0 17 minuti 3 anni

Il 16 ottobre 1943 le SS invadono il Portico di Ottavia e catturano più di 1000 persone tra cui 200 bambini. Solo in 16 si salveranno. Ecco il racconto di quelle ore. Per non dimenticare mai

Roma, 15 ottobre 1943, poco prima della mezzanotte cade una pioggia sottile sulle strade vuote. L’umidità si srotola sul selciato come un tappeto sottile e si arrampica sui muri delle case. Dietro quei muri, occhi spalancati di persone – donne, uomini, bambini – spaventate dal rumore improvviso di spari e di detonazioni. Più della paura è l’incredulità a stringere una morsa al collo degli abitanti dell’ex ghetto di Roma.

Un cattivo presentimento inquieta più di una tragica consapevolezza, soprattutto se si fa parte di un popolo che da tempi antichissimi ha dovuto scendere a patti col dolore, le persecuzioni, gli addii forzati. Persone che dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia non possono andare a scuola e hanno forti limitazioni sul lavoro. Cittadini di serie b, privati delle libertà che noi tutti riteniamo fondamentali e naturali. Una comunità così stanca di stare all’erta, che forse quella terribile notte ha sperato di non dover fare nuovamente i conti con un destino infausto.

Eppure in giornata, una donna in preda al panico giunta all’ex ghetto da Trastevere sotto la pioggia, aveva raccomandato agli abitanti di fuggire. Era venuta a sapere, nella casa di una signora dove sbrigava le faccende domestiche, che i tedeschi avevano stilato una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via insieme ai loro cari. Nessuno ha creduto a quella sorta di Cassandra vestita di nero, adesso però le sue parole riecheggiano come un presagio inascoltato tra le vie del Portico di Ottavia.

Che succede? Perché drappelli di soldati stanno sparando all’impazzata verso un cielo senza stelle? Sono tedeschi? E contro chi sparano se per strada non c’è nessuno? Di dormire non se ne parla. Un neonato scoppia a piangere per via del trambusto. La mano della mamma posata sulla dolce curva del suo capo lo rassicura e lui ricade nel sonno profondo e vulnerabile delle piccole creature.

Dalle fessure delle persiane qualcuno cerca di scrutare fuori e subito si ritrae, le schegge dei proiettili stridono troppo vicino ai telai delle finestre e il loro bagliore getta una luce effimera nelle stanze fredde. Poi d’improvviso il fracasso viene inghiottito dal silenzio della notte. Cos’è stato? Cercavano dei balordi? Allora noi non c’entriamo niente? Forse, per un attimo, gli ebrei tirano un sospiro di sollievo e l’ansia smette di premere sui loro ventri. Meglio accarezzare l’idea di stendersi qualche ora, convincersi che la donna vestita di nero altro non è che un’esagitata.

Purtroppo la Cassandra inascoltata non si sbagliava. Quello che accadrà qualche ora dopo è noto. Il destino di migliaia di vite segnato. La lucidità e la brutalità delle azioni commesse, implacabili e ingiustificabili. L’unico modo per rendere nelle nostre coscienze meno atroce il rastrellamento degli ebrei a Roma è continuare a raccontarlo. Sembra una contraddizione, ma sui ricordi, maggiormente su quelli più bui, va gettata la luce del presente. Per tenerli vivi, per evitare che nessuno dimentichi oppure osi emularli, contestarli o distorcerli.

 

Una veduta di via Portico d’Ottavia nel Ghetto di Roma 

 

Di sicuro, ripensando agli spari improvvisi e al monito della donna, ci si chiede perché nessuno abbia preso la via della fuga. Forse in quella mancanza di reazione c’entravano i fatti accaduti circa un mese prima. Era accaduto infatti che due rappresentanti della comunità ebraica erano stati invitati a villa Wolkonsky, allora sede dell’ambasciata tedesca e oggi residenza dell’ambasciatrice inglese, e lì erano stati ricevuti dal maggiore Herbert Kappler, il responsabile delle SS a Roma. Dopo i primi convenevoli, Kappler aveva accusato gli ebrei di essere doppiamente traditori. Innanzitutto perché erano italiani e, dopo l’8 settembre del 1943, tutti gli italiani erano considerati dei traditori. E poi perché erano ebrei e quindi ostili alla Germania. Con questo pretesto Kappler aveva imposto una sorta di riscatto, cinquanta chili d’oro da raccogliere e consegnare entro trentasei ore, altrimenti duecento ebrei della comunità di Roma sarebbero stati catturati e inviati in Germania. Sembra un’impresa impossibile, ma gli ebrei si mettono subito all’opera.

Scelgono come centro di raccolta dell’oro un locale adiacente alla sinagoga. Chi può accorre e porta con sé oggetti d’oro, gioielli e monete. A dare una mano anche persone che non sono di religione ebraica. Poi, col cuore in gola, quanto raccolto viene portato a villa Wolkonski, dove il maggiore Kappler non si fa trovare e fa dire alla sua segretaria che il tutto va portato in via Tasso, sede della polizia di sicurezza tedesca. Con la consegna dell’oro gli ebrei si credono in salvo. Ma il mattino seguente reparti delle SS si presentano al ghetto e sequestrano archivi, registri, manoscritti rari e documenti appartenenti alla Comunità. In tal modo viene portata via la memoria storica degli ebrei romani. Un altro duro colpo da digerire. Però, forse, questo ennesimo oltraggio può garantire almeno per un po’ una relativa tranquillità. E invece no!

 

Il Portico di Ottavia, nel Ghetto di Roma, in una foto storica 

 

Prima dell’alba del 16 ottobre del 1943, qualche ora dopo gli spari della notte, gli ebrei dell’ex ghetto, ma anche quelli di altre zone di Roma, sentono dei rumori che stavolta non sono equivocabili. Quelli dei passi cadenzati e dei calci dei fucili contro le loro porte. Il suono di una lingua straniera che non parlano ma che riconoscono benissimo: raus, fuori! Chi non apriva si ritrovava con la porta di casa sfondata. Un’intrusione violenta e inflessibile volta a scovare donne e uomini, bambini e vecchi. E allora mentre la paura comincia a rosicchiare i nervi, non rimane che uscire, con gli occhi sbarrati, il cuore che batte forte nel petto. Venti minuti di tempo soltanto. Non uno di più per l’umiliazione di vestirsi davanti ai soldati, raccogliere le proprie cose, viveri per almeno otto giorni, chiudere a chiave l’appartamento dove si è vissuto per anni e ricordarsi che nessuno, nemmeno gli ammalati gravi, deve rimanere indietro.

Nessuno ha saputo raccontare quei tragici momenti come Giacomo Debenedetti nel suo 16 Ottobre 1943: “Le madri o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare. Ed è anche più tremendo di dire non ce n’è ai figli che chiedono il pane”. Il tutto avviene molto velocemente, in una maniera accuratamente pianificata. Vengono rastrellate le persone che si trovano in casa, sfuggono alla cattura quei pochi che si trovano già per strada. Nonostante la metodicità, la concitazione è palpabile. Si levano grida, avvisi e raccomandazioni. In pochi secondi ci si può mettere in salvo o sparire per sempre.

Il destino decide di sfilacciare la sua maglia in fili così ingarbugliati da sovvertire qualsiasi logica. E del resto che logica si potrebbe trovare in un inferno da dove non si alzano fiamme ma lamenti? Dove gli sguardi impietriti e rassegnati fendono l’aria pungente del mattino e i silenzi parlano? Allora accade che la salvezza giunga inaspettata su chi era in pericolo e la condanna piombi invece su chi aveva una condizione all’apparenza più favorevole. Come quella di una donna avvisata per tempo, ma che risale in casa per vestire il suo bambino. Entrambi verranno catturati. Entrambi moriranno.

Durante le fasi di preparazione di una puntata di Ulisse – Il piacere della scoperta, dedicata a questa pagina infausta della nostra storia, mi hanno lasciato attonito le parole di chi quel mattino era lì. Un atto di solidarietà inaspettato ha messo in salvo Emanuele di Porto, all’epoca solo un bambino. “Mia madre era uscita, era andata ad avvisare mio padre che facevano la retata. Quando è ritornata, da casa mia io stavo in finestra e ho visto un tedesco che se la prendeva. Allora sono sceso e sono andato là, da mia madre. Lei mi faceva cenno di andarmene, ma io non mi volevo muovere. Poi il tedesco se ne è accorto e ha preso pure me. Mi ha portato sul camion e, non so come ha fatto, mia madre m’ha dato una spinta e io me ne sono andato. E so’ arrivato a piazza Monte Savello e so’ montato sul tram, c’era quello che spezzava i biglietti là e gli ho detto guarda, so’ ebreo me stanno a cerca’ i tedeschi. Questo me fa: “mettete qua vicino a me”. Poi, a ‘na cert’ora me dà pure un pezzo de pane. Due giorni so’ stato sul tram, e questi dell’Atac m’hanno aiutato. Se vede che se l’erano detti uno coll’altro, insomma, che io stavo là. E giravo sempre co ‘sto tram, era la circolare. Pensavo a mia madre, il pensiero mio stava su mia madre, insomma. È morta lì ai campi di sterminio. Però io volevo anna’ co lei”.

Sono parole che ci raccontano l’ultimo, straziante gesto d’amore di una madre verso il figlio e della solidarietà dei tranvieri verso Emanuele. Solidarietà che non era affatto scontata, visti i tanti delatori che in quei giorni denunciavano gli ebrei. Qualcun altro non conosce invece il nome di chi lo ha salvato da una morte certa. È il caso di Mario Mieli: “Al momento di montare sul camion, è passata una signora che era andata al mercato, aveva fatto la spesa e stava con dei fagotti. Ha detto “questo è figlio mio, io l’ho lasciato perché, sa, abitiamo vicino …”. E questo tedesco non capiva, non sapeva. A un certo punto ha acconsentito a darmi in braccio a questa donna”.

La zia del bambino che ha assistito alla scena si avvicina per prendere lei il nipote. La sconosciuta la mette in guardia: i tedeschi capirebbero che quello non è suo figlio e che lei ha mentito. Allora la zia fa un passo indietro, andrà a prendere il nipotino solo più tardi e gli farà da mamma per il resto dei suoi giorni. Della sconosciuta invece si perdono per sempre le tracce. Purtroppo in tanti, più di mille e duecento, non trovano nessuno che li aiuti a fuggire. In fila vengono spinti verso la palazzina che oggi è quella dell’Antichità e delle Belle Arti e poi radunati ai piedi del Portico d’Ottavia. Lì ci sono parcheggiati dei camion color fango, sormontati da teloni scuri. Gli abitanti dell’ex ghetto vengono fatti salire con la forza, le spinte e le minacce. Intanto, continua a scendere una pioggia sottile, la luce cruda di una mattina senza sole illumina lo scempio. I bambini vengono lanciati sui camion come pacchi postali, i vecchi sospinti da mani impazienti, un disabile scaraventato con tutta la sua carrozzina.

 

Poliziotti tedeschi nel ghetto di Roma durante la retata del 16 ottobre 1943  

 

Da quel momento non sono più persone. Sono un materiale umano da usare a proprio piacimento, da smaltire secondo un piano tanto folle quanto vergognosamente lucido. E quando i camion accendono i motori, la vita di queste persone si arresta senza essere preceduta da una brusca frenata del mezzo che le trasporta. Perché la morte in certi casi comincia prima di emettere l’ultimo respiro. Dalle strette fessure dei camion getteranno impaurite un’ultima occhiata verso il cielo sotto il quale erano vissute, avevano amato, costruito una famiglia.

Poi, al Collegio Militare di Trastevere, gli uomini vengono separati dalle donne, tra queste due partoriranno in un cortile perché portarle in clinica per i tedeschi significava una possibilità di fuga. Dopo due giorni tutti, anche i neonati, vengono trasferiti alla Stazione Tiburtina e per loro comincerà un viaggio senza ritorno. Un viaggio verso Auschwitz. Un viaggio verso le camere a gas. Solo in sedici si salveranno. E per loro vivere non sarà meno difficile che morire. Così come per tutti coloro che in Europa, su altri treni, in altre nazioni, stipati come bestie, vanno verso quei campi di morte travestiti da campi di lavoro. Ebrei, zingari, oppositori politici, omosessuali. Tutti quegli individui che non rientravano nel Gleichschaltung nazista, l’allineamento volto a esercitare il totale controllo degli esseri umani a ogni livello pubblico e privato.

Il regime nazista inizialmente voleva liberarsi degli ebrei favorendone l’espatrio in altri Paesi. Ma quando alcune nazioni chiusero le loro frontiere, decise di sterminarli. Una “soluzione finale”, presa nel 1942 durante la Conferenza di Wannsee, un lago vicino a Berlino. Una decisione che riguardava anche gli ebrei italiani. Tra essi una bambina che non è partita da Roma, ma da Milano. Oggi ha novantuno anni: Liliana Segre. Da anni, da molto prima di essere stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha raccontato la sua tragica storia nelle scuole, nei convegni, nelle piazze. La sua voce, così come quella degli altri sopravvissuti alla tragedia della Shoah, è una voce che non bisogna smettere di udire mai.

È la voce della coscienza di tutti: di chi ha patito e di chi ha ferito, di vittime e aguzzini. Una voce che ha denunciato non solo il dolore ma l’indifferenza sotto la quale la tragedia dell’Olocausto si è svolta. E le domande, le riflessioni, non sembrano cessare nella sua mente: “Sento tutto il peso degli anni oggi, ho milioni di domande a cui in realtà non ho trovato risposta e questo è forse il tormento più grande della mia vita”, ha dichiarato dopo aver ricevuto dall’ambasciatore Viktor Elbing l’onorificenza dell’Ordine al merito della Repubblica tedesca, per lo straordinario impegno nel ricordare la Shoah e l’instancabile lotta contro l’odio e l’intolleranza.

Stati d’animo i cui germi rivivono ogni giorno: in un’azione squadrista volta a intimidire, in un bullo che vessa una persona fragile, in una minoranza sociale schiacciata da una maggioranza di idioti. La violenza è violenza. L’odio è odio, senza sfumature. E come nei versi della poetessa Wislawa Szymborska meglio non sottovalutarlo mai: “Guardate come è sempre efficiente, come si mantiene in forma nel nostro secolo l’odio/ Lo dicono cieco. Cieco? Ha la vista acuta di un cecchino”. Sì è vero, l’odio vede bene, non è cieco di rabbia. Valuta e premedita. E lascia fuori dal suo campo visivo solo quello che non gli conviene vedere.

Noi però abbiamo gli occhi: teniamoli aperti! Andiamo nei luoghi di questa tragedia, di tutte quelle perpetuate da tutte le dittature. Leggiamo i libri e le testimonianze di chi ha vissuto questa terribile esperienza. Una volta di più facciamo un giro al ghetto, guardiamo in basso, verso quelle pietre d’inciampo dove ci sono i nomi e i cognomi di chi è stato strappato alla vita senza avere colpa alcuna. Per capire meglio, per dare abbrivio al cuore, per comprendere che il passato è fondamentale se si vuole leggere il presente. Per mettere a fuoco che i tanti oggetti custoditi nelle teche del museo di Auschwitz non sono oggetti. Sono ricordi. E i ricordi hanno un’anima. Perché sono appartenuti a gente che stava vivendo come noi adesso. L’onta bruna sotto le suole delle scarpe accatastate ci racconta di passi che non avrebbero voluto fermarsi. Le valigie vuote erano pronte per riempirsi di speranza, di sogni nati morti fatti a occhi aperti da donne e uomini un tempo felici.
(Ha collaborato Vito Lamberti)

 

 

Sorgente: La notte del ghetto di Roma: il grande racconto di Alberto Angela – la Repubblica

Please follow and like us:
0
fb-share-icon0
Tweet 20
Pin Share20