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Khaled Al-Qaisi è per adesso fuori dal carcere, ma il suo arresto senza capi d’accusa rivela l’oppressione che vivono ogni giorno i palestinesi. Un reportage

Carolina S. Pedrazzi *

È metà pomeriggio e dal suo pianerottolo Zuleikha ascolta il richiamo alla preghiera dalla Moschea Ibrahim, situata a pochi passi da casa sua. La donna, dagli occhi lucidi e trafiggenti, ha sessant’anni e abita ad Al-Khalil da tutta la sua vita. La casa in cui vive si trova nel centro storico della città ed è parte di un complesso di costruzioni risalenti al periodo Mamelucco. Alle 18:30, camminando per le vie che portano a casa sua, l’impressione è quella di addentrarsi in una città fantasma dove la propria presenza crea un contrasto dirompente rispetto al silenzio e al vuoto che vige nelle strade. Il fatto è piuttosto sorprendente dal momento che tutti i palestinesi di Al-Khalil che hanno più di trent’anni, raccontano che questo quartiere era un tempo il fulcro della vita commerciale della città. Ora, racconta Zuleikha, una passeggiata qui è sinonimo di rischio, data l’alta probabilità per i palestinesi di essere molestati e attaccati dai soldati dell’Idf (Israeli Defense Forces. Chiamate dai Palestinesi Iof: Israeli Occupation Forces) che pattugliano la zona giorno e notte. Infatti, bastano pochi minuti lungo queste strade pregne di Storia e di storie, per rendersi conto dell’ingiustizia che vi governa: camminando, ci si imbatte inaspettatamente di fronte a basi militari e a checkpoint dell’esercito israeliano che filtrano e impediscono il libero passaggio ai palestinesi le cui famiglie abitano qui da secoli.

Al-Khalil (Hebron), Palestina, Luglio 2023

Al-Khalil è un caso-studio importante per capire il sistema di Apartheid presente in Palestina, di recente definito tale persino dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo in un’intervista all’Associated Press. Gli insediamenti dei coloni israeliani sono in continua espansione, portando via pezzi di terra alle popolazioni locali. La maggior parte delle colonie si trovano in zone leggermente distaccate dai principali agglomerati urbani e/o villaggi palestinesi. Al-Khalil, invece, ha una particolarità: qui, gli insediamenti dei coloni israeliani si trovano sia intorno, sia nel cuore della città. Così, il sistema di divisione etnica del territorio presente in tutta la Cisgiordania è riprodotto in piccola scala all’interno di uno spazio urbano ristretto dove il trattamento differenziale dei cittadini palestinesi rispetto a quelli israeliani è ancora più visibile – ed inquietante.

Dopo numerosi anni di attentati da parte dei coloni ad Al-Khalil diretti alla popolazione indigena palestinese, nel 1997, come parte degli Accordi di Oslo, la città venne divisa in due zone. Queste zone sono chiamate H1, l’80% del territorio, gestito dalle Autorità Palestinesi, in cui vivono solo palestinesi; H2, 20% del territorio (di cui la maggior parte è il centro storico), gestito interamente dall’esercito israeliano, dove i coloni israeliani risiedono in case confiscate a generazioni di palestinesi. Nonostante i militari israeliani siano qui dislocati per fare da mediatori e per impedire gli attacchi da parte dei coloni, di fatto, la loro presenza è uno scudo che garantisce impunità e protezione ai coloni quando tormentano con violenza la popolazione locale. Con 22 checkpoint solo sul territorio municipale di Al-Khalil, la presenza militare è sentita ovunque, poiché regola e ostacola la vita anche negli aspetti più banali del quotidiano: per esempio, per fare degli spostamenti che senza checkpoint impiegherebbero cinque minuti a piedi, servono invece decine di minuti in macchina, dato l’obbligo di aggirare tutte le aree colonizzate. Inoltre, dal 1997 a oggi, milleottocento attività commerciali palestinesi che si trovavano nel centro di Al-Khalil sono state costrette a chiudere, e oltre mille case palestinesi nella H2 sono rimaste disabitate perché occupate o rese inaccessibili.

Zuleikha vive in una delle poche case del centro vicine alla H2 che non sono state confiscate. Tuttavia, pur avendo una casa, Zuleikha non ha una porta d’ingresso. Piuttosto, quello che prima ho indicato come il suo pianerottolo è il retrobottega del suo vicino, trasformato nell’unico punto di accesso al suo appartamento. Un giorno, durante la Seconda Intifada all’inizio di questo millennio, Zuleikha si trovò non solo la porta di casa permanentemente sbarrata, ma anche l’intera via dove abitava resa improvvisamente inaccessibile, per lei e per tutti i suoi vicini palestinesi. Shuhada Street (la via dei Martiri), fu la prima di tante zone all’interno del centro di Al-Khalil che vennero invase e sequestrate dall’esercito israeliano.

Zuleikha ha fatto la maestra d’inglese fino alla pensione, quando poi ha deciso di aprire un centro di supporto per donne e bambini. Qui, tra le tante cose, insegna l’amore e il rispetto per la propria terra – pratiche che lei esercita quotidianamente nel semplice fatto di non abbandonare la sua proprietà. Per quanto resa scomoda e al limite del vivibile dall’occupazione militare, Zuleikha insiste che questa è e rimarrà casa sua. Pur di non lasciare la propria terra, le proprie radici, insomma, il proprio diritto di esistere, Zuleikha continua a vivere nel suo appartamento in cui non entra luce: quasi tutte le sue finestre tranne quella che ora è la porta d’ingresso, davano su Shuhada Street e sono state sbarrate. Quando le viene chiesto perché sia rimasta, visto che avrebbe potuto facilmente trasferirsi altrove in una situazione meno umiliante, risponde che l’unica forma di resistenza infallibile per la sua gente, un popolo che sta venendo cancellato dalle pagine della Storia, è l’incessante dimostrazione della propria presenza. Esserci, restare, rimanere, sono tutti atti di dichiarazione d’amore per la Palestina.

Quando Zuleikha parla, non c’è traccia, né nei suoi occhi né nella sua voce, di un solo briciolo di odio o rancore. Per lei la consapevolezza di trovarsi nel versante giusto della Storia è la ricompensa sufficiente contro ogni male che lo Stato israeliano ha infierito su di lei nel corso della sua vita: dall’uccisione del padre quando aveva 5 anni, al tentativo quotidiano di farla sentire meno importante di un animale. Quando le chiedo perché abbia dovuto mettere una sorta di rete da pesca sopra il suo balconcino, mi risponde che è per evitare che le arrivino in testa le bucce di banana e le pietre che le tirano i coloni quando passano vicino a casa sua. Parimenti, i commercianti che hanno le loro botteghe nel centro storico, hanno dovuto installare delle griglie di protezione in metallo sopra le loro teste per difendersi dalle rocce e dalla spazzatura tirate dall’alto verso il basso dai coloni insediati negli appartamenti che danno sul suk.

La divisione del territorio e la legge marziale solo per alcuni 

Per comprendere a fondo come l’occupazione della Cisgiordania influenzi ogni aspetto della vita palestinese, bisogna sapere che nel territorio, vigenti gli Ordini Militari Israeliani 101 e 1651, i palestinesi – e soltanto loro – sono sempre soggetti a delle leggi marziali draconiane. Di conseguenza, mentre un colono israeliano, che invece è soggetto alla legge civile, è sempre innocente fino a prova contraria, un palestinese è sempre colpevole fino a prova d’innocenza. Uno degli esempi più comuni che testimoniano l’ineguaglianza amministrativa e legislativa in atto sul territorio, è l’uso e l’abuso delle detenzioni amministrative. Si tratta di incarcerazioni senza processo, senza dichiarazione di reato e senza un limite temporale predefinito. Tra i prigionieri, ci sono anche minorenni.

La vicenda ci tocca profondamente in questi giorni a seguito dell’arresto di Khaled Al-Qaisi. Al-Qaisi, un cittadino italo-palestinese e ricercatore alla Sapienza di Roma, è stato detenuto il 31 agosto mentre lasciava la Palestina per tornare in Italia con la famiglia. Dopo un mese di detenzione amministrativa, per la quale tuttora non è stato comunicato il presunto reato, il ricercatore è stato scarcerato. Tuttavia è costretto a rimanere a Betlemme, con il passaporto sequestrato e senza diritto di espatrio.

Tale trattamento differenziale di stampo etnico e razziale è sentito in alcune parti della Cisgiordania più che in altre. Infatti, il territorio palestinese è diviso in tre zone che differiscono nella «modalità di occupazione» cui sono soggette. Come prescritto dagli accordi di Oslo II nel 1995, la Cisgiordania sarebbe stata divisa in Aree A, B, e C. Queste differiscono rispettivamente nella capacità dell’esercito israeliano di intervenire e interferire nelle faccende civili e di sicurezza. Le aree A (le otto principali città palestinesi in Cisgiordania, in totale il 18% del territorio) sono – in teoria – interamente sotto la giurisdizione amministrativa e securitaria delle Autorità Palestinesi. Di fatto, ogni decisione presa da queste ultime deve essere mediata e approvata dagli israeliani. Tuttavia, qui esiste il divieto di costruzione per i coloni, e all’ingresso delle aree A ci sono pannelli che informano i cittadini israeliani che se decidono di accedervi, è una decisione presa a loro rischio. Ma i coloni non hanno bisogno o motivo di entrare nelle zone A, poiché occupano già gran parte delle B e tutte le C. Le aree B (il 22% della Cisgiordania) fungono da zone cuscinetto tra le A e le C dove l’amministrazione civile – la sanità pubblica, le scuole, ecc – è sotto la responsabilità delle Autorità Palestinesi, ma l’intero controllo securitario è relegato alle forze israeliane. Non a caso, qui sono situati la maggior parte dei campi rifugiati palestinesi, che subiscono irruzioni e raid settimanali, talvolta giornalieri, delle forze israeliane. Infine ci sono le aree C, il 60% del territorio: definite negli accordi di Oslo II come zone che sarebbero progressivamente state restituite alle Autorità Palestinesi, esse sono di fatto completamente controllate dall’esercito israeliano. Qui si trovano e si espandono le colonie. Più queste crescono, più terra viene rubata ai villaggi di palestinesi, i quali, essendo completamente sotto la mercé della legge militare dei soldati, sono sfrattati dalle loro case, dai loro campi, dalle loro scuole e sono forzatamente dislocati senza ricevere nè supporto dalle Autorità Palestinesi, né, chiaramente, dallo stato di Israele.

I palestinesi che vivono nelle aree C (analoghe amministrativamente alla suddetta H2 di Al-Khalil), sono quelli più vulnerabili contro gli attacchi dell’Idf e dei coloni, contro i quali non hanno alcun mezzo di opposizione. È proprio qui che il tentativo di pulizia etnica nei confronti dei palestinesi diventa più lampante.

L’umiliazione e lo sfratto

In una delle regioni più a sud della Cisgiordania, si trova un piccolo villaggio chiamato Zenouta. Qui, vicino ad Al-Khalil, il territorio (quasi tutto Area C) è semi desertico e collinare: il luogo ideale da secoli per pastori palestinesi dove portare al pascolo le loro greggi. A pochi chilometri da Zenouta, si trova il muro che divide la Palestina da Israele. Sulla strada che conduce al villaggio, è facile scorgere l’enorme e orribile costruzione in cemento che rappresenta per i palestinesi un perenne memento dell’Apartheid. Ma soprattutto, ancora più imponenti e invadenti, sono le quattro colonie israeliane (e le loro rispettive basi militari) che circondano il villaggio e che, pian piano allargandosi, stanno rimuovendo le tracce geografiche e storiche di  Zenouta.

Asef ha 75 anni ed è l’ultimo pastore rimasto nel suo villaggio. La sua famiglia viveva qui da molte generazioni, ed ha sempre dipeso da questa terra per la produzione di viveri per il proprio sostentamento e per il commercio. Ora, questo genere di vita, sta diventando per lui quasi impossibile. Quando lo incontro, mi spiega che è stanco, non sa più cosa fare, ma non vuole arrendersi. Infatti, è da più di vent’anni che Asef lotta pacificamente per salvare dall’occupazione israeliana le colline sulle quali un tempo pascolavano liberamente le sue capre. Asef non ha mai toccato un’arma nella sua vita nonostante abbia rischiato la pelle innumerevoli volte per via degli attacchi inferti dai soldati e dai coloni.

Mi racconta di una violenza subita qualche giorno prima della mia visita. Sulla collina di fronte alla quale si trovano i recinti delle sue greggi, vi è installato da anni un colono che ha costruito una tenuta illegale. Il pastore si trovava a fondovalle con le sue greggi quando improvvisamente il colono lo ha assalito con un fucile e con dei cani che hanno ucciso tre delle sue capre. Quando gli chiedo come reagiscono le forze israeliane durante questi episodi, mi guarda con un sorriso dolce mosso dall’ingenuità della mia domanda. Punta verso est, verso un’altra collina vicino alla sua che è stata inglobata dall’occupazione. Vi sorge un enorme padiglione che contrasta notevolmente con il resto del panorama. Mi spiega che quello è il Tribunale Supremo israeliano per la regione di Hebron: dove vengono portati a processo marziale i palestinesi, e dove la testimonianza degli israeliani, che li accusano, vale più della parola di cento palestinesi. Proprio in questo «tribunale» è dislocata una pattuglia di soldati dell’Idf che dovrebbe sorvegliare e mantenere la pace nella valle sottostante. Eppure, quando Asef e i suoi figli vengono tormentati e molestati dagli attacchi dei coloni, i soldati sorvegliano senza intervenire. Anzi, di solito intervengono solo una volta che i pastori cominciano a sfogare la loro rabbia verbalmente, per proteggere i coloni (armati) dalle parole dei palestinesi.

Asef e la sua famiglia ormai non abitano più a Zenouta, ma nella vicina città di Ad-Dariya. Continuare ad abitare nel loro villaggio, in cui l’unica scuola che c’era è stata ripetutamente smantellata dai bulldozer israeliani e dove non arriva più l’elettricità perchè i condotti sono stati tagliati per privilegiare le colonie, sarebbe impossibile. Tuttavia, sulla sua collina, accanto ai recinti delle capre, lui e i suoi figli hanno costruito un piccolo rifugio dove almeno un membro della famiglia deve essere sempre presente. Essendo il territorio Area C, il controllo è interamente nelle mani delle forze israeliane. Di conseguenza, qualora un colono trovasse la collina di Asef senza nessuno a farle da custode, potrebbe requisire e rubare la terra con totale «impunità».

Le recenti dichiarazioni di Itamar Ben-Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale dell’attuale governo Netanyahu, durante un talk show israeliano, rendono palese il progetto di segregazione sionista. Il Ministro, che vive nella colonia Kiryat Arba che circonda  Al-Khalil, ha ammesso: «Il mio diritto, il diritto di mia moglie e dei miei figli di circolare nella Giudea e Samaria [il termine biblico per la Cisgiordania], è più importante del diritto di circolazione degli Arabi».

«Un territorio in cui due popoli sono giudicati sotto due sistemi legali diversi, è uno stato di Apartheid» ha ammesso Tamir Pardo all’Associated Press. Ciononostante, pare che il governo israeliano stia ultimando uno degli accordi diplomatici più importanti dalla fine della Guerra fredda con l’Arabia Saudita, il quale porterebbe alla normalizzazione e al riconoscimento di Israele da parte del regno di Mbs.

Mahmoud Abbas, il capo delle Autorità Palestinesi, meglio conosciuto come Abu Mazen, ha di recente ribadito all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che il Medio Oriente non vedrà una pace completa senza la realizzazione dei pieni diritti dei palestinesi. Tuttavia, non sono in pochi i suoi concittadini che lo disprezzano per la sua complicità con il potere occupante.

*Carolina S. Pedrazzi è giornalista e fotografa freelance, si occupa di Medio Oriente. Ha studiato Scienze Politiche a Sciences Po Paris ed ora vive a Beirut.

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