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Doveva essere la futura star (e candidata) democratica. Ma cola a picco nei sondaggi e si riapre il dibattito sulla ricandidatura dell’attuale presidente

Salvate il soldato Harris. Dove si è persa la brillante Kamala, la guerriera che doveva essere la vera leader nell’Amministrazione Biden, o almeno la speranza del futuro? Le aspettative attorno alla vicepresidente furono enormi all’epoca della sua nomina. Il vecchio Joe era considerato già logoro in partenza, lei doveva rappresentare tutto il nuovo, e una potente carica di energia.

Invece è stata la prima ad affondare nei sondaggi e non ha mai smesso: fa peggio dello stesso Biden. È la più impopolare degli ultimi quattro vicepresidenti. I media hanno ribaltato la narrazione su di lei, oggi ne parlano come di una incompetente (non studia i dossier), arrogante, a tratti isterica. Il sessismo abbonda nei commenti e lei se n’è lamentata con i suoi collaboratori, confidando che sarebbe stata trattata diversamente se fosse un maschio bianco. In un’intervista al New York Times, Hillary Clinton conferma: «esiste un doppio standard». Ma è un dato di fatto il fuggi fuggi dal suo staff. La Harris viene ormai paragonata a Dan Quayle, il vice di George Bush Senior leggendario per le sue gaffe; o alla «macchietta» Sarah Palin che come spalla di John McCain nella sfida contro Barack Obama fece le delizie della satira.

L’allarme per il crollo della Harris genera un dibattito prematuro sulla ricandidatura di Biden. Sembrava scontato che questo fosse un presidente da un solo mandato: avrà 82 anni alla rielezione. È vero che lui sarebbe il primo presidente a non ricandidarsi dai tempi di Lyndon Johnson, distrutto dalla guerra del Vietnam nel 1968; ma il fattore età pesa insieme con una lucidità che non è sempre al 100%. Sparito il «piano B», cioè l’opzione Kamala, oggi i notabili del partito fingono di credere all’affermazione della Casa Bianca (il vecchio Joe farà il bis). E il toto-nomine è passato al «piano C», lanciando candidati come Pete Buttigieg o Mitch Landrieu: non a caso i due gestiscono l’unico grande piano che Biden è riuscito a fare approvare al Congresso, i mille miliardi di investimenti in infrastrutture.

Quel che rimane dell’agenda di riforme ha ricevuto un colpo formidabile. Un senatore democratico moderato, Joe Manchin, ha negato il suo voto — decisivo — al Build Back Better, il maxi-piano da duemila miliardi per la transizione a zero emissioni e per costruire un Welfare «europeo». La Harris è stata interpellata da un celebre conduttore televisivo afroamericano, Charlamagne Tha God, con una domanda sferzante: «Chi governa l’America? Biden o Manchin?» La vice è andata su tutte le furie, mesi fa sarebbe stata considerata lei la vera leader in pectore dietro l’ombra di Biden. Il veto di Manchin segnala un fenomeno più ampio, con ricadute potenziali sul mondo intero: nel partito democratico è cominciata la riscossa dei centristi ed è finita l’epoca della spesa pubblica facile. L’America ha fatto scuola a tutti i Paesi occidentali, per le immense risorse pubbliche mobilitate durante la pandemia. La ripresa americana, e la rinascita dell’inflazione, portano il segno di quelle politiche keynesiane adottate con perfetta continuità da Donald Trump e Biden. Ora quel capitolo si chiude. La lotta all’inflazione diventa la priorità della banca centrale. I democratici devono riconvertire il loro messaggio. Una emorragia di voti li minaccia tra i giovani: il ticket Biden-Harris aveva promesso un perdono di debiti universitari (diecimila dollari a testa) che non potrà mantenere.

Il crollo di Kamala ha un retroscena segreto, insito nelle divisioni nel partito democratico. I media progressisti voltarono le spalle alla vicepresidente a giugno. Galeotto fu il suo viaggio nell’America centrale. Biden le aveva delegato uno dei dossier più esplosivi: la crisi migratoria, la pressione dei profughi al confine Sud. Il messaggio della Harris fu «aiutiamoli a casa loro». Usò slogan duri, «restate perché non vi accoglieremo». Fu una missione difficile ma indispensabile. La Casa Bianca aveva bisogno di contrastare il messaggio estremista della sinistra «no border», dopo che la leader radicale Alexandria Ocasio Cortez aveva preconizzato l’abolizione della polizia di frontiera. Tanto più con milioni di disoccupati e il covid ancora in agguato, liberalizzare gli ingressi sarebbe stato un suicidio politico per i democratici. Biden è la memoria storica della sinistra classica, socialdemocratica e operaista: le classi lavoratrici americane sono state protette meglio quando le frontiere erano semi-chiuse e l’immigrazione veniva governata.

Quando la Harris si è immolata per questa causa, la sinistra del suo partito l’ha vista come una traditrice. Si è dissolto l’equivoco che aveva segnato la sua nomina. Biden aveva scelto la Harris per ragioni letteralmente estetiche: donna, cinquantenne, e discendente da ben due minoranze etniche, indiana e afroamericana. Era l’esatto contrario del presidente, vecchio maschio bianco cattolico. Perciò era «rivoluzionaria» per definizione. La vera Harris non corrispondeva a quello stereotipo. Sua madre veniva dall’India, ma dalla casta privilegiata dei bramini tamil, ed era una brillante ricercatrice medica all’università di Berkeley. Il padre era giamaicano, ma un noto economista, una celebrity accademica. Come ministra della Giustizia in California la Harris aveva inflitto pene severe ai criminali, in contrasto con la filosofia delle procure progressiste. La Harris si era prestata a una finzione corteggiando Black Lives Matter, #MeToo e tutte le frange radicali della sinistra. La sua biografia si prestava a tutt’altra narrazione: la storia dei suoi genitori è l’apoteosi di un American Dream costruito da élite di immigrati iperqualificati che diventano classe dirigente e adottano le regole del gioco anglosassoni; il contrario dell’attuale ideologia politically correct. Contro Kamala si è consumata la vendetta di coloro che si sono sentiti traditi, perché non è la pasionaria su cui avevano scommesso. Forse è tardi per farla adottare da quei moderati di centro che tentano la riconquista del partito.

Mancano dieci mesi al voto nelle legislative di metà mandato. Ci vorrebbe una spettacolare inversione nel clima politico per salvare la maggioranza democratica al Congresso. In caso contrario si confermerà l’impazzimento del ciclo politico americano: gli elettori scelgono un presidente per quattro anni, ma dopo un solo biennio gli tolgono la maggioranza parlamentare e con essa ogni agibilità di governo. Lapidario questo giudizio di Matt Lewis sul Daily Beast: «Se è Kamala Harris l’ultima barriera fra noi e un secondo Trump, allora che Dio ci aiuti».

 

Federico Rampini

Sorgente: Cosa c’è dietro il crollo di Kamala Harris, negli Stati Uniti

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