Com’è noto a medici e psicologi, la sessualità non si riduce al pene o alla vagina, ma è soprattutto una questione mentale, ed è influenzata anche da fattori ambientali e sociali, che non si possono cambiare con gli ormoni. Inoltre, come evidenziato da Mark Dell Kielsgard in una ricerca della City University di Hong Kong, non solo la castrazione chimica obbligatoria ha dei costi non indifferenti per lo Stato e non sortisce alcun effetto sul comportamento degli stupratori, ma è anche in contrasto con i diritti umani internazionali, come il diritto alla privacy e alla procreazione, in modo non proporzionale all’offesa.
Pensare che la castrazione chimica sia la soluzione per la violenza sessuale significa spostare l’attenzione da chi commette l’abuso allo strumento con cui viene commesso: lo stupro non è una questione di “ormoni”, ma un esercizio di potere. In molti casi chi stupra non lo fa solo perché vuole avere un rapporto sessuale, ma perché per lui la violenza è la prova del potere che può esercitare nei confronti di una donna. Pensare che eliminare lo strumento elimini in modo radicale la violenza è ingenuo tanto quanto pensare che bandire le armi da fuoco conduca alla pace nel mondo. Infatti, non serve un pene per stuprare, a meno che non smettiamo di considerare violenza sessuale quella perpetrata usando oggetti, o quella commessa dalle donne ai danni degli uomini, un’eventualità rara che però è possibile, e che si regge sulla stessa idea di riduzione a oggetto a uso e consumo di chi usa violenza.
Invocando la castrazione chimica, inoltre, si nega che la violenza maschile sia spesso un problema strutturale e la si relega al piano emergenziale. Questa visione univoca della violenza sessuale si incastra perfettamente nella propaganda salviniana, volta a farci vivere nella percezione di una paura continua. Per Salvini tutto è un’emergenza, un’allarme, rendendo più facile invocare pene esemplari che sembrano più vendette che strumenti di rieducazione, e far approvare decreti per la tanto sbandierata “sicurezza”. È la stessa logica del Codice rosso, che fa allarmismo già dal nome e che originariamente prevedeva anche l’introduzione della castrazione chimica: non si fa altro che mettere una toppa su una singola e circoscritta espressione del fenomeno, anziché riconoscere la natura globale e strutturale della violenza.
Non è un caso se Salvini dica che chi stupra – anzi, chi “spezza i fiori” – “va curato”, perpetrando l’idea che gli stupratori siano affetti da patologie mentali. Nell’immaginario comune lo stupratore è il maniaco con la bava alla bocca che ti assale nei vicoli bui. Nella realtà la violenza sessuale è anche e soprattutto altro: è il marito, l’ex fidanzato, il conoscente, l’amante, l’amico, il collega. Persone “perbene”, per usare un termine caro al vicepremier, che non sono né malate né pazze, ma perfettamente consapevoli di quello che fanno: in oltre sei casi di abuso su dieci, il colpevole è il partner o l’ex partner.
La società non ha bisogno della castrazione chimica, ma di prevenzione. Deve cambiare radicalmente il modo in cui intende e tratta la violenza di genere, non più come un problema di sicurezza o privato, ma come una questione sociale e politica che riguarda tutti. Servono sanzioni certe, perché invocare la severità è inutile se solo per il 2,3% degli stupri commessi da un partner segue una condanna; serve il supporto ai percorsi per uscire dalle situazioni di abuso e non il taglio dei finanziamenti ai centri antiviolenza, uniche forme di sostegno a lungo termine per le vittime; serve l’educazione alle differenze a scuola, nei luoghi di lavoro, in famiglia.
Noi donne non siamo fiori, come ci vorrebbe Salvini, ma come diceva un vecchio detto femminista “vogliamo anche le rose”. Di meno spine non ce ne facciamo niente.