0 12 minuti 1 anno
di  Filippo Kalomenìdis
4 febbraio 2022
«Verrà un giorno in cui i nostri posteri si meraviglieranno che noi ignorassimo cose tanto evidenti».
(dal libro VII delle Naturales quaestiones di Seneca)
Il fango dei campi attorno al carcere di Bancali puzza di decomposizione e merda. Non si sente l’odore delle piante di fave, dei pochi ulivi, della terra che non ha voglia di soffiare un respiro che ricordi vita. Gennaio è un mese cattivo e il sole non scalda, fa soltanto stringere gli occhi se li spingi verso la fortezza.
I militanti anarchici hanno creato uno stretto spiazzo coi passi di oltre due mesi di presidi sul lato sinistro di un enorme pozzo di morte costruito nel nulla. Lì il piede non affonda. Ci si può affrettare verso chi arriva e abbracciarlo. È durante il nostro stringerci, salutarci che un’amica di sempre mi indica con lo sguardo un falco che taglia il cielo deserto. Unica irruzione vitale in un luogo schiacciato da mura gigantesche che circondano un cimitero di vivi.
Alfredo Cospito. Novantuno sepolti nel 41 bis. Circa quattrocento tumulati nella discarica sociale di comuni, stranieri, tossicodipendenti e psichiatrici, marchiati con un aggettivo – media, alta – e un numero che quantifica il livello di ‘sicurezza’ per loro necessaria.
Come molte galere, quella di Bancali ha il nome di una guardia uccisa – da dei reclusi, quasi ottant’anni fa, l’Italia era ancora un regno unto di colonialismo e nazifascismo – a proclamare il monito dello stato, mai eludibile, perpetuo: «Fuori di qui, siate sudditi rispettosi e serrate da voi il recinto che vi è concesso. Qui dentro, siate bestie obbedienti che reclamano la chiusura della cella che vi è data. Solo così non conoscerete oltre qualsiasi limite la nostra impersonale, burocratica violenza». Brutalità che intreccia le radici con l’avidità dei predatori del profitto. Letteralmente. Le fosse di cemento per viventi del 41 bis di Bancali sono state scolpite accanto al latifondo di una grande proprietaria terriera.
La mattina dopo il presidio del 29 gennaio, prima di uscire di casa, sto per togliere quel fango secco dalle scarpe. Ci rinuncio. Per lasciarmi addosso il ricordo di ragazze e ragazzi, donne e uomini che tutte le domeniche hanno portato con generosità inaudita la voce di tanti vicino ad Alfredo Cospito, alle prigioniere, ai prigionieri. E per non scordare, se ce ne fosse bisogno, che pozzanghere marce si estendono invisibili anche nelle nostre strade. Nel carcere, nel grande internamento di questo tempo.
Tempo di schiavismo, servitù volontaria, pene da scontare in solitudine nelle gabbie dello sfruttamento. Tempo che non ha occhi, orecchie, voce per comprendere la forza decidente di un uomo che fa uso della propria vita per sé e per gli altri.
Fare uso della propria vita per gli altri, oggi, è un’azione incomprensibile per la maggior parte delle persone che la incontrano.
Nell’Italia falsamente pacificata e perennemente in guerra con gli ultimi, la lotta dai sotterranei del 41 bis di Alfredo Cospito esprime innanzitutto la ridiscussione dell’odierna concezione di vita, ovvero esistenza ridotta a sopravvivenza, a dipendenza espropriata di tutto ciò che è umano.
La scelta estrema di Cospito non parla esclusivamente delle galere e dei luoghi di supplizio convenzionali, riconoscibili, delle eterne prigionie politiche, sociali, e amministrative di questo Paese, ma si rivolge ai cosiddetti ‘liberi’ nel loro sottovivere, servire e accettare l’inaccettabile, negli ergastula in cui ci si trascina gli uni incatenati agli altri, «proprietà vivente» di pochi, per dirla con Mommsen, senza contatto con la bellezza e senza una finalità superiore che non sia imposta dal capitalismo definitivo.
Se la vita non è più definibile tale, se la vita non è nemmeno nuda perché non ha un corpo da spogliare, è priva di tracce di sacralità. Allora va scagliata, come strumento offensivo, contro coloro che ci dominano e sottomettono. Fino a perderla, se necessario.
«La morte non giunge solo quando un cuore smette di battere. Perché aspettare è morte, il tedio è morte, la disperazione è morte, e anche l’attesa di un futuro sconosciuto è morte», ci ha insegnato lo scrittore Ghassan Kanafani. E molti giovani palestinesi lo hanno appreso e lo affermano nei loro atti di resistenza. Come Khairi Alqam, il 27 gennaio scorso a Gerusalemme.
***
«Le catastrofi provano fino a quali profondità uomini e popoli sono radicati nel terreno originario».
(da Trattato del ribelle di Ernst Junger)
Nell’abbracciare un destino ferale, la lotta di Cospito ci pone di fronte un orizzonte nuovo di reazione alla repressione preventiva dei movimenti, praticata in Italia da decenni. Un modo differente di opporsi alla catastrofe dei divergenti e dei sovversivi perseguitati.
A chiunque abbia capacità di discernere è evidente dallo scorso novembre che in questa stagione storica non sussiste alcun margine per una revoca del 41 bis da parte degli appartati repressivi e ideologici di stato.
Quindi Cospito non sta negoziando una soluzione individuale, dal momento che non può avere forma alcuna risposta – se non il trasferimento a Milano, sempre in regime di tortura – da parte di chi detiene le leve del potere.
Qui sta lo scandalo del suo agire senza speranza, incomprensibile anche per buona parte delle persone che si oppongono alla disumanizzazione della nostra era.
Quella di Cospito è un’àskesis (ἄσκησις) risolutiva. Non è solo rinuncia, sacrificio, ma conquista di sé, capacità di rendere voce il silenzio imposto. Non è preparazione allo scontro per ottenere qualcosa dall’oppressore (che tanto non verrà mai elargito, come già spiegato). È spontaneo combattimento che recupera la capacità di decidere per sé e grida l’inammissibile: nella repubblica italiana esiste da 75 anni la pena capitale. Nelle carceri e fuori dalle carceri. Ed è un invito, consapevole o meno poco importa, a forme di sovversione inedite che si sottraggano all’infinita morte per ritrovare l’essenza della vita mettendola in gioco.
Perciò è errata l’interpretazione storicistica della sua lotta sul solco degli eroici scioperi della fame sino alla morte dei combattenti della RAF e dell’IRA, condotti nel terreno smosso e smuovibile di un’epoca insurrezionale dove erano presenti estesi collettivi di prigionieri e organizzazioni rivoluzionarie armate, dove le masse volevano incidere e sapevano incidere perché si erano reimpossessate delle loro vite, autentiche vite.
Il quotidiano rifiuto di Cospito di un’esistenza seviziata non raduna come in quei casi la rabbia e le aspirazioni consolidate di un popolo e di una generazione (gli anarchici sono la parte più attiva dell’antagonismo attuale, non certo quella maggioritaria) ma è volto a originare un piccolo popolo di varia età e diversa esperienza che ha come centrale bisogno il rigetto di questa vita. Dire come Wu Ming «vogliamo che Alfredo viva» significa non aver colto che Cospito non vuole vivere come prima istanza. Vuole decidere. Cosa che ai reclusi e agli schiavi del totalitarismo liberale è vietata.
Altrettanto cieca è l’interpretazione in punto di diritto, a meno che non venga compiuta dai legali del prigioniero che si adoperano nella battaglia legale. Adriano Sofri e i suoi accoliti si concentrano sulla sproporzione della pena e dello strazio inflitto. E cadono come al solito nella trappola dell’innocentismo. È un’anomalia in Italia che il potere giudiziario in ermellino si abbatta su un detenuto, su un ultimo al di là di qualunque misura? La barbarie non è forse sempre stata la norma? Di che si stupiscono ancora? Cambierebbe la predisposizione a difenderlo, a farne un simbolo, se avesse colpito a morte i suoi nemici? Le specificazioni di Sofri in nome di un umanitarismo necrotico non credo interessino a Cospito, agli anarchici, e a coloro che ogni giorno lo sostengono sinceramente nelle strade.
Alla cecità si aggiunge la follia di progressisti e campioni dei diritti dell’uomo per mestiere o per opportunismo. Si sentono in dovere di precisare che non è un mafioso, per lui e soltanto per lui occorre un’eccezione, e si lanciano in implorazioni per salvarlo a costo di sottoporlo a trattamenti sanitari forzati. Un modo atroce di violentare il suo pensiero e non sentirsi responsabili di una morte immediata. Per differirla nei mesi, negli anni, nell’ergastolo. Lontano dagli occhi, lontano dalla carne e quel che resta della coscienza.
Spontaneo, inaspettato l’atto storico di Cospito raccoglie e sprigiona la scelta di 84 detenuti nel 2022 di non vivere miseramente e suicidarsi, trova l’ascolto di chi è stato attanagliato dalla segregazione pandemica, tenta di ripristinare una prospettiva di conflitto sociale che va oltre il confine del sopravvivere individuale, chiamando in causa soprattutto ‘noi non anarchici’.
***
«Conclusione?
Nessuna conclusione
io sono combustibile che non si consuma
e tu fuoco che permane».
(da Fuoco che permane di Samih Al-Qasim)
«Quanto più stupidi tanto più feroci. Che ve ne farete di Alfredo Cospito morto?», ci interroghiamo in molti dalla fine dell’autunno.
La macchina burocratico-statale non si pone nemmeno la questione. Non è vendicativa, è scientificamente e automaticamente volta alla cancellazione di chi esce dal sentiero stabilito e al mantenimento delle norme, del diritto del più forte, quindi di pochi privilegiati. La gestione tirannica e disumana della catastrofe pandemica lo ha chiarito persino agli individui più imbelli e servili.
Il ceto dominante, il ceto politico e il ceto militare-poliziesco sono vendicativi invece. Ne abbiamo avuto ampia testimonianza nella sempiterna criminalizzazione del movimento rivoluzionario comunista degli anni settanta, nella negazione di un conflitto civile in quel decennio, e nell’annientamento del movimento contro la globalizzazione liberista nel 2001.
Pensano tutti di avere a che fare con i soli anarchici. Lo sottolinea la strillante propaganda del governo neofascista che si affida a stracci di parole logore, miserabili. Sperano tutti forse che Cospito ceda, interrompa lo sciopero della fame e resti ‘clinicamente vivo’. Confidano magari che la sua morte e la reazione che susciterebbe facilitino pulizia e rastrellamenti negli spazi comunitari di dissidenza superstiti. In ogni caso, si sentono al sicuro.
A oggi, credo siano queste le implicite risposte assassine e demenziali che danno alla tagliente domanda.
Come possono loro cogliere la novità spontanea della lotta contro questa vita e le sue potenzialità fuori controllo?
Oltre che comprenderla, sapremo noi elaborare l’esperienza di attraversamento di Cospito? E farne la nostra esperienza di attraversamento e di riappropriazione di noi stessi?
Filippo Kalomenìdis, scrittore e docente di scrittura. Ha pubblicato La direzione è storta – Reportage lirico sul Covid 19 e i virus del potere (Homo scrivens editore, 2021), e con il Collettivo Eutopia Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno – Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi (DEA edizioni, 2022). È stato sceneggiatore per il cinema e la televisione.
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