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Mentre l’Autorità palestinese cerca di affermarsi per il “day after” di Gaza, la sua incapacità di affrontare gli attacchi israeliani l’ha portata ai minimi storici di apprezzamento in Cisgiordania.

Fatma Abdulkarim

L’articolo è uscito originariamente su +972 Magazine il 4 gennaio 2024 con il titolo “Fed up with absent leadership, Palestinians yearn for political unity”.
Dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, la Cisgiordania occupata ha registrato un’impennata di violenza e instabilità. Negli ultimi tre mesi, con l’attenzione del mondo concentrata sulla Striscia di Gaza e i continui bombardamenti di Israele, i soldati israeliani e le milizie dei coloni hanno ucciso più di 300 palestinesi in Cisgiordania, tra cui oltre 80 bambini, mentre più di 4.000 palestinesi sono stati arrestati.

I coloni hanno anche intensificato le aggressioni e le violenze contro i palestinesi nel tentativo calcolato di appropriarsi delle loro terre, sfollando con la forza almeno 16 comunità nelle ultime settimane. Il territorio rimane sotto stretto lockdown, con posti di blocco militari che impediscono ai palestinesi di spostarsi di città in città.

Per molti palestinesi, altrettanto paralizzante della rigida stretta dell’occupazione è il senso di totale assenza e inazione dei loro stessi leader. L’Autorità palestinese (Ap), guidata dal presidente Mahmoud Abbas, ha per lo più espresso timide condanne delle escalation e delle punizioni collettive di Israele, senza avere una reale capacità di affrontarle.

Ciò si è reso particolarmente evidente il mese scorso, sulla scia di un’incursione di due giorni delle forze israeliane nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania, che ha di fatto trasformato la città in una “mini Gaza”, come hanno raccontano molti residenti. L’operazione è stata accompagnata nelle ultime settimane da numerose altre incursioni militari in altre città della Cisgiordania, tra cui Tubas e Tulkarem.

Pochi giorni prima dell’assalto israeliano a Jenin, Mustafa Sheta, direttore del Freedom Theater della città, ha dichiarato a +972 che gli abitanti di Jenin si sentono abbandonati, soprattutto quando tutti gli occhi – compresi i loro – sono puntati su Gaza. “L’Autorità palestinese è silente. Non ci rassicura né lenisce le nostre ferite”, ha detto. Sheta è stato poi arrestato dalle forze israeliane durante l’operazione di Jenin e spedito alla prigione di Megiddo, dove trascorrerà sei mesi in detenzione amministrativa, ovvero senza accuse né processo.

Il sentimento espresso da Sheta trova eco in un recente sondaggio condotto in Cisgiordania e a Gaza dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR). Secondo i risultati del sondaggio, il sostegno ad Hamas è salito al 44% tra i palestinesi in Cisgiordania, rispetto al 12% di settembre. Il sostegno ad Abbas, al suo partito Fatah e all’Autorità palestinese è diminuito invece in modo significativo: più del 90% chiede le dimissioni del presidente, mentre il sostegno allo scioglimento dell’Autorità palestinese – che tocca quasi il 60% in tutta la Cisgiordania e a Gaza – è il più alto mai registrato in un sondaggio del PCPSR.

Il crescente malcontento dell’opinione pubblica per l’assordante silenzio dell’Autorità palestinese di fronte agli sfacciati bombardamenti israeliani su Gaza, all’intensificarsi delle incursioni nelle città della Cisgiordania e all’assassinio di alti dirigenti palestinesi, si aggiunge ad anni di frustrazione per le persistenti accuse di corruzione, per il mancato pagamento dei dipendenti e per la sensazione che l’Autorità sia sempre più scollegata dalla vita dei suoi elettori. Oggi più che mai si ha la netta percezione che l’Ap sia del tutto irrilevante.

Per molti, l’attuale leadership non è in grado di rappresentare le aspirazioni e le preoccupazioni del popolo palestinese, ostacolando passi significativi per la fine della guerra a Gaza e l’avanzamento della lotta nel suo complesso. Molti insistono sul fatto che è imperativo che una nuova leadership riallinei le sue azioni con i pressanti bisogni del popolo palestinese e affermi l’agency palestinese in mezzo alla cacofonia delle discussioni per il “day after“. Tutta via, l’Ap e i suoi leader stanno facendo tutto il possibile per rimanere al centro di questi progetti.

Niente più business as usual

Dal 21 ottobre, i raid militari israeliani a Jenin sono diventati routine, con incursioni nottetempo e scontri con i combattenti della resistenza che vivono nel campo profughi. Dei quasi 500 palestinesi uccisi in Cisgiordania nel corso del 2023 – il numero più alto dalla Seconda Intifada – almeno 137 provenivano da Jenin. Ma a parte la retorica di condanna e gli appelli alla protezione internazionale, la distruzione di massa della città non ha spinto l’Ap ad agire.

Sheta del Freedom Theater, descrivendo la situazione a Jenin prima dell’incursione di due giorni, ha detto che “la gente del campo è completamente sopraffatta dalle incursioni militari notturne”, lasciando i già stanchi rifugiati ancora più in lutto e le loro infrastrutture in condizioni sempre peggiori.

“Non sappiamo quando tutto questo finirà”, ha lamentato. “I militari dicono che l’operazione mira a sradicare la resistenza dal campo, ma questo non è un obiettivo realistico. Non si può eliminare la resistenza da un popolo oppresso: l’uccisione porta all’uccisione e la violenza porta alla violenza”.

Vivendo in mezzo a queste turbolenze, i palestinesi sentono il prezzo del vuoto di leadership che ha afflitto la loro politica per anni. Ashraf Ajrami, analista politico e scrittore, ha criticato l’attuale approccio dell’Autorità palestinese, descrivendola come “incapace, senza legittimità popolare”. Ha fatto notare come, a un evento dedicato ai prigionieri politici palestinesi rilasciati in cambio degli ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre, il ministro dell’Autorità palestinese per gli Affari dei prigionieri, Qadura Faris, sia stato silenziato dai partecipanti.

Ajrami ha accusato i dirigenti dell’Autorità palestinese, in particolare quelli vicini al presidente Abbas, di condurre “business as usual” di fronte alla catastrofe di Gaza. Ha sottolineato la mancanza di una qualsiasi mobilitazione significativa in Cisgiordania per sostenere Gaza – cosa ancora più evidente se si considerano le azioni intraprese dall’Ap in altri casi, come l’invio nel 2016 di 40 vigili del fuoco e 8 camion per aiutare a sedare alcuni incendi boschivi vicino a Haifa.

Nonostante le sue critiche sia a Fatah sia ad Hamas, Ajrami ritiene che esista una potenziale via d’uscita attraverso l’istituzione di una commissione indipendente e tecnocratica che intervenga per un periodo di transizione, sia per ricostruire Gaza sia per aprire la strada alle elezioni. Ajrami sottolinea che il momento attuale rappresenta un’opportunità potenzialmente unica, affermando che il mondo è finalmente interessato a vedere uno Stato palestinese realizzarsi.

“La soluzione dei due Stati, basata sui parametri politici stabiliti dalla comunità internazionale, viene affrontata seriamente per la prima volta dai tempi del presidente Bill Clinton”, ha affermato Ajrami. Ma cogliere questa opportunità, ha sottolineato, richiede un cambiamento importante nell’approccio della leadership.

“Abbiamo bisogno di qualcuno che possa unire le persone”

Il sentimento popolare è che sia necessaria una figura politica ampiamente rispettata per spezzare questa paralisi. In un piccolo caffè pieno di fumo di sigaretta ad Al-Bireh, una città vicino a Ramallah, Abu Othman, un cliente palestinese, esprime l’opinione di molti: “Non possiamo continuare a chiederci ‘cosa succederà?’ con l’attuale leadership. Abbiamo bisogno di una figura come Abu ‘Ammar”, dice, riferendosi al defunto leader palestinese Yasser Arafat. “Qualcuno che possa unire le persone nonostante le loro differenze”.

La figura più importante in questa prospettiva è quella di Marwan Barghouti, prigioniero politico e leader di lunga data di Fatah che, secondo il recente sondaggio del PCPSR, se le elezioni si tenessero oggi, sconfiggerebbe sia Abbas sia il leader di Hamas Ismail Haniyeh. Salito alla ribalta come attivista studentesco durante la Prima Intifada, Barghouti è stato poi coinvolto nel braccio armato di Fatah, la Brigata dei Martiri di Al-Aqsa. Arrestato da Israele durante la Seconda Intifada, è stato condannato a cinque ergastoli da un tribunale militare per il suo coinvolgimento in attacchi contro gli israeliani.

Da dietro le sbarre, Barghouti è rimasto attivo nel movimento dei prigionieri e nella politica palestinese in generale, pubblicando articoli e dichiarazioni che sottolineano la necessità della riconciliazione nazionale. Spesso definito il “Mandela della Palestina”, dal leader e prigioniero politico sudafricano, Barghouti ha mantenuto un ampio sostegno popolare come futuro leader del movimento nazionale.

A causa della sua incarcerazione, però, alcuni palestinesi guardano anche a figure consolidate all’interno dell’Ap come potenziali leader. Mahmoud Aloul, vicepresidente di Fatah dal 2018, è considerato una di queste figure.

Imprigionato e deportato dalla Cisgiordania alla Giordania dopo la guerra del 1967, Aloul è tornato in Palestina nel 1995 nell’ambito degli accordi di Oslo come consigliere chiave di Arafat, ed è stato poi nominato governatore di Nablus, carica che ha ricoperto per 10 anni e che gli ha fatto guadagnare la reputazione di uomo del popolo. Lasciatosi alle spalle il suo passato militare, Aloul è diventato un sostenitore della resistenza popolare, incluse manifestazioni e boicottaggio dei prodotti israeliani. Ora supervisiona i rami locali di Fatah come capo della Commissione per la mobilitazione e l’organizzazione del partito.

In un modesto ufficio aperto al pubblico, Aloul siede a un lungo tavolo coperto di quaderni, penne, occhiali e cellulare. Riconoscendo la gravità delle conseguenze della guerra tra Israele e Gaza, Aloul dichiara a +972: “La priorità ora non è difendere l’Ap o averla nelle proprie mani. La priorità è riconquistare [la fiducia di tutto] il popolo palestinese e la lotta per la libertà. Questa guerra – il genocidio a Gaza e le uccisioni e le distruzioni quotidiane in Cisgiordania – è contro l’intera nazione palestinese”.

Pur riconoscendo l’impatto della divisione Fatah-Hamas sul popolo palestinese, Aloul dichiara: “Personalmente penso che sbagliamo a parlare della popolarità delle fazioni. La priorità dovrebbe essere la visione che impedisce a Israele di assassinare i sogni del nostro popolo… per superare qualsiasi minaccia alle decisioni indipendenti dei palestinesi. Stiamo facendo grandi sforzi per porre fine a questa [divisione]”, ha aggiunto, senza fornire ulteriori dettagli. “Per questo stiamo facendo del nostro meglio per riconnetterci con il popolo e per creare le condizioni per le elezioni; questo è ciò di cui abbiamo bisogno. Nessuno finge che la situazione sia rosea”, ha proseguito: “Ci sono molte cose che dobbiamo correggere, soprattutto il rapporto con il nostro popolo”.

Aloul si è rivolto al pubblico palestinese attraverso messaggi vocali registrati, pubblicati sulla sua pagina Facebook ufficiale il 13 ottobre e l’8 novembre, sottolineando che la priorità della leadership palestinese è porre fine all’aggressione israeliana sia a Gaza sia in Cisgiordania. Nella seconda registrazione, Aloul ha delineato la strada da seguire secondo la leadership palestinese: una presa di posizione dell’Olp che includa Hamas e la Jihad islamica, entrambi esclusi da tempo dall’organizzazione. Si dice siano sul piatto piani per avviare seri colloqui per un tale accordo di unità.

Ma molti palestinesi vogliono qualcosa di più di un altro accordo ai vertici. Fadi Quran, attivista politico di 35 anni, ritiene che sia necessaria una nuova iniziativa inclusiva di matrice palestinese per superare le divisioni. Per integrare questi cambiamenti politici ai vertici, Quran immagina un movimento di base, simile alla Prima Intifada, in cui la gente possa partecipare al lavoro politico dal basso. “L’energia c’è, il sostegno pubblico c’è e le idee ci sono. Hanno solo bisogno di essere organizzate”, ha detto. “C’è una certa decentralizzazione, per cui le persone stanno iniziando a creare le proprie reti d’azione”, ha proseguito Quran. “E speriamo che tutto ciò continui a crescere e sbocci in qualcosa”.

Sgomitando per il “day after” di Gaza

Nelle ultime settimane, secondo alcune fonti diplomatiche, figure governative di Stati arabi come gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Egitto, nonché di Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e Israele si sono incontrati a porte chiuse per riflettere sui vari scenari post-bellici per Gaza. Nessun coinvolgimento diretto dell’Autorità palestinese o Hamas.

I diplomatici che, a condizione di restare anonimi, hanno parlato con +972 hanno spiegato che gli scenari previsti propendono per la creazione di una nuova entità amministrativa, escludendo espressamente Hamas, definito come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dall’Ue. In queste discussioni sono state rivolte molte critiche anche all’Autorità palestinese guidata da Fatah, bollata come corrotta e antidemocratica.

Le fonti diplomatiche hanno raccontato che varie proposte per il “day after” sono state discusse in questi incontri, tutte volte a realizzare una transizione pacifica verso una leadership democraticamente eletta, consentendo al contempo la riabilitazione di Gaza. C’è un ampio consenso rispetto a un periodo di transizione in cui una qualche forza dovrebbe essere configurata per governare dopo la fine della guerra e fino a quando non si potranno tenere le elezioni; questa forza, hanno spiegato le fonti, comprenderebbe principalmente figure dell’apparato di sicurezza palestinese e figure affermate della comunità.

Si sta anche discutendo di ridurre le dimensioni della Striscia di Gaza attraverso la creazione di una zona cuscinetto militare israeliana lungo la Philadelphi Route – un territorio che corre lungo il confine tra Gaza e l’Egitto – che Israele ora insiste a controllare. L’Egitto non si è ancora opposto a questa idea.

Una proposta egiziana in tre fasi per porre fine alla guerra, divenuta nota a livello locale come “Iniziativa egiziana”, stava guadagnando slancio nelle ultime settimane, prima di essere dichiarata morta dopo l’assassinio del vice capo dell’ufficio politico di Hamas, Saleh al-Arouri, a Beirut il 2 gennaio scorso.

L’iniziativa, sostenuta dai mediatori del Qatar, proponeva una fine graduale delle ostilità, a partire da una tregua temporanea che avrebbe permesso il rilascio di ostaggi israeliani in cambio di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, fino ad arrivare a un cessate il fuoco permanente. Il documento prevedeva anche un cambio di leadership a Gaza, escludendo Hamas dal governo della Striscia, ma non menzionava l’Ap.

Il comitato esecutivo dell’Olp, presieduto da Abbas, la scorsa settimana aveva respinto pubblicamente l’iniziativa nella sua forma iniziale. Bassam al-Salhi, membro del comitato, ha dichiarato a +972 che l’organismo si concentra principalmente su “un cessate il fuoco immediato e una cornice per un percorso politico globale per porre fine all’occupazione”: “Poi potremo parlare delle questioni interne, tra cui l’unità, le riforme e le elezioni. Sulla base di quanto visto nel 2006, non abbiamo garanzie che la comunità internazionale riconosca i risultati di eventuali elezioni”, ha aggiunto.

Dietro le quinte, tuttavia, all’Autorità palestinese era stata lanciata un’ancora di salvezza: un alto funzionario di Fatah ha dichiarato a +972 che l’Egitto ha assicurato loro che il ruolo dell’Autorità palestinese nel processo di transizione è stato compreso da tutte le parti senza bisogno di essere esplicitato.

L’Ap aveva quindi richiesto un emendamento alla proposta, che l’Egitto aveva accettato, per la creazione di un governo di unità nazionale attraverso un accordo di riconciliazione tra le fazioni palestinesi, piuttosto che un organo tecnocratico. I funzionari dell’Ap temevano che quest’ultimo scenario avrebbe permesso il ritorno di dissidenti pubblici di Abbas, come Mohammed Dahlan da Abu Dhabi e l’ex rappresentante dell’Olp Nasser al-Kidwa, nipote di Yasser Arafat.

Considerando questa iniziativa come un mezzo per rimanere rilevante, e quindi cercando di mantenere gli americani in gioco, l’Autorità palestinese aveva anche richiesto delle aggiunte alla proposta per quanto riguarda le riforme della propria governance, della sicurezza, dei meccanismi giudiziari e amministrativi. I funzionari statunitensi avevano sottolineato all’Ap che queste erano le sue richieste, insieme all’idea di riqualificare una forza di sicurezza dell’Ap che sarebbe stata responsabile della sicurezza a Gaza dopo la guerra. Si pensava che l’Egitto fosse disponibile a questi cambiamenti, prima che ulteriori colloqui venissero interrotti dopo l’assassinio di al-Arouri.

Alla luce di queste discussioni, l’Autorità palestinese ha sottolineato pubblicamente il suo impegno nei confronti dei princìpi democratici, sostenendo la necessità di elezioni nazionali libere e imparziali per determinare la rappresentanza. Nelle sue rare – e ampiamente criticate – apparizioni pubbliche dal 7 ottobre, Abbas ha riaffermato la disponibilità dell’Ap ad assumere il governo di Gaza e ha sottolineato che il ritorno ai negoziati per una soluzione a due Stati rimane una priorità.

La posizione ufficiale di Abbas è incentrata su tre pilastri fondamentali: fermare l’espulsione dei palestinesi di Gaza dall’enclave, riprendere il pieno controllo della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sotto l’Olp (a cui si aggiungerebbero Hamas e la Jihad islamica) e avviare un processo di pace globale. Gli osservatori sostengono che, nelle attuali condizioni, nessuno di questi piani è realistico.

Per Quran, queste vuote parole della leadership palestinese, prive di legittimità politica o di potere che le sostenga, dimostrano la necessità di un approccio più olistico per ripristinare l’agency palestinese. “Siamo arrivati a un momento in cui i palestinesi dicono: ‘Vogliamo rappresentanza. Vogliamo inclusione nella nostra politica e vogliamo persone competenti’, ha affermato. “Muovendoci verso la nostra liberazione inizieremo a creare unità”.

(traduzione dall’inglese di Ingrid Colanicchia)

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