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A cinquant’anni dalla Rivoluzione dei Garofani l’avanzata dell’estrema destra di Chega mostra che molti portoghesi hanno nostalgia per il regime di Antonio de Oliveira Salazar 

Klas Lundström

Nel 1965, una statua di António de Oliveira Salazar è stata eretta nel cuore di Santa Comba Dão. Si tratta di una piacevole cittadina rurale del Portogallo centrale – e del luogo in cui è cresciuto il più longevo dittatore europeo del XX secolo. La statua raffigura una figura severa seduta a gambe divaricate su un basamento di granito, al di là della portata dei piedi. Le sue mani afferrano i lati di un trono di pietra.

La figura di Salazar riuniva la santa trinità del regime fascista portoghese, l’«Estado Novo». Dal 1932 al 1968, governò un impero sostenuto dalla Chiesa cattolica e dalla repressione istituzionalizzata. Quando la statua fu eretta, Salazar era ancora vivo, essendo stato primo ministro e dittatore de facto per trentatré anni. In quel momento, il Portogallo stava anche combattendo tre guerre coloniali in Africa – in Angola, Guinea e Capo Verde e Mozambico – nonostante fosse il paese più povero dell’Europa occidentale. Poteva finanziare la guerra solo grazie alla sua appartenenza alla Nato e alla capacità di Salazar di difendere ideologicamente la lotta come una questione di prevenzione della diffusione del «comunismo in Africa».

Salazar aveva fatto sventolare al Portogallo una bandiera neutrale durante la Seconda guerra mondiale, barcamenandosi con le forze alleate e con quelle dell’Asse. Dopo la caduta del Terzo Reich e del fascismo italiano, sarebbe rimasto, insieme allo spagnolo Francisco Franco, l’ultimo despota rimasto in Europa occidentale. Non solo si rifiutò di consegnare le colonie del suo paese – dopo che una riscrittura costituzionale del 1951 le chiamò «Province d’Oltremare» – ma riuscì anche a vendere i suoi servizi alla Nato, data la dipendenza dell’alleanza dalle isole Azzorre del Portogallo, situate nel centro dell’Atlantico.

L’«Estado Novo» era un progetto politico di estrema destra in cui qualsiasi segno di disaccordo – che riguardasse il modello economico del paese, la sua politica coloniale che includeva il lavoro forzato o la mancanza dei più elementari diritti civili, politici e sociali – era, per citare Umberto Eco, «un segno di diversità». Tuttavia, oggi, sostenere la memoria del regime di Salazar è diventata una formula politica vincente. Offre una contorta narrazione storica condita di nostalgia, in un momento in cui i movimenti di estrema destra stanno guadagnando slancio in tutto l’Occidente.

Negli ultimi cinque anni, il partito Chega («Basta») di André Ventura è emerso da un deserto politico di sognatori neofascisti per entrare nel cuore delle istituzioni portoghesi. La rapida ascesa del Chega dall’1% del 2019 al 18% di oggi è un risultato basato sull’attrazione verso le cabine elettorali da parte degli ex astensionisti – insieme alla nostalgia e alle narrazioni in codice che fanno riferimento a Salazar e al suo Stato.

Ricardo Noronha, storico dell’Universidade Nova de Lisboa, spiega che Chega ha «solleticato il trauma collettivo portoghese e i sentimenti sepolti» lasciati dall’«Estado Novo». «Credo che gli altri partiti si sposteranno più a destra nel tentativo di riconquistare gli elettori che hanno optato per Chega alle ultime elezioni, e lo faranno adattandosi al suo linguaggio politico e alle sue narrazioni socioeconomiche», ha aggiunto. Il rischio è che Chega conduca il Portogallo in una corsa verso l’estrema destra, dove la stabilità e il controllo sono possibili solo con mezzi autoritari.

Dio, Patria, Famiglia, Lavoro

«Il fatto che gli elettori di Chega siano così nostalgici del regime autoritario di Salazar non lascia dubbi su ciò che vogliono», hanno scritto lo scienziato sociale Luca Manucci e lo studioso di politica comparata Steven M. Van Hauwaert poco prima delle elezioni di marzo.

Un malessere sociale sempre più diffuso, l’insicurezza finanziaria e la frustrazione politica hanno dato munizioni alla crociata populista di Chega contro quello che definisce lo «Stato profondo» portoghese.

Il messaggio di Chega fa apertamente riferimento a questo. Non solo ha adottato il vecchio slogan di Salazar («Dio, patria, famiglia»), ma ha anche aggiunto «lavoro» alla lista. Il motto copiato ha funzionato come un flirt indiretto con il passato fascista del Portogallo, ma ha anche costituito un collegamento a una più ampia narrazione moderna, secondo la quale i partiti dominanti hanno fallito nel proteggere i cittadini dalla disoccupazione, dalla disperazione e dall’umiliazione culturale. Durante il governo di Salazar, la minaccia era il comunismo. Nel Portogallo post-1974, ce ne sono state molte altre: le istituzioni di Bruxelles, la corruzione interna, la caduta dell’ordine pubblico e gli effetti della globalizzazione.

La maggior parte dei movimenti di estrema destra in Europa racconta una storia evangelica della genesi del popolo, una fase di purezza da proteggere dai pericoli esterni. Non è un caso che il leader carismatico di Chega, Ventura, sia un ex socialdemocratico e accademico, il cui movimento ha trasformato Lisbona, una metropoli globale, in una roccaforte di Chega. A marzo il partito si è assicurato oltre il 17% degli elettori della capitale, quasi raddoppiando il risultato del 2022. Un decennio di politiche di austerità sulla scia della crisi finanziaria e la sottomissione del Portogallo alla Troika composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno minato il duopolio di cui godevano in precedenza i socialisti e i socialdemocratici di centrodestra.

Dopo il colpo di Stato controrivoluzionario del novembre 1975, che pose fine alla «Rivoluzione dei Garofani» iniziata nell’aprile 1974, questi due partiti avevano cementato un sistema politico basato sul cordone sanitario, in cui il centro ideologico era protetto dagli esterni a qualsiasi costo. Ogni interruzione era considerata una minaccia per la stabilità. Le elezioni del 2024 segnarono la fine di questo accordo. Ma questa spaccatura aveva anche una base materiale: scandali di corruzione successivi, livelli di povertà gonfiati, senzatetto diffusi e costo della vita alle stelle, soprattutto a Lisbona.

Un ritorno sgradito

Un malessere sociale sempre più diffuso, l’insicurezza finanziaria e la frustrazione politica hanno dato man forte alla crociata populista di Chega contro quello che definisce lo «Stato profondo» portoghese. Ciò influisce anche sulla visione che il paese ha di sé stesso. È sparita la cosiddetta rimozione prescrittiva che ha investito il Portogallo quando è entrato a far parte dell’Ue e ha riscritto la propria narrazione nazionale per riecheggiare gli anni Ottanta neoliberali. In quegli anni, la memoria collettiva di un «grande impero» è svanita, relegata alle frange dell’estrema destra. Vengono emarginati anche i «retornados» (rimpatriati), le cinquecentomila-ottocentomila persone che «tornarono in patria» in seguito all’indipendenza delle ex colonie africane del Portogallo. Molti di loro non avevano mai messo piede sul suolo portoghese prima della loro fuga postcoloniale, mentre altri erano emigrati nell’ambito del programma di emigrazione di Salazar negli anni Cinquanta. Alla fine, a tutti loro è stato negato lo status di rifugiato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e dal governo rivoluzionario portoghese. Furono considerati migranti volontari che non avevano mai attraversato alcun confine internazionale.

I rimpatriati rimasero quindi in una posizione intermedia in cui il loro accento portoghese, unito alle loro radici sociali e culturali lontane dal centro imperiale, li rendeva eterni stranieri. Secondo l’antropologa Elsa Peralta, due grandi narrazioni hanno sostenuto l’identità portoghese nel periodo democratico:

In primo luogo, la narrazione dell’impero e delle Scoperte, ereditata dall’epoca coloniale e presto riscattata nel periodo postcoloniale, secondo la quale il Portogallo era lo scopritore del Nuovo Mondo e l’autore di un colonialismo eccezionale, più tollerante e umano di quello praticato da altre potenze coloniali. In secondo luogo, la narrazione della «Rivoluzione dei Garofani», che liberò il paese dal giogo del dittatore e i popoli oppressi dalla frusta del colonizzatore.

Il revisionismo storico in Portogallo, aggiunge Peralta, ha creato una narrazione in cui il paese si è lasciato alle spalle il suo passato coloniale e antidemocratico per diventare una nazione europea «prendendo le distanze da una storia sempre più ripudiata in tutto il mondo, in particolare dall’Europa».

Tuttavia, la vittoria elettorale di Chega il mese scorso – che ha portato il numero dei suoi deputati da dodici a cinquanta – contrasta chiaramente l’idea che, dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974, il Portogallo abbia semplicemente abbandonato la sua immagine di impero orgoglioso e globale. Già nel 2007, la nostalgia e il desiderio di un ritorno alla «stabilità e all’orgoglio» dell’epoca di Salazar sono venuti allo scoperto. Quell’anno, con il 41% dei consensi, il dittatore è stato votato in un programma dell’emittente pubblica Rtp come «la più grande figura portoghese di sempre», superando re, poeti e stelle dello sport.

Whitewashing

Nella città natale di Salazar, Santa Comba Dão, la sua stella non è mai tramontata. Anzi, l’industria turistica ufficiale e i parenti superstiti del dittatore hanno cercato attivamente di fare withe washing sul nome e le azioni politiche di Salazar.

Sull’altra sponda del fiume Dão si trova il piacevole villaggio di Vimieiro. Lì, il nipote di Salazar, Rui Salazar, veglia ancora sulla casa natale del defunto dittatore, una casa a un piano situata sul ciglio della strada, non lontano dal fiume. Sono riuscito a intervistare Rui a Vimieiro nel 2014, durante le peggiori ondate di politiche di austerità imposte dalla Troika sulla scia della crisi finanziaria del Portogallo. Rui è un uomo severo (come suo zio) che ha dovuto sbloccare più di qualche catena al cancello prima di farmi entrare, superando una serie di cani da guardia.

Rui è stato schietto: il Portogallo è crollato dopo la caduta dell’«Estado Novo» fondato da suo zio. Sebbene quel regime sia sopravvissuto anche dopo che Salazar è entrato in coma nel 1968, è stato abbattuto nel 1974 dai capitani dell’esercito che hanno lanciato la Rivoluzione dei Garofani.

«Basta guardare i paesi che il Portogallo ha lasciato e che sono diventati indipendenti», ha deplorato. «Dopo la nostra partenza, tutto si è rotto. Le colonie africane avrebbero dovuto subire lo stesso destino delle Azzorre e di Madeira; avrebbero dovuto ottenere l’autonomia e noi avremmo mantenuto una presenza e un’influenza. Tutto questo si è perso nella “cosiddetta” rivoluzione del 1974».

Quella che Rui Salazar definisce la «cosiddetta» rivoluzione è stata in realtà l’ultima vera rivoluzione sociale in Europa occidentale e, scrive la storica Raquel Varela, uno degli eventi storicamente più importanti del XX secolo. Tra la fine di aprile del 1974 e il novembre del 1975, aggiunge Varela, «centinaia di migliaia di lavoratori scioperarono, centinaia di posti di lavoro furono occupati a volte per mesi e forse quasi tre milioni di persone parteciparono a manifestazioni, occupazioni e commissioni». In una notte, la popolazione portoghese si emancipò. Il controllo patriarcale dell’«Estado Novo» sulle donne finì e la parità di retribuzione e l’uguaglianza divennero ambizioni politiche realistiche.

Non tutti erano d’accordo. Rui Salazar era tra coloro che consideravano la rivoluzione un grosso errore. Non solo: ha anche gettato le basi per qualcosa, «un tipo di società», che non assomiglia affatto al paese in cui è cresciuto. «Sotto l’Estado Novo», mi dice, «almeno ci si sentiva al sicuro e si poteva camminare per strada dopo il tramonto». Quando mi ha salutato, con le catene del cancello in mano, mi ha consegnato una bottiglia di Porto e una foto plastificata di un giovane e sorridente António de Oliveira Salazar. Accanto alla foto, in corsivo, si leggeva «Salazar: Il lavoratore della patria».

Poi Rui è tornato dentro casa, dove oltre sessantamila oggetti dello zio scomparso – lettere, oggetti personali e documenti che il nipote sperava potessero un giorno essere esposti in un museo Salazar – parlavano di un passato a cui non solo i parenti più stretti del defunto dittatore si avvicinano in termini nostalgici.

Punto di svolta

La crisi finanziaria, secondo Elsa Peralta, ha rappresentato un punto di svolta in questo senso. Nel corso delle politiche di austerità avviate dalla Troika, l’allora governo di centro-destra cercò di allentare la pressione dell’opposizione e dei critici aprendo la strada a una nuova narrazione storica: quella che sostiene che i rimpatriati e le minoranze sociali in Portogallo siano stati messi all’angolo a causa del caos politico prodotto dai movimenti rivoluzionari di estrema sinistra dopo il 1974. La colpa della rivoluzione democratica, per i semi politici che poi hanno prodotto la crisi finanziaria, ha coinciso con la «perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche del paese e nel progetto europeo nel suo complesso».

Questa tempesta politica perfetta, conclude Peralta, porta «a una nostalgia del passato imperiale». A Santa Comba Dão, tuttavia, il destino della statua di Salazar è un buon esempio della sopravvivenza generazionale del defunto dittatore e del suo «Estado Novo». Il 17 febbraio 1975 – nemmeno un anno dopo la Rivoluzione dei Garofani – i cittadini di Santa Comba Dão si svegliarono con una versione incarnata della Leggenda di Sleepy Hollow. La statua di Salazar era stata decapitata – il risultato di un misterioso intervento notturno, ispirato dallo spirito di una rivolta sociale mozzafiato.

Eppure, a Santa Comba Dão, molti si sentivano estranei alle nuove maree politiche. Molti si sentivano storditi, come passeggeri di una barca a vela che aveva perso la direzione. Così, nello spirito rivoluzionario del tempo, optarono per un’azione collettiva: una mobilitazione per raccogliere denaro per sostituire la testa di Salazar. Il defunto dittatore era, dopo tutto, il loro capitano, un nativo e un simbolo di orgoglio per una città altrimenti dimenticata dell’interno del Portogallo.

La decapitazione di Salazar, in altre parole, contribuì alla nebbia nostalgica che iniziò a diffondersi in un Portogallo sull’orlo della guerra civile. Nel novembre 1975, la Rivoluzione dei Garofani, con i suoi programmi sociali e il suo approccio di democrazia diretta, fu a sua volta decapitata da un contro-golpe militare. La mossa fu sostenuta dagli Stati uniti e da vari paesi dell’Europa occidentale, preoccupati dalla possibilità che il Portogallo continuasse a percorrere la strada verso il socialismo, allontanandosi sempre più dalla Nato e dal capitalismo.

In Portogallo non è mai stato attuato il socialismo, grazie al contro-golpe del novembre 1975 e al successivo sistema diretto, in tandem, dai principali partiti di centro-sinistra e centro-destra. Al contrario, è stata eretta una nuova testa sul corpo di pietra mutilato di Salazar. Nel 1978 ebbe luogo una «cerimonia di intestazione» che garantì a Salazar un posto nel moderno Portogallo liberaldemocratico. Santa Comba Dão era già diventata un’oscura destinazione turistica per coloro che volevano dare un’occhiata al torso del dittatore caduto. Altri arrivavano per rendere omaggio all’ultimo uomo forte del Portogallo.

Nel 2010 la statua di Salazar è stata finalmente rimossa, con grande disappunto di molti abitanti. La proprietaria di un negozio, María, ricorda la sua infanzia a Lourenço Marques. Come rimpatriata, parla della sua «patria africana» e si aggrappa al vocabolario imperiale del Portogallo. Maputo, come viene chiamata Lourenço Marques dall’indipendenza del Mozambico nel 1975, è «un’altra cosa».

«Nelle province le cose funzionavano, la gente era felice e lavorava sodo», mi dice María. La signora respinge come se fosse una calunnia qualsiasi obiezione all’uso palese del lavoro forzato e del debito da parte del Portogallo nelle sue colonie africane. «È una verità semplificata: non è bianco o nero, ci sono zone grigie», insiste.

Un’immagine retrograda

Chega incarna – e alimenta essa stessa – questa nostalgia postcoloniale, che non solo è entrata nel discorso politico ma ha acquisito una reale influenza. Lo sviluppo ha profonde radici strutturali, «tracciate attraverso la lunga storia del paese che ha abitato una posizione periferica sia rispetto all’Europa sia rispetto al moderno sistema capitalistico», scrivono Peralta e Lars Jensen.

I possedimenti coloniali del Portogallo, aggiungono, hanno compensato la debolezza economica e politica del paese all’interno dell’Europa. La rivoluzione del 1974 ha portato la democrazia alla popolazione portoghese, ma al prezzo dell’indipendenza finanziaria, dato che il paese più a occidente d’Europa ha dovuto fare affidamento su potenti forze economiche come la Germania e la Francia. Quest’anno segna un decennio dall’uscita del Portogallo dal programma di salvataggio, ma le cicatrici sociali della politica di austerità avviata dalla Troika hanno più che altro aumentato il desiderio generale di una narrazione nazionale in cui il Portogallo è una nazione forte, orgogliosa e influente. Questi concetti offrono una via di fuga da una realtà segnata dall’aumento della povertà, dall’aumento del costo della vita e dalla persistente disoccupazione giovanile.

La statua di Salazar a Santa Comba Dão è ormai scomparsa da tempo, sostituita da una fontana commemorativa di un impero portoghese perduto. Lo spirito del dittatore è rimasto, anche se a lungo solo a porte chiuse, menzionato intorno ai tavoli delle cucine. Ora il neo-salazarismo è visibile non solo nella forma, nel discorso e nel programma politico di Chega, ma anche nella politica ufficiale della sua città natale. Santa Comba Dão vuole oggi affermarsi come luogo di pellegrinaggio per coloro che piangono l’ultimo uomo forte del Portogallo.

Sia il leader del Chega che i critici dell’Estado Novo di Salazar possono concordare sul fatto che per quattro decenni il Portogallo è stato chiuso in un progetto politico che ha fermato il corso del tempo e ha cementato una società basata sul patriarcato, sulla chiesa e sul linguaggio della forza. Ma quando un movimento come Chega apre la porta alla nostalgia di questo passato, riscrivendo la storia, rischia di aprire le porte a un futuro fuori controllo.

In un’intervista al settimanale portoghese Sabado, lo scrittore Joaquim Vieira mette in guardia dalla nostalgia senza esperienza personale, una nostalgia in cui si perde tutto il contesto storico. «Una cosa è scrivere una narrazione di ciò che è stato il regime e un’altra cosa è aver vissuto durante il periodo del regime – conclude Vieira – perché nessuna narrazione, per quanto fedele, realistica e autentica possa essere, può sostituire l’esperienza di ciò che il salazarismo è stato realmente».

*Klas Lundström è un giornalista investigativo e scrittore, vive a Stoccolma. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. 

Sorgente: I portoghesi che non hanno mai accettato la rivoluzione – Jacobin Italia