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26 April 2024
0 7 minuti 3 anni

Si presenta come un marziano, vicino alla «vita reale», lontano dalle mestizie della politica, talvolta calca troppo la mano, dice ad esempio di non conoscere (figuriamoci) la geografia interna alle correnti dem che tuttavia l’hanno appena eletto segretario del Pd all’unanimità (meno due no, e quattro astenuti). È però anche libero dalle ossessioni che hanno ammantato il Pd ultima maniera, presenta obiettivi finalmente non subalterni, la cui esattezza sembra frutto di lunga decantazione: le donne e l’ambientalismo, lo ius soli, i giovani, l’Europa – con una nettezza di cui s’era persa traccia.

E fa venire le vertigini, per come salta a piè pari gli ultimi 12-15 anni di centrosinistra, corrispondenti più o meno all’intera storia del Pd: si torni al modello Prodi, dice infatti, senza tante cerimonie. Nonostante tutti i sapienti rimpiattini, nel giorno del grande ritorno nel Pd di Enrico Letta dopo gli anni della cattività parigina, l’aria è quella del: dove eravamo rimasti? «È il tempo in cui coloro che sono stati a lungo esclusi possono diventare protagonisti», dice parlando di tutti, ma soprattutto di sé.

 

Se c’è una capacità che il neo-segretario del Pd non ha mai avuto nelle sue corde, è infatti quella della rottura. Cita, non a caso, come sintesi della sua azione politica, «l’anima e il cacciavite». Costruisce avvitando, Letta: niente martelli, men che meno rottami. Innovazioni, ma senza rompere: ecco la sua virtù, quella che lo portò a guidare il governo dopo lo spettacolare stallo istituzionale della primavera 2013; la stessa che, per scarsi esiti, aprì dopo qualche mese le porte a Renzi. «Dobbiamo avere tanto filo da tessere, essere un partito forte e nuovo», dice Letta adesso, con metafora di ascendenza demo-popolare.

Tessere e non rompere, per innovare. È quello che tenta di fare anche in questa domenica fuori dal comune, salendo sul palchetto del Nazareno, in una stanza che immaginiamo sostanzialmente vuota, al netto del banco della presidenza. Ricucire i fili di ciò in cui crede e che ha portato avanti quando ne ha avuto l’occasione. Ricordarsi da dove veniamo. Numi tutelari Beniamino Andreatta, Jacques Delors, Romano Prodi. Nessuna pretesa di nuovismo, anche dal punto di vista anagrafico. Citazione di don Primo Mazzolari e, in incipit, di Papa Francesco con l’enciclica Fratelli tutti (perfetta per il Pd, effettivamente: tutti fratelli). Un filone preciso di punti di riferimento: il solo volto di tradizione comunista è, per via dell’omonimia di battesimo, Enrico Berlinguer. Mentre il 1989 è l’anno della caduta del muro di Berlino, del Wind of change, certo non della svolta della Bolognina.

Nuova è piuttosto, dopo gli anni passati a insegnare a Parigi, l’impostazione politica che dà ai temi che ritiene centrali: i giovani, ad esempio, presentati come una piccola minoranza cui dare molto più peso. «Dobbiamo essere il partito che fa parlare i giovani, non quello che parla dei giovani», dice indicando come battaglia ideale quella dell’abbassamento dell’età del voto a 16 anni. O sulle donne, dove «l’ultimo anno è da allarme rosso» e su cui ammette: «Abbiamo un problema: e lo stesso fatto che io sia qui, e non una segretaria donna come avrebbe potuto essere il caso, lo segnala».

Che agibilità avrà nel partito per realizzare ciò che proclama? «Io sono qui per fare le cose», non «per gestire l’esistente», dice Letta dopo aver ammonito soprattutto se stesso che «non imparare dall’esperienza» è ancora peggio che «dover imparare dell’esperienza». E adesso «è tutto da riscrivere»: perché, dice, «a voi non serve un nuovo segretario, ma un nuovo Pd».

Se ci riuscirà è tutto da vedere. Proprio nel momento in cui dice che « noi non dobbiamo essere la Protezione civile della politica, cioè il partito che è costretto ad andare al potere perché se no gli altri sbandano», si avverte chiaro l’eco personale: anche Letta è un po’ la Protezione civile del Pd. E non è un buon viatico.

Di certo il segnale forte, e ben avvertito nei gangli del potere dem, è quello di una guida ferma, determinata a non farsi tirare dentro dai giochi di corrente. Eppure, è evidente il paradosso: sono stati proprio i capicorrente a chiamarlo, tutti, a partire da Nicola Zingaretti. Ed è in virtù dell’accordo tra le correnti che Letta è salito alla cima del Pd. Eletto da una unanimità che è ambigua come tutte le altre che l’hanno preceduta. E dalla cima dice: «Non va bene, abbiamo dato l’idea di una babele». Come sbroglierà questa aporia? Anche Zingaretti, si ricorda adesso, cominciò volendo superare le correnti: poi se ne creò una anche lui. E ne è rimasto comunque stritolato.

Molto più lineare, al confronto, lo sguardo sulle alleanze. Da sempre favorevole al dialogo coi Cinque stelle, Letta conferma l’impostazione, superando però la subalternità che aveva portato Zingaretti a ipotizzare di fare di Giuseppe Conte il federatore dell’alleanza coi grillini. Per Letta la leadership è del Pd che, con i suoi satelliti, dialoga con il M5S. Il modello è il più vicino possibile a quello di stampo prodiano: «Parlerò con tutti coloro che sono interessati a un dialogo: parlerò con Speranza, con Bonino, con Calenda, con Renzi, con Bonelli, Fratoianni, con tutti gli altri possibili interlocutori anche nella società». Solo dopo vengono i grillini, che – sembra alludere – allo stato sono un partito ancora più disastrato del Pd: «Questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con il Movimento 5 stelle, che sarà guidato da Giuseppe Conte, al quale va il mio saluto affettuoso», dice Letta nel giorno in cui, col suo ritorno in campo, conferma che anche per lui la politica è una bestia di cui è forse impossibile liberarsi.

Sorgente: Enrico Letta, la “protezione civile” dem che vuol tornare al modello Prodi – L’Espresso

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