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Dall’inchiesta emergono «rapporti privilegiati» con il Genio Civile e il tentativo di influenzarne le valutazioni

GENOVA. «Da una parte un’attività di depistaggio e inquinamento delle prove strutturato e pianificato con meticolosa precisione. Dall’altra indagati che ancora a cinque mesi dalla tragedia di ponte Morandi si lanciano in improvvisate e spericolate operazioni, ad esempio cancellando file e nascondendo dossier agli inquirenti. Senza raggiungere l’obiettivo, peraltro. «Accanto all’opera di preparazione dei dipendenti e dunque di studiato e meditato ostacolo alle indagini, vi è poi il fai-da-te dei singoli dipendenti – scrive infatti il giudice Angela Maria Nutini nell’ordinanza dei provvedimenti cautelari – Il 15 febbraio del 2019 Andrea Indovino (ingegnere addetto ai controlli di Spea), mentre è al telefono con Lucio Ferretti Torricelli, cancella i file relativi ai trasporti eccezionali». Al suo superiore, tuttavia, il tentativo sembra alquanto «maldestro»: «Tanto ti beccheranno che li hai cancellati». Una profezia che, in effetti, si avvera. Indovino è un personaggio chiave dell’inchiesta sui report sulla sicurezza dei viadotti falsificati. Subisce pressioni dai suoi capi, a loro volta sollecitati da funzionari di Autostrade, per fare passare un tir da 140 tonnellate sul viadotto genovese Pecetti, sulla A26. È preoccupato per la tenuta dell’infrastruttura: «Ma come si fa a chiedere una verifica su un manufatto ammalorato, con un transito eccezionale che lo porta al limite della resistenza? Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 agosto. Cioè, vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un c…, ma proprio eticamente».

Nascondere atti era per il giudice una «scelta metodica». L’ingegnere di Spea Marco Vezil, ad esempio, si rifiuta di consegnare materiale durante una perquisizione, dopo essersi consultato con il direttore del Tronco di Genova Stefano Marigliani: «Va bene, io quelle foto dei lavori non gliele do però, eh?». Nel corso di un’altra ispezione i manager della società provano persino a far sparire una relazione di Riccardo Morandi, progettista del viadotto, risalente al 1985. All’inizio fingono di doverla cercare, poi, una volta trovata, negano di possederla: «Non possiamo dargli tutto». Sono telefonate registrate, così i finanzieri del Primo Gruppo, andando quasi a colpo sicuro, trovano il dossier sulla scrivania del dirigente intercettato, Lucio Ferretti Torricelli. «Questa stessa filosofia – scrive ancora il giudice – porta Gianni Marrone (direttore di Tronco Aspi), a non consegnare materiale al Ministero e alla polizia giudiziaria. Uno scenario, insomma, che è tutto il contrario di quanto dichiararono Autostrade e Spea agli albori dell’indagine sul crollo del Ponte Morandi: «Forniremo massima collaborazione».

La perquisizione all’avvocato Fabio Freddi, indagato per favoreggiamento per aver gestito l’acquisto dei jammer (i dispositivi anti-cimici), e il ritrovamento nello studio legale milanese Andreano di quattro fatture da 70mila euro, hanno convinto la Procura che quella strategia sia stata decisa a un livello societario più alto. Un sospetto che deriva anche d’altra constatazione: il meccanismo dei falsi report mostra per chi indaga un funzionamento molto verticistico delle società. Soggetti anche formalmente autonomi (come Spea), avevano per gli investigatori ben poca margine di manovra, come dimostrerebbero, per il giudice Angela Maria Nutini, le «pressioni imbarazzanti» dei dirigenti Autostrade sui controllori. «Ma che sono tutti sti 50? Adesso gli riscrivete e fate Pescara a 40, ti ho detto il danno d’immagine». A parlare è Michele Donferri Mitelli, responsabile nazionale delle manutenzioni di Autostrade. Ovvero il dirigente che, dopo aver raccolto da un collega la confidenza di aver mentito nel processo sulla strage di Avellino, gli consigliava di capitalizzare il silenzio e di «stringere un accordo con il capo». Un episodio che valorizza la tesi di un patto di ferro tra alcuni dei massimi dirigenti di Aspi (gli atti sono stati trasmessi ai magistrati campani). Nell’inchiesta emerge anche lo spettro di «rapporti privilegiati» con il Genio Civile, e il tentativo di influenzarne le valutazioni attraverso l’affidamento di incarichi: «Andiamo a parlare al Genio – dice Marrone – magari se conoscono qualcuno del loro entourage che può fare il collaudatore… potrebbe essere, uso il condizionale, un’idea?».

Sorgente: Quel patto di ferro tra i dirigenti per truccare e nascondere le carte – La Stampa

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