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Non capiscono un’acca larentia. Non è una provocazione. E’ la cruda realtà. Per più ordini di ragioni. La prima è la più banale. Se c’è in questo Paese una cultura politica che dopo il 1946 ha avuto il compito e il ruolo per narrare la storia alle nuove generazioni, superare i conflitti, pacificare la nazione, comprendere le mille contraddizioni in cui l’Italia dal 1922 al 1945 è stata immersa, quella forza è la sinistra. E se a distanza di un secolo dalla marcia su Roma il Paese si attrezza con i saluti romani, significa che il grande progetto culturale di traghettare l’italiano dentro la democrazia rendendolo testimone della storia che cambiava è fallito.

E non è certo colpa della destra, che fino al 1994 era una parola censurata in questo Paese, come lo sono certe battute sui gay, ma proprio del grande blocco antifascista che ha trainato, guidato e plasmato la Repubblica italiana scegliendo di “congelare” il Ventennio mussoliniano e di condannarlo a parole, ma senza mai aprire davvero un “giudizio finale” che ci rendesse tutti figli, al di là delle colpe dei nonni, di uno Stato che aveva detto una gigantesco ”no” a quegli anni. Spiace dirlo, ma il primo passo per giungere a questo risultato è legittimare e opporsi con gli strumenti della dialettica politica al governo degli avversari. Perché non può esistere una repubblica democratica e costituzionale dove la titolarità a esercitare i poteri dello Stato spetta solo a una parte. Quello è più fascista del saluto romano di Acca Larentia.

L’Italia questo percorso non l’ha mai intrapreso davvero, al contrario della Germania dove i conti veri con la storia furono fatti. Se nel 2023 c’è Acca Larentia significa che qualcosa in questi ottant’anni non è andata come doveva andare. E quindi ci si aspetterebbe un grande mea culpa collettivo su questo. Tutto fuorché il dibattito cui assistiamo.

Lo dimostra anche un secondo indizio. Nell’era berlusconiana, piaccia o no, prima l’Ulivo, poi il Pd hanno costruito un modello di visione alternativa al Cavaliere che mostrava la capacità di analizzare bene chi fosse l’avversario che gli sedeva di fronte. Al punto che in trent’anni di governi alterni (due soli legittimati dal voto popolare, quelli di Prodi e Berlusconi) nessuno dava del fascista a nessuno. Eppure c’era la destra al governo, c’era La Russa e c’era Fini, c’erano le radici missine. Ma in quei decenni la sinistra aveva scelto di studiare l’avversario, di comprendere da che parte del cervello di milioni e milioni di italiani era nata l’idea di sdoganare un pezzo di storia patria. I critici possono incazzarsi fin che vogliono, ma quella sinistra là (di cui oggi non vi è traccia) sapeva bene chi aveva di fronte come nemico, conosceva la sua storia e le sue mosse, la sua eccezionalità e al tempo stesso fragilità da proto-influencer sempre in bilico che emanava il Cav.

Oggi non è più così. Giorgia Meloni, che rappresenta una fenomeno nuovo nella galassia dei conservatori europei, su cui perfino gli Usa hanno cambiato atteggiamento, sembra impermeabile a una analisi profonda, contemporanea e efficace da parte dei suoi storici avversari. Sembra regredita a uno stato brado, sembra avere solo un’arma contro il primo premier donna d’Italia, proveniente proprio dalla destra, quella di ripetere a se stessa e al mondo che c’è il fascismo. In Italia.

(di Tommaso Cerno – lidentita.it)

 

Sorgente: Non capiscono un’acca larentia – infosannio – notizie online

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