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L’ultima provocazione: Lannutti candidato a presiedere la commissione sulle banche

di Annalisa Cuzzocrea

Roma. Si sono riuniti mercoledì sera, alla Camera, i 14 capigruppo nelle diverse commissioni del Movimento 5 stelle. Ed è stato durante quella riunione, seguita a una chat riservata, che uno di loro ha tirato fuori un messaggio subito recapitato a Luigi Di Maio: «Se i toni non cambiano, se a guidare le danze dev’essere Alessandro Di Battista e i retroscena che ci danno pronti per il voto non vengono smentiti, faremo firmare a tutti un documento per sfiduciare il capo politico». Che l’arma non sia così spuntata, i vertici M5S lo hanno capito quando — per l’ennesima volta — il tentativo di forzare la mano sull’elezione del capogruppo a Montecitorio, eleggendo un’unica squadra guidata da Francesco Silvestri, non è passato. Voto rinviato, probabilmente a gennaio, e proprio perché l’attuale reggente è considerato troppo vicino al leader.

Molti parlamentari M5S hanno guardato con sgomento all’escalation degli ultimi giorni. Il mandato sul fondo salva-Stati che avevano affidato a Di Maio era per trattare con il resto della maggioranza, non per rompere. E il ritorno al fianco del capo di Di Battista non li rasserena: i nuovi arrivati lo conoscono poco, chi è alla seconda legislatura ha vissuto come un tradimento la sua mancata candidatura. «Se volete che mi dimetta, dopo di me c’è solo Alessandro», ha detto a più persone Di Maio nei giorni di maggiore scontro con gli altri big del Movimento. Quando la richiesta di un allargamento della leadership si era fatta pressante, prima del voto sul blog per la corsa solitaria alle regionali (dove i 5 stelle non trovano candidati, tanto da aver allungato i termini e da non aver ancora scelto chi guiderà la lista in Emilia-Romagna). Ma Di Battista è colui che continua a definire il Pd «un partito di destra liberista», che ieri festeggiava la vittoria del referendum contro le riforme costituzionali di Renzi e che finge — dalla nascita del Conte 2 — di non sapere che il suo Movimento è alleato con i dem, con Leu, con Italia Viva.

Soprattutto, finge di non aver sentito gli ultimi discorsi di Beppe Grillo: è il centrosinistra il campo in cui deve stare il nuovo M5S. Cambiando, guardando alle nuove divisioni mondiali, stando dalla parte dell’ambiente contro i sovranismi di Trump e Bolsonaro. Tutto questo, coloro che i detrattori chiamano ora “il magico duo”, e cioè Di Maio e Di Battista, sembrano non averlo capito. O accettato. O forse, pensano che l’umoralità di Grillo non gli permetta di stare davvero «più vicino» a Di Maio come aveva detto, lasciando loro le mani libere. Il fatto che pochi giorni dopo il blitz del fondatore a Roma il ministro degli Esteri abbia alzato i toni contro Conte e Pd sul fondo salva-Stati, ha dimostrato a chi confidava nel suo intervento tutta la sua impotenza. Anche se, dice un ministro, «Beppe non poteva destituire Luigi, perché il risultato sarebbe stato una scissione».

E se ieri, nel pieno della tensione con gli alleati, si è diffusa la voce di una telefonata dell’“elevato” al capo (poi smentita), cui sono seguiti toni più morbidi, su tutto, da parte di Di Maio. Non durerà molto. Anzi, potrebbe essere già finita, visto che il candidato M5S per la guida della commissione banche è Elio Lannutti, che sui social ha diffuso la propaganda antisemita dei protocolli dei Savi di Sion (post da cui Di Maio ha preso timidamente le distanze, senza emanare alcun provvedimento).

In una fase in cui il Movimento sembra sull’orlo del burrone, quello che manca davvero — per chi non è d’accordo con la linea — è un leader alternativo. In molti, alla Camera come al Senato, hanno guardato al ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli: nei 5 stelle da prima di Di Maio, amico di Gianroberto Casaleggio prima e del figlio Davide poi, vicino anche a Grillo e benvoluto a livello parlamentare. Chi lo ha sondato, però, ha ottenuto una risposta netta: «Non farei mai il capo politico. Quel che serve ora è una seria riflessione sull’identità e una guida finalmente allargata».

Per capire gli umori, basta dare un’occhiata alle chat dei senatori, dove il sottosegretario Vito Crimi protesta per l’escalation sul Mes: «Non sottoscriverlo che benefici porta?», chiede, postando la torta di un sondaggio e dicendosi tra il 66% che non ci ha capito nulla. Si unisce Michela Montevecchi: «Questo continuo remare contro non fa altro che logorare», dice, facendo riferimento a chi insegue «vendette». Ribatte piccata l’ex ministra del Sud Barbara Lezzi, ormai in scia con Di Battista: «Come dice Michela sfogherò frustrazione e delusione nell’ascolto dei benefici del Mes». Ma non ottiene appoggio. Secondo Emanuele Dessì, «è soltanto l’ennesima dimostrazione che tutto ciò cui assistiamo da giorni è strumentale».

Sorgente: “Sfiducia al capo politico”. Il documento dei deputati 5S contrari alla linea Di Maio | Rep

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