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25 April 2024
0 14 minuti 3 anni

Migranti e detenuti hanno scavato 17 sepolcri. Lì sono spariti i nemici delle milizie di Haftar. Un potere costruito sul terrore che ora rappresenta un’ipoteca per la ricostruzione alla quale partecipa l’Italia

Il vortice di vento alza una polvere rossa che copre le case, le strade, la moschea che si affaccia su un pendio. Il lembo di terra che si estende dalla moschea alla fine della piccola valle è della famiglia di Hamza Abdullah.
Hamza procede a passi lentissimi, al tramonto, le sue parole si confondono col sibilo del vento, via via più forte, via via più acuto. Ripete sempre le stesse parole, rimestate col vento sembrano una preghiera, ma non lo sono: «Era la sua terra. Era casa sua. Lui voleva essere sepolto qui», dice Hamza.
Lui era suo padre e quel frammento di terra all’estremità della città era il suo angolo di riposo.
Oggi è il sepolcro privato di cinque persone. Il padre di Hamza, i suoi tre fratelli e un cugino.
Portati via una notte d’inverno e uccisi.

La casa di famiglia è diventata una casa di sopravvissuti. Lui si è salvato perché non era in Libia, ma in Scozia per un dottorato di ricerca. Hamza è un ingegnere civile. O almeno lo era. Quando hanno rapito gli altri uomini della sua famiglia è tornato a casa a prendersi cura di quello che restava: le donne e gli interrogativi sulla scomparsa.
Mentre varca la porta di ingresso evoca i movimenti di quella notte: le macchine nere ferme all’esterno ad aspettare, un gruppo di uomini armati che si arrampica sul tetto e gli altri che entrano buttando giù le porte di ogni stanza e portando via gli uomini, uno dopo l’altro.

Hamza conosce ogni dettaglio perché lo raccontano, ogni giorno, la madre e le sorelle che si muovono ancora come fantasmi, tra i panni stesi ad asciugare e i resti di una vita infranta.
«Mio padre era un manager al ministero dei Trasporti, un giorno gli hanno chiesto di firmare dei documenti per approvare dei progetti, appalti affidati illegalmente a “loro”. Mio padre si è rifiutato. Gli hanno detto solo: ti facciamo saltare la testa. Ha preso le sue cose, ha lasciato l’ufficio e ha cominciato a temere per la vita di tutti. Li hanno portati via prima che riuscissero a lasciare la città».
Quando dice «loro» Hamza intende la milizia al-Kani, lo spietato gruppo armato che ha gestito ogni aspetto di Tarhouna per anni.
«Tutti sapevano cosa accadeva qui, il governo precedente di Sarraj, il governo attuale. È stato sempre noto a tutti eppure nessuno li ha fermati».

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Hamza continua ancora oggi a ricevere minacce, anche a distanza.
Mostra il telefono: «Ti prenderemo», gli scrivono utenti anonimi a nome degli al-Kani.
Continua a non dormire, come le sue sorelle e i bambini. Come sua madre che da quella notte parla a stento, a stento mangia, a stento esce di casa. «Ci difenderanno dagli assassini prima o poi, o lasceranno per sempre il paese in mano alle milizie?», lo dice Hamza più a sé stesso che alle persone presenti nella stanza, lo dice pensando alla sua paura degli al-Kani che invece sono in salvo, fuggiti a est, in Cirenaica e lì protetti dalle forze di Haftar.

Ad aspettare, forse, che il vento cambi ancora. A capire, forse, come riposizionarsi, per l’ennesima volta.
Basterebbe la storia di Tarhouna a raccontare cosa è stata la Libia, cosa è oggi, cos’è il timore di quella che sarà.
Basterebbe la storia recente della città e i segreti sepolti nelle fosse comuni, finora diciassette, scoperte dopo la fine dell’ultimo conflitto, la scorsa primavera.

 

Tarhouna è stata dominata dalla tribù al-Kani, sette fratelli – Abdul-Khaliq, Mohammed, Muammar, Abdul-Rahim, Mohsen, Ali e Abdul-Adhim – che per otto anni hanno imposto a migliaia di persone un regime di terrore.
Gheddafiani e dunque controrivoluzionari nel 2011, gli al-Kani hanno saputo riposizionarsi ogni volta che è cambiato il vento. Hanno organizzato una potente brigata militare che contava migliaia di combattenti e preso il controllo della città. Come la maggior parte delle milizie hanno beneficiato dell’accesso ai fondi statali e costruito il consenso sul potere delle armi.

L’altro volto del potere seguiva le regole della vendetta tribale e dell’estorsione. Hanno sugellato la propria autorità seminando terrore, a Tarhouna ricordano la sfilata di un convoglio dei loro veicoli militari, nel 2017. Un camioncino bianco trasportava sul tetto due leonesse come simbolo della paura che i fratelli al-Kani intendevano ispirare.
Raccontano qui, a voce bassa, che per sfamarle i sette fratelli usassero i corpi dei nemici.
Gestivano ogni aspetto della vita civile, uno stato nello stato. Controllavano la polizia, hanno rilevato il cementificio e lo stabilimento della fabbrica di acqua minerale di Qasr Ben Ghechir e tutte le altre società situate nel sud di Tripoli fino a Tarhouna, hanno costruito un impero commerciale imponendo ai negozianti di intestare loro ogni attività, e hanno costruito un tesoretto con i rapimenti.

Ricevevano segnalazioni dalle filiali delle banche sui titolari di conti correnti e li prelevavano a casa di notte. Tenevano in vita i rapiti per fargli ritirare tutti i risparmi dai conti correnti e poi li uccidevano, lasciando il corpo esposto all’incrocio stradale all’ingresso della città che da allora si chiama «il triangolo della morte».
Si facevano pagare anche dai trafficanti di uomini e dai contrabbandieri di carburante, perché Tarhouna è sul tragitto che dal deserto conduce alla costa. Chi passava per la città doveva pagare il pedaggio, cioè una tangente.

Hanno usato i soldi raccolti per rafforzare il loro arsenale militare e per portare mercenari locali e stranieri, anche ciadiani e sudanesi.
In questa città-stato ogni fratello ricopriva un ruolo, Abdul Rahim per esempio era a capo dell’apparato di sicurezza, Moshen era il responsabile della milizia armata.

È suo il volto che campeggia sul muro di una caserma. Era un murale celebrativo. Oggi è crivellato di colpi.
Nel 2016 gli al-Kani hanno sostenuto (e, nei fatti, sono stati sostenuti anche economicamente) il governo di Fayez al Sarraj. Allora Khalifa Haftar li definiva una milizia legata a Lifg, cioè i qaedisti locali, poi, all’inizio della guerra di Tripoli, con l’ennesimo riposizionamento, sono diventati i principali alleati di Khalifa Haftar, hanno cambiato casacca e hanno appoggiato chi fino al giorno prima era stato loro nemico.
Sono stati celebrati dai media di Haftar come «forze militari delle unità d’elite» e hanno combattuto la guerra di Tripoli con esecuzioni esemplari, come quella di dodici prigionieri delle truppe di Sarraj, li hanno rapiti, torturati, hanno tagliato loro i genitali, hanno brutalizzato i loro corpi, smembrandoli.

Haftar ha trasformato la città, ottanta chilometri a sud est di Tripoli, in un punto strategico per attaccare la capitale, prendere Tarhouna poteva significare lanciare attacchi cruciali per conquistare la capitale, perdere Tarhouna significava perdere la guerra.
E infatti quando lo scorso anno i turchi hanno esteso la presenza di uomini e mezzi in difesa del governo di Tripoli, gli al-Kani hanno lasciato la città e sono fuggiti a est, in Cirenaica, dall’alleato Haftar, senza combattere una battaglia che sapevano già persa.
Ma dietro di loro hanno lasciato una scia di sangue e morte che porta dritta alle campagne della città, alle diciassette fosse comuni. Ai duecento corpi ritrovati. Ai cinquanta riconosciuti. Alle centinaia che mancano ancora all’appello.

Muhammad Ali Kosher, è il sindaco ad interim di Tarhouna. La sua tribù è stata storicamente antagonista degli al-Kani, per questo casa sua è stata distrutta e gli uomini della sua famiglia fatti sparire. Il suo ufficio è un viavai di persone, sono i membri dell’associazione delle persone scomparse, gli sfollati che fanno ritorno a casa, i soldati che tornano dalle campagne a riferire il lavoro delle squadre che lavorano nelle fosse comuni.
«Hanno trovato tre corpi anche oggi, per fortuna uomini, adulti», dice.

Si imbarazza per quelle due parole «per fortuna» ma lo dice perché i suoi occhi hanno visto corpi di donne, una incinta, corpi di bambini torturati e «corpi seppelliti con le maschere di ossigeno, i dispositivi medici. Prelevati dagli ospedali e portati in mezzo ai campi, chissà. Forse sepolti vivi».
La maggior parte delle fosse comuni è in un’area chiamata Machrou al Rabt, a una decina di chilometri dalla città, sono state scoperte alla fine della guerra, la scorsa primavera. Gli abitanti di Tarhouna hanno cominciato a chiamare le forze dell’ordine, raccontare cosa avevano udito – il rumore delle scavatrici, di notte – e visto – intere famiglie trascinate via alle prime luci dell’alba e poi scomparse. Così da sette mesi la terra rossastra di Tarhouna ha cominciato a parlare, hanno cominciato a parlare i rettangoli ordinati segnati dal nastro rosso e bianco, hanno cominciato a parlare le donne sole, le superstiti della città fantasma.
«Le fosse sono state scavate dai migranti, abbiamo trovato le prove nelle loro prigioni»: Farj Ashgheer è un membro dell’Associazione delle famiglie degli scomparsi, racconta come un miliziano degli al-Kani abbia confessato che i migranti detenuti sono stati usati per scavare le fosse comuni e caricare le munizioni.
Ne hanno trovato prova sugli archivi delle prigioni. Gli al-Kani segnavano la data in cui i migranti venivano prelevati e portati via.
Il giorno della liberazione ce n’erano decine, chiusi a chiave nel centro di detenzione illegale, terrorizzati, affamati. Non mangiavano da giorni.
È passato un anno dalla liberazione della città e i fantasmi continuano a uscire dalle prigioni. Parla l’aria stantia che esce dalle celle. E parlano i sopravvissuti.

Tarek Mohammed Dhaw al-Amri è stato detenuto nella struttura militare di Da’am per sette mesi, insieme ad altre settanta persone.
Gli al-Kani sospettavano che fosse un traditore, che inviasse informazioni alle truppe di Sarraj.
I primi dieci giorni l’hanno torturato, due persone lo tenevano fermo e altre due lo bastonavano con i tubi di plastica o lo frustavano, contemporaneamente. Poi l’hanno chiuso nella cella numero uno. Tre metri per due, la dividevano in dieci, dormivano a turni. Cinque in piedi e cinque stesi.
Era buia e fredda ma, avrebbe capito col passare delle settimane, almeno non era la cella dei destinati a morire, la numero 2, quella con niente luce e poca aria.

«Ogni giorno prelevavano qualcuno dalla cella n. 2, lo bendavano e dopo due, tre minuti sentivamo uno sparo, in poco tempo abbiamo capito che quella era la cella dei condannati».
Quando gli al-Kani hanno capito che la guerra era persa hanno cominciato a uccidere a caso, senza motivo e brutalmente. «Ogni giorno pensavo che sarebbe arrivato anche il mio turno, ogni volta che aprivano la porta della cella pensavo: tocca a me».
Il suo turno non è arrivato, la città è stata liberata prima.

Farj è vivo ma ha visto morire parenti e amici, come Ezzedine Bouzwaida. Quando ricorda le sue ultime parole, «chiedi alle donne rimaste di perdonarmi», Farj piange, le sue lacrime scorrono sul viso, e cadono sulla divisa. Le asciuga col pudore del sopravvissuto, di chi conserva la memoria.
E insieme alla memoria trattiene il desiderio di vendetta.
Oggi Farj fa parte delle forze di sicurezza della città.
Ma la parte del protagonista, a Tarhouna, oggi, la gioca un’altra milizia.
Uscita di scena la brigata al-Kani, non è ancora il turno delle forze governative, ammesso che questa parola abbia un senso, in Libia. È la volta di un’altra milizia, la 444. Sono loro, incappucciati e armati, a presidiare l’entrata e l’uscita dalla città.

A marzo i ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno imposto sanzioni per gravi violazioni dei diritti umani ai fratelli al-Kani. C’era già il nuovo governo della Libia finalmente unita.
Ma l’unità nazionale era ed è ancora solo sulla carta.
La Libia resta un paese spezzato, gli al-Kani vivono indisturbati e al sicuro a Bengasi, ancora sotto il controllo di Haftar, e continuano a minacciare anche a distanza chi è rimasto a Tarhouna, aspettando forse di tornare, aspettando di capire in quale direzione cambierà il vento e come posizionarsi. Aspettando di capire come ricompattare il gruppo armato, nel balletto, nella staffetta delle milizie.

Farj sull’uscio di quella che è stata la sua cella dice: «La nostra religione ha come obiettivo la pace ma la pace con gli assassini non è possibile. Nessuna riconciliazione con chi ha sterminato Tarhouna. Nessun perdono per gli uomini di Haftar».

Sorgente: Nelle fosse comuni della Libia il mattatoio del Nordafrica – L’Espresso

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