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Venti mesi di lotta, oltre 250 mila uomini e donne in campo e una variegata composizione politico-ideologica che andava dai liberali ai comunisti. Per far rinascere il nostro Paese

Il ritorno prepotente della guerra in Europa mette in discussione il perimetro delle acquisizioni condivise. Cosa significa parlare oggi di Resistenza? Come suona il richiamo al 25 aprile 1945 quale momento di liberazione dal nazifascismo, premessa per la costruzione del lungo dopoguerra della Repubblica?

Ogni proposta di riflessione viene schiacciata nella dimensione di un presente invasivo e dominante: la violenza al centro della storia, la legge del più forte chiave di lettura prevalente di un tempo nuovo. Persino le parole rischiano di perdere significato calpestate dalle ragioni contrapposte di eserciti, popolazioni coinvolte, osservatori interessati. Non si tratta di una novità clamorosa. Le guerre sono lo spazio di contese che si prolungano ben al di là dei perimetri riconosciuti e riconoscibili nutrendosi di false informazioni e notizie, trattative nascoste, minacce pretestuose, ipotesi non verificabili.

Ma sarebbe davvero pericoloso lasciare cadere nel vuoto il riferimento al passato, annullando possibili comparazioni come se si potesse cancellare un tracciato comune che ha segnato generazioni di europei: le ragioni di una faticosa (incompleta e incompiuta) costruzione di uno spazio di pace quale prezioso lascito generazionale. Quella storia ancorata all’uscita dal fascismo e dalla guerra totale trova nella festa della Liberazione un momento unificante, quando un paese tenta di ritrovarsi.

Un interrogativo che ci accompagna da oltre settant’anni: una data per tutti, un punto fermo irrinunciabile o, al contrario, una giornata contesa tra vincitori e vinti, un limite arbitrario imposto da chi è uscito vittorioso dalla guerra civile del 1943-45? Due opposte prospettive hanno percorso i sentieri della liberazione cercando risposte e significati. Una prima autonoma e autosufficiente costruita sulla centralità della Resistenza armata, sui suoi successi militari come certificato della partecipazione di una comunità alla fase decisiva del conflitto mondiale; la seconda affidata all’immagine di una nazione allo sbando, in balia di eserciti stranieri, beneficiaria quasi inconsapevolmente, del successo della controffensiva lanciata dagli Alleati verso il cuore della Germania nazista.

Uno scontro di visioni in lotta tra loro, contrapposte con reciproca faziosità: le basi del mito della Resistenza o la sua demolizione sistematica; esaltazione acritica da un lato, rimozione o marginalità dall’altro. Difficile uscire da una strettoia, liberarsi dal peso di ideologie, simboli, celebrazioni di rito. Le due prospettive non sono separabili se la comprensione del passato motiva le azioni del dopo, le analisi e i giudizi del presente: non è credibile isolare la Resistenza dal contesto della guerra, né pensabile costruire una scala di meriti e priorità tra il contributo degli italiani nella guerra di liberazione e gli esiti della campagna d’Italia, le dinamiche di presenza delle armate straniere sul territorio della penisola.

Il 25 aprile – giorno dell’insurrezione generale proclamata dal Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia nelle grandi città del Nord – viene dichiarato festa nazionale dal primo governo De Gasperi (1946) e preferito alla data della resa incondizionata della Germania (8 maggio). Un primo passo per valorizzare l’apporto della Resistenza e quindi il ruolo della nascente classe dirigente figlia di quella esperienza collettiva. Sullo sfondo il rischio di mettere in secondo piano un aspetto decisivo: il legame tra la stagione della Resistenza e la frattura epocale della seconda guerra mondiale, la sconfitta dell’ordine hitleriano come disegno di oppressione e sterminio per favorire l’ascesa dell’uomo nuovo che avrebbe abitato e dominato il pianeta.

Storicizzare la Resistenza italiana vuol dire innanzitutto collocarla in un conflitto più ampio che chiama in causa gli equilibri mondiali, i concetti di sviluppo, progresso e modernità e la stessa nozione di civiltà. Una sfida che si gioca anche fuori dai confini nazionali, oltre i campi di battaglia e i bombardamenti aerei del biennio 1943-1945. La lotta per la liberazione copre un arco temporale di venti mesi, coinvolge più di 250 mila uomini e donne. Tiene insieme la componente nazionale della sua identità (la libertà dallo straniero oppressore) con una variegata composizione politico-ideologica che va dai liberali ai comunisti e che nasce come volontà di rinascita in un Paese che aveva avuto un ruolo decisivo nell’invenzione e nella diffusione del fascismo. Sigle diverse, bandiere con gamme di colori e riferimenti, simboli tenuti insieme da una coinvolgente tensione verso il futuro.

Un fenomeno composito che la storiografia più attenta declina al plurale, antifascismi e resistenze, per sottolinearne tanto la dimensione internazionale quanto il pluralismo interno, lo spessore delle resistenze civili nelle forme più o meno consapevoli. Viene così ridimensionata la contrapposizione geografica e numerica di una Resistenza di pochi collocata al nord in un quadro in cui l’attendismo diffuso sarebbe l’elemento prevalente (la «zona grigia»). Le opzioni possibili sono plurali e non riconducibili a impostazioni manichee. Le scelte degli italiani affondano le radici nel vissuto di quei mesi, nella difesa dei renitenti alla leva, dei cittadini di religione ebraica, dei disertori e degli oppositori politici, nel protagonismo delle donne, di chi nasconde bambini o distribuisce cibo, coperte o beni di prima necessità lungo la linea del fronte, chi semina futuro e costruisce tasselli di solidarietà in quella «lotta non armata» per la sopravvivenza base preziosa di partecipazione consapevole alla democrazia che verrà.

Sorgente: 25 aprile: quando l’Italia si unì per resistere – la Repubblica

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