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La strage silenziosa delle Rsa | Rep

Sapevamo che il virus si accaniva contro gli over 70, ma non abbiamo fatto nulla per proteggerli: 26.422 di loro si sono spenti nel silenzio. Oltre metà, i più fragili di tutti, sono morti nelle residenze sanitarie. Soli, senza più contatti con le famiglie, in molti casi legati ai letti. Affidati dal servizio pubblico a una rete debole di strutture, con meno assistenza di quella prevista per i carcerati. Ci sono Giunte regionali che, invece di aiutarli, hanno fatto cadere su di loro il peso dell’emergenza. Gli hanno tolto il personale, gli hanno negato il ricovero nei pronto soccorso, hanno persino messo i contagiati nelle loro palazzine per fare spazio negli ospedali. Ovunque, ma soprattutto in Lombardia, dove il Pio Albergo Trivulzio è diventato il luogo simbolo di questo dramma, la terra più colpita e l’amministrazione più contestata. Qui troverete il racconto di medici, infermieri e sindaci che hanno lottato per salvare i loro pazienti. Di manager e politici incapaci di frenare i contagi. E di italiani che chiedono giustizia per i genitori e i nonni a cui non hanno potuto nemmeno dire addio.

Chiusi in una scatola

“L’assurdità è che invece di proteggere i nostri anziani, li abbiamo tenuti chiusi in una scatola con dentro il virus. L’inefficienza e l’irresponsabilità di queste decisioni hanno portato alla morte di mia madre e di molti nostri cari, che erano i più deboli. Li dovevamo difendere e mi sento responsabile anche io”.

Lucio Viola racconta l’incubo vissuto da una moltitudine di italiani che hanno perso genitori e nonni: si sono spenti nel silenzio, isolati da tutti, sepolti nella solitudine prima ancora di morire. Il nostro Paese li ha semplicemente dimenticati. “Tutti questi luoghi completamente abbandonati e deserti. I figli fuggivano lasciando i cadaveri dei genitori”, scriveva Paolo Diacono quindici secoli fa, raccontando la peste che ha decimato l’impero bizantino. E anche noi siamo precipitati in quell’orrore. Un baratro così profondo da spingere a distogliere lo sguardo. “Io non ho più potuto parlare con mia mamma. Al telefono faceva fatica anche a riconoscerci, ci riusciva solo di persona: appena ci vedeva era contentissima e ci veniva incontro con la carrozzella. Perché mia mamma di testa non c’era più, ma poteva vivere ancora”, ricorda Carlo Butera: “L’ho incontrata per l’ultima volta il 27 febbraio, poi il 6 aprile ti vedi arrivare una bara e non sai neanche chi c’è dentro”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Oggi tutti vogliamo soltanto voltare pagina e pensare all’estate, c’è già la tentazione di dimenticare: rimuovere quello che è successo, lasciarlo alle spalle. Invece no. Bisogna cominciare a fare luce sul capitolo più buio di questi mesi. E chiederci come sia stato possibile che l’Italia abbia lasciato morire almeno 26.422 anziani, ma la cifra è sicuramente più alta perché non si riesce neppure a tenere un conto esatto. Tutte queste persone hanno chiuso gli occhi nelle abitazioni, negli ospedali ma soprattutto nelle Rsa. Le residenze sanitarie assistite: luoghi che, come indica il nome, non sono ospizi ma centri clinici che dovevano curarli e custodirli. Mentre si sono trasformati in discariche di esseri umani, rimasti indifesi di fronte al male: senza terapie adeguate, senza l’ultimo saluto dei loro cari che spesso non sono riusciti nemmeno a sapere cosa stesse accadendo.

Padri e madri, nonne e nonni spariti, come fossero desaparecidos inghiottiti dal terrore. In tutte le regioni, ma particolarmente in Lombardia: la terra della sanità modello e del welfare più efficiente, incapace di tutelare i suoi vecchi dall’epidemia. “Il Covid ha messo tragicamente in luce le mostruose lacerazioni e le disuguaglianze intollerabili di una società che, già prima di questa pandemia, tendeva a trattare le persone ritenute anziane come, direbbe papa Francesco, “scarti””, sentenzia il filosofo Salvatore Veca: “La ghettizzazione della terza età come forma di esilio delle persone dalla comunità è un problema che condividiamo con tutto l’Occidente. Ma quello che è accaduto, in particolare nelle Rsa, è stato un rito sociale di decimazione”.


Una strage nell’oblio che ha falciato più di ventimila esseri umani. Tre mesi fa ci sarebbe sembrato uno scenario incredibile. Invece è avvenuto. E continua ad avvenire: la furia del massacro è rallentata solo a metà maggio, ma non si è fermata. Nelle case di cura e negli ospizi la Fase Uno non è ancora finita. Anzi l’emergenza diventa sempre più dura: il personale è dimezzato, le casse sono vuote, gli ospiti rimangono tagliati fuori dal mondo.

Per questo è necessario capire. Iniziare a ricostruire le dinamiche del massacro. Chiedere se l’eccidio poteva essere evitato e come. Rendersi conto di chi ha peccato; per parole, opere e soprattutto omissioni. Le indagini della magistratura accerteranno le responsabilità penali, ma è facile prevedere processi lunghissimi e esiti incerti. Ci sono però capitoli di questo dramma che si possono già scrivere. Raccontano del sacrificio di medici ed infermieri; di comunità che si sono mobilitate e di sindaci che si sono battuti; di manager che hanno affrontato a testa alta l’epidemia. Ma anche di amministratori pubblici e privati che hanno nascosto la verità, di dirigenti che hanno imposto divieti criminogeni; di giunte regionali che hanno fatto scelte drammaticamente scellerate; di una classe politica che non ha mosso un dito per tutelare i cittadini più fragili di tutti. Quando si parla di assistenza alla terza età, si usa sempre l’immagine di Enea che trasporta sulle spalle il padre Anchise durante l’incendio di Troia. In Italia, davanti alla crisi del millennio, è come se Enea avesse abbandonato Anchise e fosse fuggito a gambe levate.

L’unica certezza

Del Covid 19 ancora oggi sappiamo poco. Gli scienziati si confrontano su tempi di incubazione, immunità, resistenza nell’aria, mutazioni. C’è una sola certezza, conosciuta e condivisa dal mondo intero: i pazienti con oltre 70 anni e con più patologie sono quelli che rischiano più di tutti. Non è mai stata messa in discussione. Ed è stata chiara sin dall’inizio.

Il 29 gennaio a Roma si riunisce per la prima volta il tavolo tecnico-scientifico sul coronavirus creato dall’Iss, l’Istituto superiore di Sanità. Non si comprende ancora bene cosa stia accadendo a Wuhan, le informazioni sono discordanti e l’obiettivo principale delle autorità – giustamente – è quello di tranquillizzare. “Probabilmente non siamo ai livelli di letalità della Sars, forse qualcosa di leggermente maggiore dell’influenza”, dichiara quel giorno Gianni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Iss: “I morti sono perlopiù anziani o affetti da malattie croniche, la differenza è che per l’influenza abbiamo un vaccino, mentre per questo no”.Quindi il bersaglio privilegiato del virus è già stato individuato: c’è la consapevolezza di quali siano le sue prede favorite, contro cui si accanisce con maggiore crudeltà. Non è un quadro definito, perché le notizie che trapelano da Pechino sono confuse. Lo scenario cambia completamente il 17 febbraio. Quel lunedì si parla del ribaltone in campionato: la Lazio ha battuto l’Inter ed è a un solo punto dalla Juventus. Matteo Renzi contesta il premier Conte e litiga con il Pd. Il virus è già sulle prime pagine, ma appare come un problema lontanissimo: si organizza il rimpatrio degli italiani da Wuhan. Nelle stesse ore viene reso noto il primo studio completo su quella che non è ancora la pandemia.

Il Chinese Journal of Epidemiology pubblica la relazione del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie: un’analisi massiccia, basata su 44 mila casi sicuramente positivi e un totale di 72.314 tra confermati e sospetti. C’è una conclusione che appare rassicurante: la maggior parte delle persone colpite presenta sintomi lievi. E c’è un monito minaccioso: il tasso di mortalità aumenta con l’età, dopo i 70 anni sale all’8 per cento. Chi soffre di altre patologie ha maggiori probabilità di non farcela.

Per l’Italia queste parole dovrebbero suonare come una sirena d’allarme. Siamo uno dei Paesi più vecchi del pianeta. Adesso c’è l’evidenza scientifica e l’identikit di chi corre i rischi più gravi: 2.857.801 persone entrano nel mirino del Covid 19. Tanti sono gli over 75 con altre malattie: una fetta importante della popolazione. È come se una nube cupa si allungasse da Wuhan su tutti gli abitanti di Bologna, Torino e Milano. Ma nessuno fa niente per loro. Non si allestiscono piani d’emergenza, non si mobilitano task force, non si allertano le strutture sanitarie. Eppure la corsa verso la catastrofe è già cominciata e in maniera invisibile il contagio sta avanzando nelle regioni del Nord.

Tre giorni dopo, nella sera del 20 febbraio, il mostro si manifesta nell’ospedale di Codogno: c’è la diagnosi del ‘Paziente Uno’, l’inizio dello tsunami.Sarebbe stato necessario fare quadrato intorno ai quasi tre milioni di anziani a rischio: costruire una barriera per tenere l’epidemia fuori dalle loro abitazioni o quantomeno blindare le Rsa che ospitano i casi più seri, quelli per cui servono terapie mediche complesse. La Società italiana di geriatria e gerontologia si limita a redigere un decalogo “per suggerire cautele e precauzioni”. Il presidente Raffaele Antonelli Incalzi lo illustra ai media: “In chi ha più di 65 anni l’infezione da coronavirus può essere più aggressiva perché la senescenza del sistema immunitario e le malattie croniche espongono l’anziano a un rischio non di maggior contagio ma di sviluppare un’infezione decisamente più grave”. Fior di epidemiologi in quelle ore parlano del coronavirus come di un’influenza qualunque. Mentre è chiaro su chi si abbatterà la tempesta.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Da sabato 22 febbraio al Nord scatta la corsa a chiudere scuole e chiese. Si alternano ordinanze controverse sui bar e a Milano c’è la disfida dell’aperitivo, con il sindaco Beppe Sala che organizza brindisi dopo le 18 con il segretario Pd Nicola Zingaretti. La frenesia preventiva ignora completamente la questione degli anziani e delle residenze sanitarie assistite: non c’è una sola dichiarazione dei vertici nazionali o regionali, non ci sono provvedimenti mirati. Il vuoto totale.

Le agenzie di stampa riportano un’eccezione. Soltanto a Piacenza qualcuno fa la cosa giusta. Il 21 febbraio, poche ore dopo la scoperta del “Paziente Uno”, l’Azienda sanitaria sbarra le porte della casa di riposo Vittorio Emanuele II ai visitatori. Codogno dista pochi chilometri e viene decisa una misura di buon senso “in considerazione del fatto che, come è noto, gli anziani sono i soggetti più a rischio di vita in caso di contagio”. Come vedremo, il muro non li salverà dall’epidemia, che si è abbattuta con ferocia su Piacenza. Sorprende però come quel gesto sia rimasto unico: in nessuna altra parte d’Italia se ne sente bisogno, non c’è neppure la cautela minima. Un’amnesia collettiva.

Il 24 febbraio Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia concordano con il ministero della Salute un pacchetto di iniziative. Con parole diverse, tutte e quattro ordinano di “limitare l’accesso dei visitatori agli ospiti” delle Rsa. Nello stesso giorno anche il governatore lombardo Attilio Fontana firma una direttiva ma non si fa cenno alla terza età: si chiudono asili, università, cinema, teatri; si vietano gite scolastiche e competizioni sportive ma non c’è alcuna regola per le residenze degli anziani. La prima di tante negligenze. Eppure è in Lombardia che l’allerta dovrebbe essere massima: si contano 1.140.955 cittadini con più di 75 anni. Ben 308 mila non sono autosufficienti e almeno 58.425 vivono nelle strutture sanitarie. Sono i bersagli destinati e completamente dimenticati: una disattenzione che proseguirà nel tempo.

Ricorda Lucio Viola: “Mia mamma Silvana di 88 anni era ospite da otto anni all’Uboldi di Paderno Dugnano nel Milanese: un centro privato dove pagavamo una retta di 2.550 euro al mese. A fine febbraio tutti potevano entrare ed uscire, c’è stata persino la festa di carnevale. Non ho visto mascherine, non ho visto guanti”. Il 29 febbraio nelle valli bergamasche si percepisce che la situazione sta precipitando. Una pattuglia di residenze chiede l’autorizzazione a bloccare gli accessi: sono in convenzione, devono seguire le direttive della Regione. Glielo vietano: agli ospiti non si può negare la socialità. Gli uffici competenti non hanno la minima idea di quanto il virus sia già forte.

Soltanto il 5 marzo entra in vigore il Dpcm del governo Conte: “Limitato l’accesso dei visitatori nelle strutture di lungo degenza, Rsa e centri residenziali per anziani, secondo le disposizione delle rispettive direzioni”. In pratica, si permette l’ingresso di un familiare al giorno per ogni ospite. Quasi nessuno verifica la temperatura, nemmeno in prossimità dei primi focolai: “In questo momento la probabilità che un contatto della zona rossa entri in una casa di riposo del Milanese è bassissima – dichiara Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell’Ats di Milano e Lodi -, quindi l’unica richiesta che facciamo alle strutture è di organizzare un minimo di controllo all’ingresso e lasciare fuori le persone sintomatiche”. Una coperta cortissima: solo più tardi si comprenderà che quasi metà dei contagiati non manifesta sintomi, ma è comunque diffusore del male: senza tamponi, parenti e dipendenti finiranno per essere inconsapevoli untori.L’8 marzo con il lockdown il governo si preoccupa anche di chi sta a casa, sancendo le indicazioni fornite pochi giorni prima dal Comitato scientifico: “Viene fatta espressa raccomandazione a tutte le persone anziane o affette da patologie croniche o con multimorbilità ovvero con stati di immunodepressione congenita o acquisita, di evitare di uscire dalla propria abitazione o dimora fuori dai casi di stretta necessità e di evitare comunque luoghi affollati nei quali non sia possibile mantenere la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”. Un consiglio, che per molti si trasforma in una condanna: perché non c’è alcun potenziamento dell’assistenza domiciliare e non esiste modo di aiutarli. I familiari si attaccano ai numeri verdi creati dalle Regioni ma le risposte non si traducono quasi mai in tamponi, terapie o ricoveri.

Impossibile trovare una mascherina o dei guanti. I medici di base sono sommersi di chiamate. L’emergenza è già in tutto il Nord, il bollettino delle vittime cresce esponenzialmente. In un giorno si registrano 1.326 nuovi casi e 133 morti. La paura dilaga ovunque. Ed è allora, diciassette giorni dopo l’individuazione del “Paziente Uno”, che anche le ultime Rsa chiudono definitivamente le porte. Imprigionando in un muro di silenzio le persone all’interno: una reclusione che non è ancora finita, forse si concluderà il 31 maggio. Lo fanno senza che in oltre due settimane sia stato attivato qualcosa per proteggerle: un protocollo per istruire il personale, una fornitura di medicinali, una scorta di indumenti protettivi, un servizio di consulenza. Niente di niente.


“Gli anziani sono stati umiliati e offesi”, dice senza mezzi termini Marco Trabucchi, presidente della Società italiana di psicogeriatria che ha affrontato la pandemia nelle corsie martoriate di Brescia: “Con l’emergenza sono saltati i freni inibitori e tanti hanno detto ad alta voce quello che molti pensano: ‘Non vale la pena di accanirsi, quei vecchi sarebbero morti comunque’. Io lo trovo inaccettabile”.

“Non vedo cosa avremmo potuto fare. Era impossibile allestire una rete alternativa di assistenza in un mese”, dichiara Roberto Bernabei. E’ ildirettore del reparto di geriatria del Policlinico Gemelli di Roma ed è membro del Comitato tecnico scientifico che da febbraio consiglia il governo. Parla di “una strage prevista e prevedibile”, ma non è per niente rassegnato: “Siamo il Paese più vecchio del mondo insieme al Giappone. Dire ‘moriranno degli extra-vecchi in più, ma me ne frego perché preferisco il profitto’ a me non piace proprio. Però bisogna evitare gli scandalismi e guardare alla realtà, quella che è sempre stata nascosta sotto il tappeto: in Italia non ci si è mai posti il problema di creare una rete di assistenza per queste persone con patologie complesse. E sottolineo: mai”.

Porte sbarrate

“Dall’8 marzo la struttura ha chiuso e da quel momento nessuno di noi è più potuto entrare. Per i primi quindici giorni non abbiamo avuto notizie, poi ci siamo cominciati a preoccupare. Abbiamo iniziato a chiamare, ma non rispondevano alle telefonate, forse il personale era preso non volevamo pesare e ci siamo rassegnati ad attendere. La testimonianza di Lucio Viola è identica a quella di tantissimi, centinaia di migliaia di famiglie a cui viene tolto ogni contatto con i loro cari, barricati nelle strutture. Tutti i parenti si rendono conto del dramma che sta investendo l’Italia: non urlano, perché sono consapevoli che la tragedia è collettiva. In fondo, pensano, quei luoghi sono fatti per curare: bisogna fidarsi.


Non sempre è così. Dietro un muro di silenzio si consuma la strage. In meno di due mesi nelle Rsa di Brescia moriranno 1.800 ospiti; in quelle di Milano 1.700; in quelle di Bergamo oltre 1.300. Neppure i bombardamenti della guerra mondiale hanno fatto tante vittime. Non ci sono termini di paragone, se non l’altra epidemia: quella della spagnola, risalente a un secolo fa. Nella clausura di quelle pareti c’è un ecatombe, ma nessuno ne parla: non un’immagine, un articolo, un servizio sui tg. Un oblio generalizzato.

“È questo che è stato il virus – sintetizza Salvatore Veca – : un rilevatore atroce, che ha messo a nudo le nostre strutture sociali come in un gigantesco esperimento. Non c’è dubbio che, in fondo, tutti noi abbiamo provato sulla nostra pelle quello che gli studiosi, a cominciare dallo storico francese Philippe Ariès, chiamano la segregazione della morte. La morte deve essere socialmente nascosta, scomunicata, non deve avvenire allo scoperto dello spazio pubblico.

E’ una storia lunga, propria della nostra tradizione e cultura. Con questa pandemia, però, siamo passati oltre, e questo purtroppo è avvenuto soprattutto per gli anziani e in particolare per chi già viveva in una Rsa, dalla solitudine della morte alla solitudine dei morituri: coloro che si presume siano destinati a concludere le loro vite lo hanno fatto. O, meglio, in molti casi sono stati costretti a farlo, da soli, lontano dallo sguardo degli altri. E’ come se, per le persone socialmente classificate come ‘inutili’, la segregazione fosse stata operata ex ante”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Il professor Trabucchi racconta un dramma che va oltre la statistica dei decessi. Non ha mai smesso di guardare alle persone, alla fragilità della loro psiche. “Ai vecchi è mancata una faccia, una carezza. L’isolamento è stato fatto per il loro bene ma ha aggravato la situazione. L’epidemia ha colto gli anziani in tre luoghi. Anzitutto in casa, rimanendo chiusi dentro per mesi, senza assistenza. I medici di famiglia non erano in grado di aiutarli, perché a loro volta sono stati travolti. Con i pronto soccorso nel caos, poi, non c’è stata possibilità di cura. Il telefono ha permesso di mantenere un rapporto con la famiglia, nei casi più fortunati ci sono figli e nipoti che lasciano la spesa sulla porta. Ma quella porta diventa una barriera angosciante: vivono nella paura e nell’impotenza, con la televisione che trasmette notizie terrificanti. Conosco decine di anziani distrutti psicologicamente dalle immagini dei camion militari di Bergamo che portano via le bare”.

“Chi è stato trasferito negli ospedali è precipitato in una solitudine drammatica – prosegue Trabucchi – Lo hanno portato via da casa infermieri chiusi in scafandri, come fossero marziani. Anche in corsia era impossibile avere un rapporto con il personale, voci e sguardi venivano filtrati dalle mascherine e dalle visiere. C’era solo la trasmissione di ordini: farmaci, iniezioni, ossigeno. Sono entrati in tunnel dove né loro, né i loro parenti potevano rendersi conto di cosa stesse accadendo. Andavano verso la morte senza una mano che li accompagnasse nei momenti finali, senza un sacerdote per confessarsi: completamente soli”.

Ma il capitolo più nero secondo Trabucchi riguarda proprio “quelli che si trovavano nelle case di cura e nelle Rsa: in genere erano i più fragili e con il blocco delle visite sono caduti in una grande sofferenza. In moltissimi casi hanno smesso di mangiare: rifiutavano il cibo e perdevano peso rapidamente. Tra contagi e diserzioni, il personale è diminuito: di fronte alla carenza di infermieri, ho visto direttori passare ore accanto a un letto per imboccare un paziente”.

La fortezza fragile

Dopo la chiusura delle porte, la sorte di un milione di italiani, 280 mila dei quali con gravi patologie e quindi custoditi dalle Rsa, è stata messa nelle mani dei gestori di queste strutture. Un mondo che il Paese non ha mai voluto guardare. Solo chi ha avuto urgenza di trovare sistemazione a un parente si è avventurato in questo labirinto di residenze assistite, case di riposo, comunità, ospizi. C’è di tutto, dalle stelle alle stalle. Spesso l’eccellenza è solo un’apparenza, un paravento che nasconde un pessimo trattamento medico. Ci sono pure situazioni nefaste, vere stamberghe: non è un mercato, ma un bazar dove si trova tutto, dalle topaie alle dimore extralusso. Lo ha radiografato il Nas, che tra la fine del 2019 e i primi due mesi di quest’anno ha setacciato 3.500 centri, più del 30 per cento denunciati.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

La seconda operazione dei carabinieri si è inoltrata nell’epicentro della pandemia, varcando tra marzo e aprile 601 cancelli in tutta la Penisola: 107 non rispettavano le norme per frenare il virus. I rapporti dell’Arma sono un campionario di orrori, reso con burocratica precisione. Nel Trapanese strutture prive di requisiti igienico-sanitari, a Pescara un ospizio senza autorizzazioni e requisiti strutturali minimi, in provincia di Potenza una comunità senza le figure professionali previste dalla legge. A Messina non avevano tenuto conto nemmeno dell’ordinanza che obbligava a trasferire i degenti, nel Cagliaritano usavano acqua non potabile. Quella però è soprattutto la fascia bassa, ci sono tanti centri di qualità. C’è un problema comune: non esiste una regolamentazione, non ci sono standard. Come se fosse un arcipelago, composto da una moltitudine di piccole isole. Che non potevano resistere allo tsunami del Covid 19.

Alla Bocconi c’è un centro studi, il Cergas, con un pool di ricercatori che da alcuni anni si occupa della Long Term Care, termine dal sapore manageriale per descrivere le cure agli anziani. Elisabetta Notarnicola è una giovane professoressa, analizza i dati con rigore statistico ma riesce a leggere cosa si nasconde dietro i numeri: un sistema che manifestava sinistri scricchiolii già prima dell’epidemia. Nel 2015 l’offerta totale delle Rsa era di 270.020 letti, concentrati per due terzi al Nord. Sono divisi in una pletora di strutture d’ogni dimensione. Il dieci per cento ha meno di venti posti, un terzo ne conta fino a 50.

La fascia più diffusa arriva a 100 letti. Solo il 17 per cento li supera. Frammentata pure la gestione. Il 70 per cento è privato: più della metà sono società commerciali; un quarto onlus; il 15 per cento cooperative sociali e enti religiosi; il sei fondazioni con soci fondatori pubblici. Tanti piccoli attori, talvolta minuscoli. I Big sono soltanto 18, quasi tutti al Nord, con 16 mila posti: solo 1500 interamente a pagamento, il resto in convenzione. “Complessivamente prevalgono i servizi accreditati/convenzionati in uno schema di finanziamento pubblico”. Cosa significa? E’ il primo caposaldo, da tenere bene a mente per valutare quanto è accaduto e individuare delle responsabilità, quantomeno politiche: non sono privati che inseguono solo i loro profitti, ma nella stragrande maggioranza fornitori di un servizio pubblico. “Sono i figliastri del welfare”, sottolinea Elisabetta Notarnicola: “quando fa comodo si dice che fanno parte del Servizio sanitario nazionale, altrimenti vengono bollati come privati”.

C’è un secondo luogo comune da smantellare: non si tratta di un buon affare. Un altro ricercatore del Cergas, Andrea Rotolo spiega che “le risorse pubbliche non sono aumentate, anzi sono andate a diminuire. Standard e tariffe pagate dalle Regioni sono ferme e non aggiornate da dieci anni. Nel frattempo le persone che entrano nelle Rsa sono cambiate: sono più vecchie, con problemi clinici più complessi. Questo ha provocato un aumento dei costi per le strutture”. Con che risultato?  Servizi peggiori. Lo sottolinea il dossier presentato dalla Bocconi: “L’effetto combinato dei due fenomeni ha compromesso la sostenibilità economica delle strutture più fragili o meno attrezzate ai cambiamenti. Il settore ha reagito cercando di diminuire il costo del lavoro, attivando modalità a tempo determinato o riducendo dove possibile le ore-operatore con effetti sul burnout degli operatori e sulla loro professionalità (attivando meccanismi di selezione avversa)”.

“Selezione avversa” significa personale meno qualificato e con più ore di lavoro sulle spalle, che si traducono in minore assistenza agli ospiti. “Da molti anni ormai nelle Rsa si affrontano problemi sanitari rilevanti con strumenti minimi, poiché non sono considerati luoghi della cura, ma ‘contenitori’”. Antonio Guaita, ex presidente della Società Italiana Gerontologia e Geriatria, fornisce un termine di paragone deprimente: “Si pensi allo standard di personale di assistenza previsto in Lombardia per l’accreditamento: 901 minuti/settimana per assistito. Per confronto si possono considerare i numeri dei penitenziari in Italia: ci sono circa 60.000 carcerati con 38.000 agenti di custodia.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Calcolando 1.400 ore anno di lavoro a persona, questo corrisponde a 1053 minuti settimanali per detenuto: maggiore di quello che è previsto per le Rsa in Lombardia!”. In pratica, agli anziani bisognosi di terapie complesse viene dedicata meno attenzione che non ai reclusi. Incredibile? No: è il sistema. “Naturalmente nessun gestore di strutture è tanto folle da attenersi solo agli standard minimi – continua il professor Guaita – tutti hanno di più, ma in modo non rimborsato né riconosciuto dalla sanità. Le soluzioni gestionali, oltre a quella di ridurre al minimo possibile il personale qualificato, diventano solo due: sottopagare e aumentare i costi per i residenti e le loro famiglie”.

E già: in tempi di tagli alla sanità e al welfare, far cadere il peso sugli anziani è stato facile. Marco Arlotti e Costanzo Ranci, del Laboratorio di Politica Sociale del Politecnico di Milano, hanno fatto un calcolo choccante: in Lombardia tra il 2009 e il 2016 il personale nelle strutture è diminuito di 20 mila unità, pari al venti per cento in meno. E’ andato via un quinto di medici, infermieri e operatori socio-sanitari, figure fondamentali spesso indicati solo con la sigla oss. A quelli rimasti spesso è stato chiesto di lavorare di più con paghe minori e contratti precari. Con queste premesse era difficile aspettarsi una risposta virtuosa alla catastrofe, ma in certi casi anche la cortesia è diventata una rarità.


Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genereApparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera”. C’è un documento apocrifo che nei giorni dell’epidemia ha tenuto banco sul web: la lettera scritta in punto di morte da un anonimo avvocato, ricoverato per sua volontà in un ospizio, e pubblicata dal sito Interris.it.

“In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi? Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “Sai perché quella quando parla ti urla? Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro? Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta. Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le Rsa, le ‘prigioni’ dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Queste carenze non erano un segreto. Il dossier della Bocconi del 2019 era un campanello d’allarme, che evidenziava “l’urgenza” di un cambiamento. Lo scrivono con un lessico professionale, ma il significato è chiarissimo: serve subito una svolta. “L’enorme portata del problema è offuscata dall’insieme di risposte parziali attivate dai diversi soggetti…  È cruciale che policy maker più avveduti, provider più innovativi, rappresentanti degli anziani (sindacati, associazioni e altri) convergano in modo unitario in uno sforzo che renda comprensibile al Paese l’urgenza di affrontare in modo unitario questo fenomeno”. Sì, il sistema a cui abbiamo affidato i nostri nonni malati era già pieno di crepe, che l’epidemia ha trasformato in falle letali.

C’è un ritardo antichissimo”, dice il professor Bernabei allungando lo sguardo sulle origini del guasto: “Quando nel 1978 è stato creato il Servizio Sanitario Nazionale, viene copiato tutto dalla Gran Bretagna, tranne l’assistenza agli anziani: semplicemente li ignoriamo. Poi con passaggio alle Regioni la situazione si è complicata ancora di più. Non vengono introdotte strutture specifiche, non ci sono standard comuni. E intanto la popolazione è invecchiata. Dagli anni Ottanta con i miti dell’edonismo fino all’entusiasmo per il nuovo millennio, complice la televisione commerciale, abbiamo guardato sempre solo al successo, al fascino della gioventù e del benessere, trascurando che siamo diventati il Paese più vecchio del mondo con il Giappone: oggi un italiano su quattro ha più di 65 anni. Ma si è mai sentita una campagna elettorale che guardi alle esigenze di economia, sanità, tempo libero di questo 25 per cento di cittadini?”.

Bernabei descrive una nazione che non riesce a imparare dai suoi errori. E ci mette davanti una tragedia che tutti hanno rimosso. “Chi ricorda l’estate del 2003? Le ondate di calore hanno ammazzato qualche migliaio di persone, con le identiche caratteristiche delle vittime del virus: tutti anziani con altre patologie. Ma non ci abbiamo fatto caso. Il Covid 19 invece è stato un pugno in faccia. Questi esseri fragili che nessuno teneva in considerazione adesso si scopre che sono l’80 per cento dei morti”.

“Non possiamo ancora individuare dei parametri clinici per valutare cosa è successo”, puntualizza Trabucchi: “In alcune Rsa c’è stato il disastro, in altre l’epidemia non si è diffusa. Conosco strutture inviolate fino al 20-25 aprile che poi sono state decimate in pochi giorni. Di sicuro la crisi ha pesato di più in quelle che erano meno efficienti, anche se gli orrori svelati dal Nas non fanno testo: la qualità soprattutto al Nord è più alta. C’è però un difetto comune: un eccesso di burocrazia che ha fatto perdere di vista i risultati. L’obiettivo è il benessere dell’anziano? E allora bisogna chiedersi se è sporco o pulito, se perde peso, se è depresso, se è morto poco dopo il ricovero senza motivo. Invece ci si preoccupa soltanto di rispettare le procedure, costose e lente, senza attenzione alle persone”.

Una tutela fragile a cui abbiamo affidato le persone più fragili. Che non funzionava già prima dell’epidemia. Con gli esseri umani trattati come pratiche. Ecco la realtà che tutti abbiamo ignorato. Ritratta con drammatica dignità nella lettera apocrifa del ricoverato ai nipoti. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco… l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no. La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego… non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice. Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinché si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi”.

Il drammatico diario dell’epidemia in una Rsa di Brescia, che Ermellina Silvia Zanetti ha affidato a un numero speciale della Rivista di psicogeriatria, narra invece la lotta di chi crede nel suo lavoro: “Ciò che più mi ha colpito entrando nelle strutture è stato il silenzio, amplificato dall’assenza dei suoni della città deserta. Gli ospiti sono quasi tutti nelle loro stanze, molti isolati perché positivi o sintomatici; gli operatori parlano piano e poco: le mascherine rendono difficoltoso parlare e il suono è attutito. Gli spazi comuni e i giardini in piena fioritura sono deserti. Tutti gli spazi dedicati alle attività di gruppo, le sale da pranzo, i luminosi soggiorni perfettamente in ordine sembrano aspettare che un suono qualsiasi li abiti. Silenzio. Sono soli gli ospiti, in particolare coloro che sono isolati, e si sentono soli gli operatori”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Quella solitudine è la premessa alla tragedia: “Dopi i primi giorni di grande operatività per riorganizzare la struttura e l’arrivo dall’esterno di tanti segni di incoraggiamento – come i disegni dei bambini con arcobaleni, fiori e parole di speranza -, adesso si contano i morti. Tanti rispetto agli stessi mesi degli anni precedenti. “Per noi non sono numeri, sono persone di cui conosciamo la vita, gli affetti, i nomi dei loro figli e nipoti”, racconta una coordinatrice piangendo. Gli operatori in silenzio ricompongono le salme dei defunti: un telo intriso di soluzione disinfettante e un sacco di plastica avvolgono le spoglie, come da nuova triste procedura imposta dalla pandemia. Li accompagnano nella cappella o nell’obitorio dove le imprese funebri si occuperanno del resto. Nessun familiare cui esprimere il cordoglio: si va e si torna in silenzio. In un solo turno può capitare più volte”.

Il muro dell’oblio

Anna Maria De Vitis era nata a Lecce, dove tornava ogni estate, anche la scorsa. E’ arrivata a Milano a 18 anni per lavorare con altri dodici fratelli e sorelle: abitavano tutti insieme. E’ stata operaia alla Fiat che poi è diventata Magneti Marelli. Ha lavorato quarant’anni lì, quando aveva il turno di pomeriggio tornava alle 23 e preparava già il pranzo per l’indomani alle figlie Daniela e Cristina: amava fare i pasticciotti con la crema. Aveva solo la quinta elementare, ma come dice la figlia: “Mi ha sempre insegnato a far rispettare i propri diritti”. Anna Maria è entrata al Pio Albergo Trivulzio per una riabilitazione l’11 febbraio: è morta il 22 aprile. Aveva 74 anni.

“La Direzione del Pio Albergo Trivulzio, oltre milletrecento anziani ricoverati, il polo geriatrico più importante d’Italia, per tutto il mese di marzo ha occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, intanto che il morbo contagiava numerosi pazienti e operatori sanitari. Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e paramedici di indossarle”. Comincia così l’articolo scritto da Gad Lerner sulla prima pagina di Repubblica.

Viene pubblicato il 5 aprile: sono passati 45 giorni dal ‘Paziente Uno’ di Codogno e solo in quel momento la questione delle Rsa entra nel dibattito nazionale. Fino ad allora non se n’era parlato: sostanzialmente ignorata nelle conferenze stampa nazionali e regionali, interamente focalizzate sulla battaglia delle terapie intensive. Proprio in quella domenica per la prima volta diminuiscono i ricoveri in rianimazione e l’Italia tira un sospiro di sollievo. Ma si contano già più di 15 mila morti e nessuno si chiede chi siano: l’83 per cento ha più di 70 anni, tantissimi si sono spenti proprio nelle case di cura. Dopo quell’articolo, l’attenzione mediatica si concentra sulle residenze per anziani e si capisce che sono l’epicentro del disastro. I luoghi dove si muore di più, avvolti dall’oscurità. E’ un’omissione che nasce dall’emergenza globale, dalla difficoltà di fronteggiare l’ondata inarrestabile che ha contagiato già più di 100 mila persone.


“Allora vi siete finalmente accorti degli anziani che vivono in Rsa! Era ora! Ho 94 anni e ci vivo da un anno e mezzo e… cosa posso dirvi? Ci sto bene”. Il signor Pietro detta la sua lettera a un infermiera dell’Istituto Vismara-de Petri di San Bassano, un paesino del Cremonese: “Certo avevo una vita mia con mia moglie e una bella casa. Poi è morta e io ho tanti acciacchi e sono cieco e ho scelto di entrare qui. Prima nessuno parlava di noi, ora sono tutti esperti. Solo adesso sento affermare che esistiamo e siamo da proteggere perché più fragili: strano, pensavo che fossimo un peso!”. Una lezione, quella del signor Giuseppe: “Non è semplice aiutare noi vecchi che spesso non capiamo niente, ce la facciamo addosso, siamo lenti, impacciati, incapaci di fare da soli, urliamo e disturbiamo a tutte le ore del giorno e della notte. Per curarci occorre saperlo fare con uno stile che non si impara per corrispondenza o sui libri. Allora basta, per piacere: se volete parlare di noi per aiutarci a vivere sempre meglio… va bene. Se no ridateci il nostro oblio, che sarà poi il vostro… se ci arriverete!”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

L’oblio. Le Rsa sono diventate un mondo a parte. “Per giorni e giorni abbiamo sollecitato tutte le autorità istituzionali e sanitarie che non ci fosse solo l’attenzione rivolta agli ospedali, certamente fondamentali, ma che l’orizzonte venisse allargato anche ai luoghi custodi delle maggiori fragilità, cioè le residenze assistenziali per anziani”. Walter Montini, presidente dell’associazione che riunisce trenta centri della provincia di Cremona con quasi 4 mila degenti, ricorda quel diaframma di negligenza: “Per di più tale atteggiamento di disattenzione veniva motivato dal fatto che le Rsa erano considerate “private”, quasi estranee al sistema sanitario pubblico, come se non fossero parte essenziale della protezione sociale, e non fossero “pubblico” – cioè parte della collettività – le persone deboli che dovevano essere difese dal contagio”. Montini lancia un’accusa precisa: la disattenzione ci ha imposto di lottare a mani nude contro il virus.In molti casi però c’è una scelta deliberata di tacere i numeri, censurando cosa avviene all’interno delle case di cura chiuse a parenti e visitatori. Come accade al Pio Albergo Trivulzio. Un nome che tutti conoscono. Lì il 17 febbraio 1992 è nata Mani Pulite, con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa che incassava mazzette sulle forniture dei vecchietti. Per i milanesi però è rimasta un’istituzione rispettata: il più grande centro geriatrico d’Europa, interamente a gestione pubblica. In una regione dove la sanità privata è diventata protagonista, la Baggina ha conservato la fiducia dei cittadini, benestanti o poveri. Fino al 6 aprile.

Quella mattina Alessandro Azzoni, giovane imprenditore, legge l’inchiesta di Repubblica: sua madre Marisa, 76 anni, è ricoverata da due anni al Trivulzio per alzheimer. Non può vederla ed è sempre più in ansia. “Verso la fine di marzo mi ha chiamato un medico. Mi ha detto che mamma aveva la febbre e la stavano curando con tachipirina e antibiotico. Mi ha chiesto di legarla al letto in modo che non avesse la possibilità, girando per il reparto, di infettare gli altri ospiti. Gli ho domandato se si trattasse di coronavirus: ‘Non posso saperlo, non abbiamo tamponi…’”. La sua angoscia è comune a tanti altri, non si conoscono fra loro e finiscono per incontrarsi sulle pagine del nostro giornale, che ogni giorno pubblica le testimonianze.


Esiste un “Comitato parenti”, ufficializzato dal Trivulzio con un protocollo d’intesa e una sala per riunirsi, dove si discute cercando notizie sui ricoverati. Sanno che tanti soffrono di polmonite, il sintomo principe del Covid, e che chi li assiste non indossa protezione. Ma non vogliono venire allo scoperto. Tutti temono le reazioni del potente direttore Giuseppe Calicchio, detto “Il filosofo” per la sua laurea: un manager molto vicino ai vertici della Lega. Azzoni rompe il muro. Il giorno di Pasquetta apre una pagina Facebook per il “Comitato Verità e giustizia per le vittime del Trivulzio”: cerca familiari disposti a lanciare una class action, mirata anche a chiedere il commissariamento dell’istituto. In poche ore arrivano centinaia di adesioni. Subito si unisce l’ingegnere Gianfranco Privitera, anche lui con la mamma ricoverata alla Baggina e colpita dal Covid: vara una petizione on line che ha raccolto 100 mila firme.

Il 18 aprile Azzoni si presenta nello studio dell’avvocato Santamaria e la class action comincia a prendere forma. Ma l’incubo non finisce. “Arrivano pochi aggiornamenti dall’interno, tutti terrificanti. Mi dicono che tutte le ospiti erano malate e legate a letto, molti infermieri a casa malati. Testuali parole: un vero inferno. In quei giorni ho avuto conferma ufficiosa dal medico che mia mamma aveva contratto il virus, come tutte le altre là dentro. Ho provato anche a sentirla per telefono ma non ha spiccicato parola, era evidentemente molto spaventata”. Il Comitato è diventato un modello, citato persino dalla Bbc: rappresenta oltre 170 famiglie ed è stato imitato dai parenti degli ospiti di altri centri, in tutta la Lombardia e nel resto d’Italia. Una rivolta civica, che ha seguito le vie legali e si è mossa con tutti gli strumenti social per ottenere un cambiamento.
Anche la procura è intervenuta rapidamente. Guardia di Finanza e carabinieri hanno preso tutti i documenti, nel timore che venissero alterati o sottratti. I vertici dell’istituto sono sotto indagine. Gli esposti si sono moltiplicati e i pm hanno ascoltato centinaia di testimonianze. Come quelle di infermieri e medici a cui è stato chiesto di non indossare la mascherina, “perché spaventava gli ospiti”. È nata una commissione d’inchiesta, in cui il sindaco Beppe Sala ha designato Gherardo Colombo: proprio l’ex magistrato che ai tempi di Mani Pulite investigò su Mario Chiesa. Negli atti dell’istruttoria si è accumulato un catalogo degli orrori, che dovranno essere verificati. Ad aprile il complesso settecentesco sembra intriso di morte, con le bare accatastate nella cappella.

“Mia madre è andata al Trivulzio per la riabilitazione di fisioterapia, sarebbe dovuta tornare a casa. Invece l’ho sentita spegnersi giorno dopo giorno”, ricostruisce tra le lacrime la figlia di Anna Maria De Vitis: “Verso la fine di marzo ci siamo preoccupati, perché al telefono si faticava a capirla: dai polmoni usciva poca aria. Il 2 aprile la voce è diventata un sibilo. Lo abbiamo segnalato alla dottoressa. Il 7 aprile mi risponde una vicina di letto: mamma aveva la febbre. La situazione precipita fino al 12 aprile. La chiamo, cerco di interpretare le sue parole: dice che non le arriva l’ossigeno. In sottofondo sento l’altra paziente che urla: ‘Correte, non ha l’ossigeno!’. Devo telefonare all’infermiera perché glielo diano. A Pasqua ha ancora la febbre alta.

Allora chiedo in via legale di portarla in ospedale. Cosa che viene fatta e solo al San Giuseppe riceve il tampone. Dal 19 è entrata in coma e il 22 aprile è morta”.  Daniela Santi non si perdona: “Mi immagino il suo stato d’animo, la solitudine che può aver provato. Ho peccato di ingenuità: pensavo che stando all’interno di una struttura fosse tutelata. Se fosse stata trasferita prima al pronto soccorso, magari avrebbe avuto qualche chance: ci sono persone che ce l’hanno fatta”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Per la giunta lombarda difendere il Trivulzio diventa fondamentale. Schierano un penalista esperto, Vinicio Nardo, e un epidemiologo di fama, Fabrizio Pregliasco. Entrambi parlano di decisioni prese in base alle indicazioni delle autorità sanitarie, di piani per la prevenzione del rischio adeguati, del “corretto e oculato” uso dei dispositivi di protezione individuale “nelle settimane in cui erano introvabili sul mercato, ottemperando alle indicazioni sulle modalità di uso contingentato fino al 23 marzo”.

Le denunce raccontano una storia diversa: maschere e occhiali, anche portati da casa, sono stati espressamente vietati con “minacce di provvedimenti disciplinari a chi indossava le proprie”. I rappresentanti dell’Istituto invece fanno leva sulla crisi generale, che rendeva impossibile reperire scorte: “C’erano altre priorità e il Pio Albergo è stato tagliato fuori. Alcune forniture sono state perfino dirottate”. Ma “nessuno ha mai messo per iscritto che non si dovessero usare per non diffondere panico”, sottolinea l’avvocato. Nardo e Pregliasco sono uniti nel ribadire che “tutto ciò che era possibile per salvare vite è stato fatto. Ma è stato uno tsunami…”.

Da sinistra Giuseppe Calicchio, direttore del Pio Albergo Trivulzio. Luigi Degani, presidente Uneba. Fabrizio Pregliasco, epidemiologo. Luigi Bergamaschini, geriatra

“Questa visione dell’inevitabilità, dello tsunami ci sembra assolutoria. E si trascura il presente: la situazione è ancora nell’emergenza”, replica Azzoni. Il Comitato disegna una mappa del Trivulzio che sembra uscita da un film horror: intere aree sono zone rosse, dove dilaga il virus. “Lì dentro dovrebbero garantire le migliori cure per pazienti che ora sono contagiati, ma il personale è stato decimato dal morbo e non ci sono equipaggiamenti per fronteggiare una situazione così grave. Si muore ancora”. Finora non si è nemmeno riusciti ad avere certezza sulla contabilità della strage, confusa tra decessi nella struttura e negli ospedali. L’hanno chiesta a Pregliasco, nell’unico incontro, e continuano ad aspettare risposte. Quel giorno, mentre per la prima volta i vertici del Trivulzio accettano il confronto con i familiari, il professore Luigi Bergamaschini finisce in terapia intensiva. Era stato sospeso per avere contestato il lassismo dei vertici, poi aveva ottenuto il reintegro ed era tornato accanto ai suoi pazienti, senza risparmiare energie, fino a cadere nella morsa del Covid.


Sul Trivulzio ci sono già alcuni punti fermi. Provengono dal rapporto iniziale degli ispettori mandati dal ministero della Salute a fare luce sul caso dopo l’inchiesta di Repubblica. L’istruttoria non è conclusa, ma in quel dossier si evidenzia come le falle nella gestione siano chiare: «Non si può sottacere una certa inerzia sia dei vertici dell’Agenzia di tutela della salute sia del Pio Albergo Trivulzio che, pur consapevoli della fragilità dei pazienti e della necessità di proteggere loro e gli operatori sanitari, si sono attivati con considerevole ritardo».

In ritardo rispetto ai precetti del ministero che impongono le massime precauzioni per i pazienti più deboli di tutti e raccomandano “che il personale sanitario indossi mascherina di tipo FFp2, camice impermeabile, guanti, protezione facciale”. In ritardo soprattutto rispetto al virus: perché “le attività ambulatoriali e i ricoveri sono stati sospesi solo il 13 marzo”. Tre settimane dopo il ‘Paziente Zero’ di Codogno. Gli ispettori sono convinti che la difesa del Trivulzio sia piena di contraddizioni. E citano la questione delle mascherine. I vertici della Baggina sostengono “aver dato le prime indicazioni già nei giorni successivi al 23 febbraio, messo a disposizione del personale mascherine FFp2 e FFp3”. Una reazione tempestiva? Peccato che le mascherine risultino distribuite solo dopo l’approvvigionamento da parte della Protezione civile. Accade il 24 marzo. Un mese di vuoto in cui il morbo ha continuato a diffondersi stanza per stanza.

I peccati capitali

Silvana è arrivata a Limbiate in Brianza nel 1958 da Monselice, vicino a Vo’. A casa parlava sempre in dialetto veneto. Il marito Ildebrando si era trasferito prima per lavorare all’Alfa Romeo, poi la moglie lo aveva seguito. Silvana si occupava dei 4 figli, ma faceva di tutto per arrotondare e a 55 anni si era rimessa a studiare per prendere la terza media: ogni mattina leggeva il giornale. Era chiacchierona, sempre con le amiche, cercava di aiutare tutti. Il marito è morto nel 2006 e non si è più ripresa. La demenza senile ha imposto il ricovero, ma le è mancato cucinare. Si è spenta a 81 anni il 25 aprile nella Rsa di Paderno Dugnano. 

Ci sono cardini di questa tragedia che non possono essere dimenticati. Scelte dettate dall’urgenza, quando sembrava che il virus fosse a un passo dal travolgere tutto. In Lombardia la prima settimana di marzo è stata apocalittica: nei pronto soccorso continuavano ad arrivare persone che non riuscivano più a respirare. Nella notte di sabato7 marzo il premier Conte annuncia il lockdowndell’intera regione: dieci milioni di persone si ritrovano chiuse nella zona rossa. La giunta presieduta da Attilio Fontana non sa come fronteggiare l’emergenza, teme che il sistema sanitario non regga. Così in una riunione domenicale decide di fare posto negli ospedali. Come? Trasferendo i pazienti meno gravi, positivi e non, nelle Rsa. La deliberazione approvata all’unanimità passa inosservata, ma è un verdetto drammatico. “Aver mandato i malati di coronavirus proprio lì, poi, dove la fragilità era più esposta, è stato un killeraggio silenzioso, un crimine annunciato”, commenta il filosofo Salvatore Veca: “Vuol dire aver condannato una generazione di madri, padri, nonne e nonni, non solo al confino ma anche alla fucilazione di massa”.

Made with Flourish

“L’assessore lombardo alla Sanità in tv ha spiegato che i malati anziani sono stati trasferiti perché bisognava liberare posti e trovare dove “metterli”. Ma nessuno si è scandalizzato”. Antonio Guaita, un geriatra con quarant’anni di esperienza e di passione, ancora non riesce a credere alle parole di Giulio Gallera: “Questa dichiarazione è la sintesi di tutti i mali di cui hanno sofferto e continuano a soffrire le Rsa: essere considerate dei “contenitori” dove “mettere” gli anziani. Quello che è successo in tutte le Rsa del mondo, ma in Lombardia in modo estremo, ha reso trasparente il primo dei molti peccati – originali, veniali e ahimè mortali – delle amministrazioni tecnico politiche che in questi anni hanno ignorato quasi ovunque la contraddizione che sempre più si creava fra la loro visione contenitivo-assistenziale e i bisogni complessi di chi entrava nelle Rsa”.

I tecnici della Regione fanno un ragionamento pratico: abbiamo un eccesso dei malati, che non sono in condizioni serie ma necessitano comunque di controllo clinico. Sulla carta, le Rsa dispongono di medici e infermieri, quindi se ne possono occupare. Pratico ma spietato. Perché è stato folle mandarli accanto alle persone più esposte, quelle che si è sempre saputo essere i bersagli favoriti del Covid. “E’ come portare il fuoco in un pagliaio: una volta che il virus entra nelle case di riposo, gli anziani muoiono come mosche”, sostiene Luca Degani, presidente lombardo dell’Uneba che raccoglie 400 centri di assistenza.

Degani si è opposto alla Regione, come tantissimi altri, e non ha aperto le porte. Ha fatto di più: è stato tra i primi a denunciare quel provvedimento scellerato: «Dipendiamo per un buon 30 per cento dai finanziamenti della Regione, logico che molti abbiano paura di perderli. Non parlano e io li capisco. Ma noi, che facciamo parte del terzo settore e siamo no profit, certe cose dobbiamo dirle: i nostri ospiti hanno una media di 80 anni, sono persone con pluripatologie. Come potevamo attrezzarci per prendere in carico malati spostati dagli altri ospedali? Ci chiedevano di prendere pazienti Covid e altri ai quali non era stato fatto alcun tampone”.

Almeno quindici strutture rispondono all’appello della giunta Fontana. Alcune, le più grandi, attrezzano padiglioni separati. Ma gli infermieri che si occupano dei nuovi degenti spesso sono gli stessi che accudiscono i nonni. E diversi dei pazienti trasferiti senza tampone vengono da ospedali dove il morbo imperversa: dopo poco si rivelano positivi. Nessuno è in grado di stimare l’effetto complessivo del trasloco. La gestione dell’operazione è affidata ai vertici del Pio Albergo Trivulzio, registi dello smistamento nell’intera Lombardia. Di sicuro, in alcune Rsa l’epidemia scoppia dopo avere accolto i nuovi arrivati: anche alla Baggina, stando alle denunce dei familiari.

L’emergenza domina sovrana. Tutto accade di fretta, senza verifiche. La Regione offre 150 euro al giorno più gli extra per ogni paziente accolto. Ci sono le condizioni per isolarli? Basta l’autocertificazione: “Hanno dovuto compilare una check list che noi abbiamo predisposto fin dai primi giorni dell’epidemia. Sulla base delle loro risposte, abbiamo richiesto documenti a conferma”, riconosce il direttore dell’Ats di Milano Walter Bergamaschi. Un travaso di malati fuori controllo.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Lucio Viola continua a chiedersi se non è stata proprio quella delibera a condannare a morte la madre Silvana. “Abbiamo saputo che da una relazione mandata dalla Rsa al sindaco che hanno ricevuto dodici pazienti provenienti dagli ospedali. All’atto della dimissione hanno assicurato che erano negativi e sono stati accolti senza isolamento: conosco la struttura e non c’era nessuna possibilità di farlo. Dopo poco, quattro di questi sono risultati positivi e cinque sono deceduti prima che si potesse sottoporli al test. Non sappiamo chi abbia introdotto il virus visto che l’8 marzo era tutto ok e poi hanno chiuso le porte. Può essere stato un dipendente ma molto più probabilmente è stato uno di quei dodici”.

Eppure la Regione Lombardia aveva un’alternativa. Quando ha scelto di spedire i malati nelle Rsa non ha fatto il minimo sforzo per individuare altre soluzioni. Che esistevano. Un esempio? Le caserme. Per volontà del ministro Lorenzo Guerini, lodigiano e presente nella sua terra sin dall’inizio della crisi, la Difesa ha messo a disposizione quasi quattrocento posti letto. Nell’ospedale dell’esercito di Baggio, nelle palazzine dell’Aeronautica di Linate e in un complesso di alloggi alle porte di Lodi. Sono stati ripuliti e attrezzati, con infermieri militari per le cure e apparecchiature di monitoraggio: potevano farsi carico di pazienti Covid non gravi, proprio quelli che invece sono finiti tra i nonni. Quell’offerta è stata sfruttata solo in parte: all’apice della tempesta, circa 80 ricoverati.

Il 23 aprile, quando la giunta Fontana paventa una seconda ondata di smistamenti nelle Rsa, in queste caserme solo trenta letti sono occupati. Ma nessuno le prende in considerazione. E intanto si continua a morire. “Per tutto marzo non sono più riuscito a parlare con mia madre – prosegue Luca Viola – Poi è intervenuto il sindaco di Paderno Dugnano, che ha preteso informazioni dalla direzione della Rsa: grazie a lui intorno al 7 aprile abbiamo scoperto che era arrivato il contagio. C’erano almeno dodici positivi, ma sembrava che lei stesse bene: ci dicevano di stare tranquilli. E’ stato sempre il sindaco a trovare i tamponi, li ha consegnati il 16 aprile. E dopo tre giorni mi dicono che mamma è positiva e ha la febbre alta. Siamo molto preoccupati, li chiamiamo più volte ma non rispondono. Solo il 23 gli parliamo: ci spiegano che non ha più ossigenazione corretta, che aveva problemi al cuore e che siccome soffriva molto l’hanno sedata con la morfina. È chiaro che quando ti dicono così non hai speranza di salvarti. Il 25 aprile telefono di nuovo: ‘Ci dispiace ma le comunico il decesso, l’avrei chiamata tra cinque minuti…’”.

Nelle stesse ore in una Rsa di Brescia si ricorda la Liberazione. Lo racconta Ermellina Silvia Zanetti: “Alcuni ospiti scampati al contagio e riuniti, nel rispetto della distanza fisica, nel soggiorno di un nucleo “no Covid” indossando la mascherina, hanno ripercorso gli eventi tragici che hanno preceduto la Liberazione. Una signora con l’esperienza dei suoi 100 anni ha paragonato il nemico da combattere di allora con il coronavirus, affermando che “il virus è più pericoloso perché invisibile e subdolo”. E aveva perfettamente ragione”.

Contro questo nemico potente il personale delle Rsa lombarde ha lottato da solo. Dall’esterno non sono arrivati aiuti. Niente mascherine, niente tute, niente tamponi. Per lunghe settimane devono arrangiarsi. Non ci sono neppure informazioni su cosa fare. Elisabetta Notarnicola del Cergas-Bocconi: “Si sono organizzati, hanno fatto rete tra loro con le chat. All’inizio hanno diffuso il protocollo dell’ospedale di Bergamo e lo hanno adattato agli anziani. Poi alcune associazioni hanno elaborato delle linee guida”. Sono casi virtuosi, più frequenti di quanto si immagini. A marzo le Asl latitano. Non fanno nulla, non dicono nulla. E ad aumentare il senso di abbandono c’è una certezza: non si può contare sui pronto soccorso.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

“Gli ospiti contagiati sono stati assistiti all’interno delle strutture, non vi era alcuna possibilità di invio in ospedale – ricorda Ermellina Silvia Zanetti – Una ennesima ingiustizia, una disparità di trattamento nei confronti degli anziani che ha trovato un po’ di conforto nella possibilità, per gli operatori delle strutture, di accompagnare gli ospiti fino all’ultimo respiro. Non sappiamo se sia stato di conforto anche per i degenti, ma certamente sappiamo che chi li ha assistiti li ha chiamati per nome sino alla fine”.

Anche in questo caso, la Lombardia è stata burocraticamente spietata: ha messo nero su bianco in una delibera formale un “suggerimento”, letto come una regola ferrea. Chi ha più di 75 anni e ha altre patologie, è meglio che eviti il pronto soccorso. In pratica, è avvenuto in tutto il Nord dall’inizio della crisi. Non c’era spazio nelle terapie intensive e i medici dovevano scegliere. L’associazione degli anestesisti e rianimatori Siarti ha scritto un protocollo per sostenere chi si è trovato davanti al dilemma: “Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata. È ipotizzabile che un decorso relativamente breve in persone sane diventi potenzialmente più lungo e quindi più resource consuming sul servizio sanitario nel caso di pazienti anziani, fragili o con comorbidità severa”. Anziani, fragili o con comorbidità severa: in pratica, tutti gli ospiti delle Rsa. Sono stati rifiutati, spesso neppure raccolti dalle ambulanze.

Questo è accaduto nei giorni neri, in quelle settimane di marzo quando ogni respiratore era prezioso e le valutazioni necessariamente draconiane. La “raccomandazione” votata all’unanimità dalla Giunta lombarda che ha condannato tanti nonni invece è del 30 marzo. In quella data l’epidemia frena per la prima volta: il lockdown comincia ad avere effetto, i contagi sono dimezzati. E per il primo aprile viene annunciata l’inaugurazione del nuovo ospedale della Fiera di Milano “l’impresa record, realizzata in soli 14 giorni”. E’ lo spot della Regione Lombardia, che vi ha concentrato tutte le risorse: resterà una cattedrale vuota, con al massimo venti letti occupati. Davanti alle telecamere vengono presentati 250 posti di terapia intensiva, ma contemporaneamente si decreta che per i vecchi non c’è speranza.

Per molti familiari i letti vuoti della Fiera sono diventati il simbolo di una crudele inefficienza: “Mia madre, Paola Sassi viveva nella Rsa Anni Azzurri di Parco Sempione (gestita dal gruppo Kos, controllato dalla famiglia De Benedetti, ndr): soffriva di demenza senile e problemi al cuore. Dal 2 marzo hanno bloccato le visite, ma potevo chiamarla due volte al giorno. Fino al 13 aprile stava benissimo, mangiava la colomba e scherzava. Il giorno dopo non me la passano: ‘Ha un po’ di febbre’. Solo allora mi dicono che l’hanno legata al letto giorno e notte, perché ‘rischiava di alzarsi e cadere’. E solo allora rivelano che ci sono quattro casi di Covid sullo stesso piano. Ma il personale che li assisteva era lo stesso ed era rimasto senza maschera né guanti per tutto marzo. Poi Paola è peggiorata. L’ospedale della Fiera si trova a pochi chilometri, ci volevano cinque minuti per raggiungerlo. Gli ho chiesto: perché non l’avete portata lì? Mi hanno risposto che ‘non li prendevano perché non erano abbastanza gravi’. Il 18 aprile è morta, tutti gli altri ammalati sono morti rimanendo lì dentro”.

Enea calpesta Anchise

Paola Bollani, è nata a Bordeaux, dove il padre cuoco cerca e non trova fortuna. A 12 anni va a Monza e inizia a fare i lavori nelle case ricche. Alta, lunghi capelli rossi, a 21 anni uscendo da una di queste case viene notata da Renzo Sassi, il suo futuro marito, che ha una bancarella di libri usati a Milano. Dopo la nascita della figlia, si vota alla famiglia e per il quartiere diventa “la signora Sassi”: informata su tutto e tutti, sempre pronta alla battuta in milanese e a fare un regalino ai bimbi del palazzo. Renzo muore nel 2003, Paolina inizia a spegnersi e coccola il suo Milù, un gattone soriano. Nel 2018 la diagnosi di demenza senile e il ricovero nella Rsa “Anni Azzurri Sempione” di Milano. E’ morta il 18 aprile per “complicazioni respiratorie”: aveva 84 anni.

C’è un’altra decisione, questa volta nazionale, che si è trasformata in una condanna per il popolo delle Rsa. Governo e Regioni d’intesa varano un piano per rinforzare i ranghi degli ospedali, dove molti operatori sono caduti vittime del virus: una pioggia di assunzioni lampo nella sanità pubblica, medici e infermieri da mandare di corsa in trincea. Una misura sacrosanta. Ma indovinate da dove vengono le reclute per la prima linea dell’emergenza? Ovviamente, dalle case di cura per la terza età. Ovunque e soprattutto in Lombardia, quei bandi sono un’occasione unica per fuggire dalla precarietà e trovare un posto fisso: parecchi si lasciano tentare e mollano le residenze private. Non era difficile prevederlo. Nessuno però ferma il travaso, tanto i vecchietti non si lamentano e dalla clausura obbligata non arrivano proteste.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

L’effetto è devastante. Un colpo di grazia. Il personale è già decimato dai contagi: dei 39 infermieri morti nei primi due mesi, un terzo lavorava proprio nelle Rsa. Altri non hanno retto allo stress e alla paura, temendo anche di trasmettere la malattia ai familiari, e si sono licenziati. Lo denuncia un documento scritto il 20 aprile dai presidenti delle sette associazioni lombarde che radunano gran parte dei centri privati della regione: “Il numero di assenti è ormai insostenibile. Tutte le strutture sociosanitarie sono in gravissima difficoltà. La proporzione di operatori in servizio, nelle sole Rsa, è ridotta al 40-50 per cento: complessivamente, si tratta di 25-30 mila operatori oggi assenti nella sola rete per anziani e persone con disabilità. La tendenza è verso un ulteriore peggioramento, date le restrizioni all’impegno lavorativo dei casi sospetti e anche le difficoltà a far rientrare operatori in malattia o quarantena. Ciò implica che, al di là delle esigenze collegate al coronavirus, la qualità e quantità di assistenza che può essere garantita ai residenti è ormai critica”. Questo appello non ha trovato risposta. Eppure era sottoscritto da sette sigle – Agespi, Anaste, Aris, Arlea, Aris, Anffas, Aci Welfare, Uneba – che avevano in cura migliaia e migliaia di anziani, tutti già sofferenti per altri problemi.

“Bisognava impedire che il personale nelle Rsa passasse negli ospedali pubblici, andava vietato! – tuona il professor Trabucchi -. È stata una decisione gravissima: togliere un infermiere esperto significa mettere in crisi una struttura piccola. Non c’era chi puliva, chi curava. Se pensiamo all’immagine di Enea che porta sulle spalle Anchise, allora è stato come vedere Enea non solo scaricare Anchise ma persino calpestarlo per mettersi in salvo. Chi è rimasto accanto a quei malati? Ci rendiamo conto che quelli tra loro sopravvissuti al Covid hanno subìto un danno biologico come se avessero perso dieci anni di vita?”.


“Non ci sono solo la febbre o l’insufficienza respiratoria, che gestiamo con i farmaci e con l’ossigenoterapia. Quando passa la fase acuta, restano la debolezza e l’inappetenza… altrettanto pericolose per un organismo anziano e malato”, scrivono in una lettera i medici della Fondazione Castellini di Melegnano, un’oasi di verde subito fuori Milano. Hanno affrontato giorni terribili: metà dei 352 ospiti è stata colpita dal virus, ben 62 sono morti. Accusano le istituzioni di non avere fatto nulla, abbandonandoli di fronte alla bufera. E ora si prodigano per tenere in vita i superstiti: “Perché non vengono a vedere come ci inventiamo strategie per far mangiare i nostri pazienti? Perché non vengono a vedere come li imbocchiamo? Abbiamo acquistato i gelati, un alimento completo, fresco e dolce, come aggiunta al pasto o come sostituto per chi proprio non accetta altro. Non sappiamo più come coccolarli, i nostri anziani”.

Come abbiamo visto, già prima del Covid per rientrare nei costi nelle strutture lombarde erano stati tagliati ventimila lavoratori. Poi ci sono stati i contagiati e le fughe verso gli ospedali. Nell’ora più buia, chi aveva il massimo bisogno si è ritrovato ancora più solo. Il geriatra Guaita pone un dubbio fondatissimo: “Non possiamo non chiederci: quanti morti in meno ci sarebbero se medici e infermieri e operatori oss fossero stati presenti in numero adeguato?”.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Ma per quasi due mesi la Lombardia ha avuto un’unica priorità: sostenere gli ospedali, destinare ogni risorsa alle terapie intensive. Per i vecchi zero: niente mascherine, niente tamponi, niente rinforzi. Una strategia pericolosa, come hanno messo nero su bianco gli ispettori mandati dal ministero della Salute a metà aprile per fare luce sui misteri del Pio Albergo Trivulzio. Nella relazione preliminare si sono focalizzati sul “doppio binario” della giunta Fontana che sin dall’inizio ha privilegiato gli ospedali a scapito delle residenze per anziani. E lo ha fatto disobbedendo alle direttive del governo. “Le azioni di contenimento indicate dal ministero della Salute non sono state applicate in maniera tempestiva e hanno seguito un doppio binario a due velocità”. Rapidissimi nel potenziare i reparti di rianimazione, di mortale lentezza nell’occuparsi dei nonni. Nelle Rsa “non sembra si sia creato un raccordo rapido e il massimo sforzo che sarebbe dovuto avvenire anche per le caratteristiche di fragilità dei pazienti ricoverati”. Laddove proprio la realtà della Lombardia — sottolineano — con una presenza di moltissime case di cura per la terza età avrebbe imposto una reazione immediata. Non siamo in grado di valutare quanto “il doppio binario” abbia pesato sulla contabilità della strage. Se proiettiamo sui dati regionali le medie nazionali, allora dobbiamo ipotizzare che in tre mesi siano morti 13.260 cittadini lombardi con più di 70 anni, oltre metà nelle Rsa. Chi potrà dimenticarli?

I sommersi e i salvati

Vita era nata a Catenanuova in provincia di Enna, seconda di otto figli. E’ arrivata a Vercelli nel 1968 con il marito Gioacchino, che aveva trovato lavoro alla Montefibra, e i due bambini. Cucinava arancini e aveva l’orto dove allevava galline e conigli. Casalinga, amava fare le pulizie e obbligava tutti a mettere le pattine. Ha fatto da madre anche al nipote Gabriele, che ora è manager in un ristorante del centro di Londra. Non è mai andata in vacanza. Soffriva di Alzheimer e da tre anni viveva nella casa di riposo di Vercelli: è morta il 4 aprile a 81 anni. 

Non c’è solo la Lombardia. Sappiamo che nelle Rsa di tutta Italia c’è stato un massacro, ma non conosciamo neanche i numeri. Ci siamo preoccupati talmente poco della sorte di questa generazione da non avere neppure tenuto un conto delle vittime. L’Istituto superiore di sanità ha lanciato finora un unico censimento nazionale, chiuso il 14 aprile. Quel primo calcolo era molto parziale, sufficiente però a definire l’urgenza di correre ai ripari. All’interno delle residenze 2.724 morti erano imputabili al Covid 19: a livello nazionale, l’epidemia aveva provocato il 40 per cento di tutti i decessi registrati lì dentro tra inizio febbraio e metà aprile. La media però al Nord si fa più cruda: nella provincia di Trento supera il 78 per cento, in Emilia Romagna il 57 per cento, Lombardia il 53. Sono dati al ribasso, perché la stima è stata costruita sulle risposta fornite da un terzo delle strutture.

Il vero dilemma è comprendere il resto della storia. Dal 14 aprile il ritmo dei contagi comincia a calare ovunque, anche se più lentamente in Lombardia. E pure in questo caso c’è un’unica certezza: nel chiuso delle Rsa il killer invisibile prosegue indisturbato il suo cammino. Ed è a quel punto che la marcia della pandemia si divide lungo strade diverse. Molte amministrazioni si mobilitano, cercando di affrontare la situazione e inventare soluzioni. Altre restano paralizzate, come incapaci di reagire.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

L’Emilia Romagna a marzo ha subìto un attacco forse superiore a quello lombardo. La casa di riposo Sant’Anna e Santa Caterina, a Bologna, è stata la prima a essere travolta. “Abbiamo avuto 22 morti su 250 ospiti”, dice il presidente Gianluigi Pirazzoli. Anche qui sono entrati i Nas, i lavoratori hanno denunciato errori, i familiari delle vittime hanno presentato esposti. “Il focolaio è scoppiato per un’operatrice contagiata. Quando muoiono ventidue persone non si può dire che è andata bene. Si poteva fare di più? Se tornassi indietro, forse sì. Capisco umanamente la rabbia dei parenti. Ma abbiamo fatto di tutto. Ha funzionato il collegamento con Comune e Ausl, non quello con la Regione: già il 10 marzo gli avevamo scritto, con altri colleghi, per avvertire della scarsità di mascherine e presidi di sicurezza e per le difficoltà sul personale. Non siamo ospedali: l’errore è stato quello di pensare che noi potessimo occuparci di casi così complessi”.

In Emilia già il 2 aprile Sergio Venturi, commissario per l’emergenza designato dalla giunta regionale, promette la svolta: «Stiamo entrando con forza nelle case protette per ristabilire le condizioni di sicurezza». Ci sono 1.428 centri da difendere con 36 mila ospiti. Il bilancio è crudele: fino all’11 maggio, i morti accertati in queste corsie sono stati 1.135. Nell’8 per cento delle strutture il morbo è penetrato in maniera micidiale: 4.300 i contagiati, uno su quattro non ce l’ha fatta. “L’impatto iniziale è stato devastante per tutti. Ma quando abbiamo avuto i focolai siamo intervenuti prepotentemente”, replica Raffaele Donini, assessore regionale alla Sanità: “Abbiamo coinvolto le task force dell’Ausl e le “Usca” (le unità speciali di assistenza, ndr). Abbiamo avviato le procedure di isolamento per i pazienti Covid, fatto il tampone a tutti. Quando non era possibile isolarli, li abbiamo ricoverati negli ospedali o li abbiamo portati altrove. E abbiamo consentito l’acquisizione di personale con regole meno rigide per colmare i vuoti”.

L’assessore alla sanità Raffaele Donini in conferenza stampa sul Coronavirus in Regione

E’ la risposta più ovvia. Mobilitare una rete diffusa sul territorio, quella delle Usca, più vicina ai luoghi dell’emergenza: mandare medici e infermieri dove servono. Moltiplicare i tamponi per individuare le zone di crisi e poi isolare i contagiati. Quindi usare gli ospedali, che nel corso di aprile cominciavano ad avere più posti liberi, per soccorrere i casi gravi. “Non posso negare che la reazione in Emilia Romagna è stata buona – riconosce Marco Bonaccini del sindacato Fp-Cgil – Ma le case per anziani hanno pagato, fino a metà marzo, un prezzo molto elevato per la mancanza di dispositivi di protezione. Penso che nella primissima fase, operatori inconsapevoli siano stati mandati allo sbaraglio senza mascherine”. Per Davide Battini, dell’altra rappresentanza Fp-Cisl, “ci sono strutture che sono passate indenni e altre che hanno pagato un conto pesantissimo. Il sistema non ha funzionato come dovuto, non c’erano né competenze, né assistenza adeguata. Bisognava spostare subito gli ospiti negli ospedali, non bastava isolarli in aree diverse della stessa residenza”.

Da Codogno e da Lodi lo tsunami si riversato verso sud lungo la via Emilia. Un’onda inarrestabile. Ma ci sono isole felici che sono riuscite a resistere, anche dove la piena pareva invincibile. A metà marzo i contagi sono divampati nel comune di Medicina, alle porte di Bologna: è diventato zona rossa, con le strade sbarrate dalla polizia. Il residence San Rocco si è salvato: 24 ultraottantenni e dieci operatori si sono asserragliati nel parchetto. “Dai primi di marzo ci siamo blindati: niente visite e nessun accesso, ad esclusione del personale. A cui, all’epoca e anche oggi, abbiamo chiesto di fare massima attenzione anche fuori dal lavoro. Quando all’inizio c’era carenza di protezioni, la regola era di riusare camici e mascherine, ma solo dopo averli disinfettati e sanificati scrupolosamente”.

Il direttore Carmine Naturale riconosce “una buona dose di fortuna, indispensabile quando si combatte un male di cui si sa poco”. I momenti di tensione non sono mancati. Come si fa a distinguere i sintomi del Covid da quelli dell’influenza di stagione? Ogni sospetto alimentava la paura, soprattutto quando un paziente è stato ricoverato in ospedale e poi è tornato nel residence con la febbre alta. I tamponi però, in questo e in altri casi, ha escluso il contagio. Anche se in zona rossa, non si è interrotto il rapporto con la rete della sanità regionale: al San Rocco dicono di non essere mai stati abbandonati. E mantengono alta la guardia: “Proprio ora che tutto si sta rimettendo in moto, i rischi sono ancora maggiori”.

Il Covid è un incursore infaticabile, maestro negli assedi. Non si ferma davanti ai muri, trova sempre una breccia. Ricordate la Rsa di Piacenza che per prima in Italia ha chiuso le porte? Dopo tre settimane esatte sono comparsi i sintomi, a fine marzo le morti erano già quindici, con un quarto dei 193 superstiti contagiati. Il Vittorio Emanuele è un’istituzione cittadina e inevitabilmente si è subito discusso sulla situazione, con accuse e repliche sul comportamento dei gestori, l’intervento di procura e Nas. La polemica però si è trasformata in dibattito: ha spinto le autorità a cercare soluzioni e stretto la comunità intorno ai suoi anziani, con donazioni di tablet per tenere i contatti con le famiglie e altre iniziative che non potevano sconfiggere il virus, ma di sicuro alleviare la solitudine.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Non c’è angolo d’Italia dove il morbo non abbia raggiunto i suoi bersagli favoriti. Nelle Marche marzo è stato micidiale, con un centinaio di morti: non si riusciva a stroncare la diffusione tra le case per anziani e sono arrivate persino le squadre di Medici Senza Frontiere, abituati a combattere Ebola in Africa. Da metà aprile la lotta ha cominciato a dare risultati. In Veneto al 15 aprile c’erano 391 vittime e 1993 positivi. L’assessore alla Sanità sostiene che nelle Rsa venete il tasso di mortalità è metà della media nazionale: la migliore disponibilità di tamponi ha permesso di disporre l’isolamento dentro le Rsa, che qui sono soprattutto pubbliche. Angosciante però il caso della Scarmignan di Merlara (Rovigo): 28 decessi in dieci giorni, con metà dei superstiti e del personale colpiti dal male. Per fronteggiare la crisi in quelle corsie sono arrivati pure i militari.

Nel Lazio un focolaio sorprendente è scoppiato a quindici chilometri dalla capitale, a Rocca di Papa nel verde dei Castelli Romani: nel San Raffaele ci sono stati almeno otto morti accertati e oltre 125 positivi, inclusi 24 operatori. Due ispezioni della Asl descrivono l’assenza di precauzioni: piani tenuti vuoti e altri dove i pazienti stanno accanto ai contagiati, con gli stessi infermieri per tutti. Sorprende perché appartiene alla Tosinvest, la finanziaria della famiglia Angelucci con a capo Antonio, editore e deputato di Forza Italia, il più ricco del Parlamento nel 2016: anche il direttore è stato sospeso, perché privo dei titoli. Tosinvest respinge le accuse e attacca: la giunta guidata da Nicola Zingaretti cerca di strumentalizzare l’emergenza in chiave politica.

La Toscana è l’altra regione “rossa” che si trova a fare i conti con l’onda. L’affronta con premesse diverse, perché ha numeri di ospiti nelle residenze sanitarie di gran lunga inferiori al Nord, e con una ferocia differente rispetto alla Lombardia. Tra i 16 mila degenti delle 322 strutture censite, a metà maggio si piangono 321 morti certificate come vittime del Covid. Gli anziani positivi sono 1.114, ossia quasi il 7 per cento del totale, e 288 casi si contano tra i lavoratori. Proprio nel Valdarno aretino, la terra delle dolci colline verdi in apparenza ideale per una vecchiaia serena, l’emergenza si è fatta acuta in due strutture. La “Fabbri Bicoli” di Bucine – 12 morti su 80 ospiti – e soprattutto la Asp di Montevarchi, ben 18 decessi su 65 anziani.

Da sinistra Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana. Luigi Icardi, assessore alla Sanità della Regione Piemonte. Alberto Cirio, presidente della Regione Piemonte. Ferruccio Fazio, ex ministro della Salute

Dopo le proteste dei parenti, è stata la sindaca di Montevarchi Silvia Chiassai a prendere in mano la situazione e rivolgersi ai magistrati: “Bisogna accertare le responsabilità, per un senso di giustizia nei confronti delle vittime e dei loro familiari. Mi auguro che si vada avanti in tempi celeri”. La Rsa è comunale e dal 2016 viene gestita da una cooperativa. Il primo caso di positività risale al 29 marzo e riguarda uno degli infermieri: due settimane dopo il primo decesso.

“Sapevo che strutture di quel tipo sono a rischio per questo già il 5 marzo ho vietato l’accesso ai visitatori e chiesto la misurazione della temperatura degli operatori due volte al giorno. Purtroppo però quando il virus entra non è più controllabile”. Almeno la metà degli ospiti è risultata positiva, stessa percentuale tra il personale. Chiassai, esponente di Forza Italia, rivendica di essersi mossa prima della Regione. “Avevo chiesto di fare subito i tamponi a tutti, già a marzo”. Forse in ritardo, ma la reazione c’è stata. La Asl ha mandato medici e infermieri per curare i contagiati e ricoverato in ospedale i casi più gravi; la Regione ha disposto test a tappeto e il Comune ha trasferito gli anziani ancora immuni in altri edifici. Dopo un paio di settimane l’assalto del virus è stato stroncato.

Adesso alcuni pazienti si stanno “negativizzando” e 14 sono stati dichiarati guariti. “E’ successo tutto questo anche se mi sono mossa per prima – conclude la sindaca – Perché? O non sono state seguite le mie direttive oppure è stata una questione di sfortuna. Vediamo cosa dirà la procura”.

La Regione Toscana ha preso coscienza del dramma alla fine di marzo. Si è capito che le strutture, private e spesso piccole, non erano in grado di farcela, anche perché spesso sono colpiti pure i lavoratori. Allora sono scese in campo le Asl: due ordinanze, una il 29 marzo e l’altra il 7 aprile, hanno concesso la possibilità di commissariare le residenze per anziani e disabili. Inoltre si è chiesto agli uffici pubblici di farsi carico dei test su tutti gli ospiti: dove non c’è possibilità di isolamento, i contagiati vengono portati via. In questo modo la diffusione del coronavirus inizia a rallentare: due mesi dopo l’intervento pubblico, i casi ci sono ancora ma si manifestano sempre più raramente.

© Alessio Romenzi per Cortona on the Move

Determinante la scelta imposta dal presidente Enrico Rossi di usare i test sierologici, con il tampone solo quando emerge la positività. Un’azione massiccia: finora 11.196 test su 16 mila ospiti e 11.245 tamponi, ripetuti più volte per certificare un singolo caso. Sulla base dello screening ci sono stati gli interventi: una decina di residenze state commissariate ma per la maggior parte di quelle in difficoltà è bastato inviare rinforzi. Decine di pazienti in condizioni serie sono stati trasferiti dove c’era possibilità di cure e isolamento. La strategia, insomma, è stata semplice: test di massa per individuare i focolai, poi l’intervento della sanità pubblica. La regia è stata affidata a un pool di specialisti chiamato Girot, che si è mosso fianco a fianco con le squadre dell’Usca: una direzione competente che indirizza gli organismi sul territorio e si fa carico di risolvere i guasti. Un modello che già viene studiato e imitato.

Nello stesso momento in cui la Toscana fa carico della tragedia nelle Rsa, in Piemonte si sceglie una linea opposta. Il 31 marzo alle 9.30 del mattino Roberto Testi, direttore scientifico dell’unità di crisi regionale, manda una mail ai dirigenti di alcune Asl torinesi, rivelata dalla redazione torinese di Repubblica: “Il concetto di responsabilità diretta sui casi in Rsa, ospedali, aziende e comunità è esattamente quello che sto cercando di evitare”.  Il professor Testi è consapevole che i suoi provvedimenti “sicuramente faranno incazzare medici competenti, distretti, Usca, ecc”, perché “per ora le indicazioni sono di evitare il più possibile coinvolgimenti diretti in tali ambiti”. Il messaggio è chiaro: lasciate che le Rsa e le comunità per anziani si arrangino. Una scelta cinica, dettata dalla situazione. “Non vorrei sembrare antipatico, ma non siamo riusciti a gestire mille quarantene. Non oso pensare che cosa succederebbe prendendo la diretta gestione di circa 40 mila tra ospiti delle strutture socio assistenziali e operatori sanitari”.

Già, la Regione Piemonte non sa come navigare nella tempesta perfetta. La sua rete sanitaria nelle prime settimane fa acqua paurosamente. Le terapie intensive sono al limite e il sistema di assistenza sul territorio si mostra debole. Così come il tessuto delle residenze che assistono gli anziani. Ce ne sono tantissime, con oltre 28 mila degenti, tutte alle prese con un’emergenza drammatica. Le mascherine non si trovano, i tamponi non si fanno, le indicazioni sono confuse. “Siamo a contatto con gli anziani e li curiamo cura 24h su 24, siamo a rischio – racconta l’infermiera di un istituto torinese gestito da religiosi -. Le mascherine le abbiamo avuto a metà marzo solo perché ci siamo ribellate. Nessuno ci ha fatto i tamponi e già purtroppo c’è una collega positiva: è stata lei a dirmelo in confidenza, perché non comunicano nulla”.

Il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio e l’assessore Luigi Icardi

Più testimonianze sostengono che i ricoveri in ospedale vengono negati agli anziani. Il 19 marzo nella storica casa di riposo comunale di Vercelli scatta la massima allerta: cinque ospiti stanno male con i sintomi del Covid. Nella palazzina di piazza Mazzini arriva l’ambulanza e il medico conferma la diagnosi: non ce la fanno più a respirare, bisogna intubarli. Ma la centrale del 118 blocca ogni movimento: c’è rimasto un solo posto in terapia intensiva, meglio lasciarlo a chi ha più speranze. Il medico riesce solo a ottenere la consegna di qualche bombola d’ossigeno: poco più di un palliativo. Quei primi pazienti muoiono nel giro di una settimana. L’inizio di una lunga catena che arriva a contare 44 vittime; dopo qualche giorno si fatica persino a trovare le bare: le salme restano sui letti e poi finiscono nella cappella.

“C’è stata un’impreparazione collettiva. Pensate: ci dicevano di fare durare una mascherina per almeno una settimana – ricostruisce Carmine Lungo della Cgil di Vercelli – Anche noi ci siamo ammalati e a un certo punto per assistere trenta positivi era rimasto un solo infermiere: non aveva più tempo per dormire”. Per i familiari è stata un’esperienza sconvolgente.

A Vercelli Carlo Butera ha perso la mamma Vita, ricoverata dal 2017 per Alzheimer e ipertensione. “L’ultima volta l’ho vista il 27 febbraio. Il 5 marzo scopro su Facebook che hanno bloccato le visite. Da allora telefonavo ogni settimana, sempre la stessa risposta: ‘Tutto bene’. Il 25 marzo vengo a sapere dal figlio di un altro ricoverato che un paziente era positivo. Ho chiamato una dirigente e mi ha comunicato che mia madre aveva la febbre. Perché non mi avete avvisato? E lei, testuali parole: ‘Noi con tutti gli ospiti che abbiamo qui dentro mica possiamo avvertire tutti i parenti‘. Poi mi ha riassicurato dicendo che la febbre era passata. Quando ho avuto in mano la cartella clinica, ho scoperto che invece quel giorno mia mamma aveva più di 38”.

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DI GIANLUCA DI FEO (COORDINAMENTO E TESTO), GIUSEPPE BALDESSARRO (BOLOGNA), MICHELE BOCCI (FIRENZE), FLORIANA BULFON (ROMA), ZITA DAZZI (MILANO), ROSARIO DI RAIMONDO (BOLOGNA), ALESSIA GALLIONE (MILANO). CON UN SERVIZIO FOTOGRAFICO DI ALESSIO ROMENZI/CORTONA ON THE MOVE. COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI, GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL

Sorgente: Coronavirus nelle Rsa: la strage silenziosa dei più fragili | Rep

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