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Il caso di Colleferro come altri in Italia. E le ultime parole del ragazzo ucciso come quelle di George Floyd negli Usa

di Walter Veltroni

«Vi prego, basta, non respiro più». Sono le ultime parole di Willy mentre dei ragazzi poco più grandi di lui lo stavano pestando a morte. Perché era meno forte di loro, perché aveva un colore della pelle diverso dal loro. Sono le stesse parole, proprio le stesse, di George Floyd mentre un poliziotto gli teneva il collo sotto il suo ginocchio per un numero interminabile di minuti. Due episodi molto diversi tra loro, che sarebbe sbagliato accostare, ma uniti dalle stesse parole delle vittime.

Non respiriamo più. Ci toglie il fiato un’onda di violenza e di odio che sembra impossibile da frenare. L’odio non è un virus. È una terribile malattia sociale. La storia ci ammonisce a capirne le ragioni, prima di essere travolti dallo tsunami. Nasce, in primo luogo, dalla diseguaglianza sociale, dalla insicurezza del futuro, dalla sensazione che la vita sia un rischio, persino una minaccia, e non una possibilità. L’odio sociale è figlio delle crisi economiche e porta a individuare nell’altro il pericolo per la propria serenità e stabilità. E «l’altro» è chi ti viene indicato come colui che ti sta sottraendo ricchezza, come un intruso che viene a mangiare nel tuo piatto. È il «nemico» del quale hanno bisogno le idee autoritarie che si fondano sulla negazione delle differenze.

 

Le parole sono importanti. Ed è importante selezionarle: scartarle non meno di sceglierle. Ci sono parole che determinano comportamenti, che sdoganano e legittimano veleni che la fatica, il sangue e il sacrificio del novecento avevano riposto in un cassetto. Il loro riemergere toglie il respiro. Mi ha colpito, tra i messaggi dei social citati da un bel servizio del tg di Enrico Mentana, il tweet di un essere umano che, pubblicando il volto di una donna nera, la chiamava «scimpanzè». Mi ha fatto venire alla mente un’immagine della Difesa della razza, il giornale che costruì le condizioni del consenso alle leggi razziali del fascismo. È la fotografia di un vero gorilla, pubblicata nel novembre del 1942, proprio mentre i nostri soldati, trattati come bestie dal fascismo, morivano in Russia. La didascalia dell’immagine recita: «No: le cure del parrucchiere lo lasceranno scimmione come prima. Così un ebreo non potrà mai diventare ariano, malgrado tutti i virtuosismi anagrafici». Gli ebrei furono demonizzati. Furono descritti come un pericolo sociale, economico e un attentato alla purezza della cosiddetta «razza ariana». Si cominciò con le parole dell’odio e si finì ad Auschwitz.

Se è vero che uno dei parenti degli aggressori ha detto ai giornalisti «In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un immigrato», non è difficile capire che quel pregiudizio, quell’idea che non tutte le vite umane siano uguali, è tornato tra noi, come un demone difficile da governare. Al fondo di quella vicenda – per la parte penale saranno i magistrati a chiarire – c’è in ogni caso questo substrato: il corpo di un immigrato, che venga lasciato affogare in mare o venga pestato a sangue, vale meno degli altri.

Per i segni che possiamo trarre dalle vicende di cronaca, spesso utili per decifrare il proprio tempo, il pestaggio di Willy mi ha fatto pensare a quello che significò, alla metà degli anni settanta, la notte del Circeo, quando un gruppo di giovani dell’estrema destra seviziò e uccise Rosaria Lopez e ferì, ledendole la vita, Donatella Colasanti.

L’odio corre veloce, oggi. È alimentato dall’anonimato dei social e dall’impunibilità di parole che, se pronunciate in pubblico, sarebbero inammissibili. I social sembrano una stanza chiusa, invece che una maglia di una rete. Lì tutto è possibile, per minoranze che usano le parole come randelli, come l’olio di ricino del duemila. Persino nelle reazioni all’uccisione di Willy si sono conosciuti orrori. Coloro che volevano condannare l’odio e il razzismo hanno scritto alla moglie di uno degli arrestati che aspetta un bambino dicendo: «Ti meriti di abortire», oppure «Spero che tuo figlio muoia come Willy». Si pensa ormai che l’unica forma di reazione all’odio sia altro, contrapposto, odio. È la stessa spirale degli anni settanta.

Sono minoranze. Non bisogna mai dimenticarlo, per non sbagliare. Non si deve pensare che le parole del veleno appartengano alla grande maggioranza degli italiani che invece oggi soffrono per la morte di quel ragazzo che voleva solo mettere pace, difendere un suo amico. Ed è inutile prendersela con i tatuaggi o con le palestre. Significa guardare il dito invece della luna.

Il vero problema è che esiste un profondo malessere sociale, educativo, culturale nel nostro Paese. La pandemia, precipitando l’Italia nella crisi più profonda dal dopoguerra, sta accelerando i rischi di scollamento. E personalmente temo molto, in assenza di segni di ripresa, gli effetti dei licenziamenti che arriveranno al termine della moratoria.

Sul campo rischiano di restare solamente le parole violente che giocano furbescamente con questo malessere, lo esasperano, lo indirizzano verso qualcuno. Chi, nel discorso pubblico, le usa spregiudicatamente si assume una grave responsabilità. E rischia di essere l’apprendista stregone di fenomeni che non riuscirà poi a controllare.

Non sembri un paradosso, ma un antidoto all’odio è il conflitto. Quel sano, collettivo strumento di ogni vita democratica. Quello che nel passato ha tradotto la rabbia in energia ed è stato potente strumento di cambiamento.

Una società in crisi, con una vita pubblica di marmellata, con l’indistinto che prevale sulla nettezza delle magnifiche differenze del pensiero è esposta a potenti rischi di involuzione.

L’odio può generare, con il consenso popolare, risposte autoritarie che, nel nostro tempo, possono convivere con garanzie formali. Ma Navalny, gli intellettuali turchi, il dissenso ad Hong Kong ci raccontano come, per slittamenti progressivi, la democrazia, sotto sistemi autocratici, sia destinata a consumarsi.

La morte di quel ragazzo sorridente, che voleva fare il cuoco e tifava per la Roma, che si sentiva italiano perché era italiano, richiede che si depongano i guantoni e si usi il cervello.

Colleferro, Alatri, Macerata sono Italia. Quei casi ci hanno detto qualcosa di grande e di inquietante. Ma rischia per tutti noi di valere il titolo di un film di Eduardo De Filippo tratto da «Le voci di dentro». Si chiamava «Spara forte, più forte, non capisco!». Nella commedia un personaggio, lo zio Nicola, aveva smesso di parlare per sempre perché deluso dal mondo e comunicava con gli altri in un solo modo: attraverso i «botti».

Odiatori e indifferenti stanno lastricando il nostro futuro di intolleranza, razzismo e violenza. Se vogliamo evitare che anche noi, delusi dal nostro tempo, ci si riduca ad esprimerci con «botti» violenti, dobbiamo sempre ricordare le parole che Martin Luther King, uno che ha cambiato il mondo, disse nel 1963 a Washington: «Le nostre vite iniziano a finire il giorno in cui taciamo sulle cose che contano».

Sorgente: Odio, la malattia sociale che ci lascia senza respiro – Corriere.it

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