commemorazione di ragazzi uccisi. Ci sono altre spie della cultura fascista che attraversa anche le istituzioni, ben più gravi ma di cui non si parla».

Quali?

«Ad esempio questa…» Prende il telefonino, scrolla. «Sul web ho trovato la locandina di una tavola rotonda a Montesilvano in Abruzzo, organizzata dal Blocco Studentesco e da altri gruppi neofascisti. C’era anche il responsabile nazionale di Azione Universitaria, l’associazione giovanile del partito di Giorgia Meloni. E sulla locandina, fatta coi colori delle camicie brune, è stampata la bandiera del Terzo Reich!».

A destra, e anche qualcuno a sinistra, sostiene che tutto ciò sia folklore, perché il fascismo è morto.

«Ma la deriva autoritaria è viva. Ci siamo dimenticati dei decreti sicurezza di Salvini? Il rischio della compressione del diritto al dissenso è reale».

Un anno fa al Salone di Torino lei è stato il primo a parlare del tentativo della destra di conquistare l’egemonia culturale tramite l’occupazione della Rai, della Biennale, dei musei…L’ultima vittima è Marino Sinibaldi, cacciato dal Centro del libro di cui era presidente. Che fare? Resistere o aspettare che passi la nottata?

«Resistere».

Come?

«Producendo opere che creano immaginario, perché quello la destra non lo sa fare. Mette figure identitarie nei posti chiave ma ha radici culturali sterili e anacronistiche, la sua mitologia si fonda da una parte sul vittimismo, dall’altra sulla negazione delle responsabilità nelle stragi degli anni Settanta. Il massimo della loro editoria è Vannacci, per dire».

Che però è un successo editoriale.

«Pompato dai media e dalla sinistra».

Opere che creano immaginario, cioè?

«Gli artisti, i musicisti, i fumettisti, gli scrittori possono rendere il loro lavoro un atto di resistenza culturale. Gli appelli non funzionano. Contengono le parole giuste e i concetti nobili, ma alla gente trasmettono l’immagine degli intellettuali che fanno la morale dai loro appartamenti in centro».

Se la destra occupa gli spazi, dove vi potete esprimere?

«Se non in tv o su media tradizionali, ci sono le produzioni dal basso, o i teatri dove non servono i padrini economici o politici».

Anch’essi entrati nel mirino.

«Durante gli Stati generali della cultura, cui ha partecipato il ministro Sangiuliano, dicevano che nei teatri bisogna tornare ai classici, a Pirandello, ai miti greci…è il loro modo di soffocare la sperimentazione e la contaminazione culturale».

Esiste anche la resistenza politica. La sinistra la sta facendo?

«Non lo so, il mio riferimento non è il Pd ma l’autorganizzazione. Comunque si sono tutti convinti che basti lanciare polemiche istantanee sui social per definirsi militanti o attivisti. Poi la sinistra si domanda perché non riesce più a intercettare le fabbriche, i lavoratori, le famiglie».

I social, tema caldissimo…

«Un fantastico strumento di intrattenimento, talvolta utile a veicolare messaggi, ma non c’entra niente con la democrazia. Sono piattaforme private che rispondono a logiche di profitto. Mai nella vita possono sostituire la politica vera, che si fa ancora associandosi ad altre persone, parlando, agitando vertenze e cercando di vincerle».

Siamo nell’era degli influencer. Come la vive?

«Male, io sono un attrezzo del Novecento!».

Su Instagram ha gli stessi follower di Selvaggia Lucarelli, eppure Zerocalcare non è un influencer. Perché?

«Boh, io parlo solo se ho qualcosa di originale da dire. Altrimenti è solo un esercizio dell’ego. Vedo social influencer che commentano argomenti delicati di cui non sanno niente e in buona fede fanno strafalcioni che screditano le cause più nobili».

E quando qualcuno le chiede di fare una storia sui social per sollevare l’attenzione su qualcosa, cosa risponde?

«Va a fa’ gli scontri, così vedrai che l’attenzione la sollevi. Nessuno si pone più il problema di agitare il conflitto nella vita vera».

 

 

L’ultimo esempio?

«Mi è stato chiesto di intervenire sulla vicenda di Giulia Cecchettin, quando c’è sua sorella Elena che ha detto già tutto quel che c’era da dire. Cosa posso aggiungere io, maschio bianco quarantenne?».

Nel caso di Giovanna Pedretti stupisce la sproporzione tra l’azione, una recensione probabilmente inventata, e la reazione che l’ha travolta. Così funzionano i social, o qualcuno deve assumersi delle responsabilità?

«Se per una figura pubblica la gogna può far parte del gioco, quando si scatena su un privato è la fine della civiltà. Politici come Salvini hanno costruito la loro carriera nel dare in pasto ai social chi esprime dissenso, il suo blog con la scusa del degrado espone le fragilità di coloro che vivono in mezzo alla strada agli insulti. La responsabilità la cercherei lì».

È ancora convinto di aver fatto bene a disertare Lucca Comics perché patrocinato dall’ambasciata di Israele? È stato molto criticato per la sua scelta, anche su questo giornale.

«Più che convinto. Se fossi andato, con le vittime nella Striscia di Gaza che sono più di 23 mila, oggi starei male».

 

 

Conseguenze?

«Mi hanno dato dell’antisemita, un’accusa infame per me che penso che la rivolta del ghetto di Varsavia sia uno dei momenti più edificanti della storia europea, e il rastrellamento del ghetto di Roma una memoria da conservare. Io ho i mezzi e le risorse per uscire dall’angolo, altri avrebbero visto la carriera sgretolarsi».

L’aumento degli episodi di antisemitismo e islamofobia è un fatto. Ogni dichiarazione o gesto pubblico è a rischio fraintendimento: serve responsabilità, non crede?

«Vero, bisogna essere intransigenti verso ogni manifestazione di odio. Ma è vero anche che rivendico il diritto di poter criticare il governo israeliano senza per questo essere considerato antisemita».

Lei, maschio bianco che ha appena compiuto 40 anni, come si sente?

«Invecchiato e meno entusiasta. Non che io sia mai stato un grande entusiasta eh, però adesso lo sono persino meno».

Bilanci esistenziali?

«Il capo cantiere albanese che sta facendo i lavori sotto casa mia mi ha puntato il dito addosso e mi ha detto: “Tu lavori tanto ma sei incompleto perché non hai un figlio”».

Reazione?

«O ci litigavo o mi mettevo a piangere. Però mi sono chiesto se avesse ragione, anche perché quegli stronzi degli amici miei sono tutti padri. Ora la sera esco coi relitti come me…oh, io non so se il modello della famiglia del Mulino Bianco mi si addice, non ho mai convissuto, mi piace stare da solo».

Ce ne sono tanti di modelli di famiglia: allargata, a distanza, queer…

«La verità è che io sono strutturato politicamente ma emotivamente siamo allo zero. La convivenza per me significa perdere il controllo e io sono molto rigido. L’idea di far entrare qualcuno nel mio spazio un po’ mi spaventa».

Quindi?

«Quindi mi sa che mi prendo un cane».

 

Sorgente: Zerocalcare: “La resistenza è nell’arte” – la Repubblica

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