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I dati del terzo studio. Il tipo B.1.1.7 rappresenta circa l’87% dei ceppi circolanti in Italia. Il virus continuerà a mutare finché rimarrà in circolazione, scrivono gli esperti. Peccato che il Consorzio per studiarne la genetica, promesso da Conte, ancora non esista. Agli epidemiologi e alle Ong preoccupano le varianti che potrebbero sfuggire ai vaccini. Se le dosi non arriveranno anche nei paesi poveri, le campagne di vaccinazione sono a rischio anche in quelli ricchi

Andrea Capocci

L’Istituto Superiore di Sanità, il ministero della salute e la Fondazione Bruno Kessler di Trento hanno pubblicato il terzo studio sulle varianti virali in circolazione in Italia. L’indagine, che ha riguardato i tamponi positivi al coronavirus notificati il 16 marzo, rivela che la variante inglese rappresenta circa l’87% dei ceppi circolanti in Italia, con un notevole margine di incertezza (64-100%). Su 1.951 sequenziamenti effettuati a livello nazionale ben 1688 appartengono al tipo B.1.1.7 (il nome scientifico della variante inglese). Solo 94 campioni sequenziati, pari al 4%, sono del ceppo “brasiliano” – nome in codice P.1. Tra le altre varianti monitorate, la B.1.525 (rilevata nel Regno Unito, in Nigeria ma anche in Italia) è presente in 13 dei tamponi controllati (0,6%) mentre quella “sudafricana” B.1.351 in soli 3 casi (0,1%). Le rimanenti 123 (6%) appartengono a ceppi diversi da quelli sotto osservazione.

SONO BASTATI pochi mesi perché la variante inglese prevalesse. Rappresentava infatti il 18% dei ceppi circolanti all’inizio di febbraio e il 54% un mese dopo, con grandi differenze territoriali. Oggi la sua diffusione è uniforme su tutto il territorio nazionale, con una prevalenza superiore all’80% in quasi tutte le regioni tranne poche eccezioni: in Umbria, Liguria e Basilicata la B.1.1.7 è presente in meno dei due terzi dei tamponi.

L’incertezza delle stime deriva dall’esiguità del campione esaminato, il 10% dei ventimila casi registrati il 16 marzo. Ma sul predominio della variante UK, più contagiosa del 37%, nessuno ha molti dubbi. Le altre varianti non sono sparite e si spostano tra una regione e l’altra. La P.1 «nell’indagine precedente era stata segnalata in Umbria, Toscana e Lazio» scrivono gli epidemiologi. «Nell’indagine del 18 marzo è stata rinvenuta anche in Emilia-Romagna; in termini assoluti appare in diminuzione in Umbria e in aumento, invece, nel Lazio». È quella che preoccupa più gli esperti. «Mentre la variante Uk è ormai ampiamente predominante – scrivono nel report – particolare attenzione va riservata alla variante P.1 anche a causa del possibile parziale immune escape». In altre parole: a differenza di quella “inglese”, la variante P.1 ha dimostrato resistenza agli anticorpi dei vaccinati in diversi test di laboratorio. Se prendesse piede potrebbe mandare all’aria il piano vaccinale.

IL VIRUS CONTINUERÀ a mutare finché rimarrà in circolazione. Per questo, scrivono i ricercatori «è necessario continuare a monitorizzare con grande attenzione, in coerenza con le raccomandazioni nazionali e internazionali e con le indicazioni ministeriali, la circolazione delle diverse varianti del virus Sars-CoV-2». Ma il «Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2» promesso già dal governo Conte, non è ancora realtà. «C’è una progettualità di massima, è stata già depositata e attendiamo di partire», dice il presidente della società italiana di virologia Arnaldo Caruso, che auspica «tempi brevi» ma rimarrà deluso: il Consorzio non è stato nemmeno costituito legalmente e non c’è traccia di un comitato direttivo né dell’organizzazione del coordinamento.

LA LOTTA ALLE VARIANTI richiederà in ogni caso una soluzione sovranazionale. «Senza una campagna di vaccinazione di massa a livello globale in tempi brevi, le varianti del Covid-19 sono destinate a prendere il sopravvento rischiando di rendere inefficaci gli attuali vaccini», sostiene un’indagine realizzata dalla Peoples Vaccine Alliance di cui fanno parte Ong come Oxfam e Emergency. Secondo i due terzi dei 77 epidemiologi interpellati dal Pva, c’è al massimo un anno di tempo per non vanificare l’efficacia dei vaccini e contenere le mutazioni del virus. Un terzo di essi ritiene che il tempo sia inferiore a 9 mesi. Ma in base alle previsioni del Pva, nei paesi a basso reddito solo il 20% della popolazione sarà vaccinato entro il 2021. Per questo le organizzazioni chiedono ai governi e alle case farmaceutiche di rinunciare ai brevetti. Secondo Sara Albiani (Oxfam) e Rossella Miccio (Emergecy) l’Italia, presidente di turno del G20, «può giocare un ruolo determinante».

Sorgente: Prevale la variante inglese, «ma la mutazione continua» | il manifesto

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