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Dietro il balletto della crisi le grandi manovre sul successore di Mattarella e su quale Parlamento dovrà eleggerlo

di Concita De Gregorio

ROMA – Chi eleggerà il prossimo presidente della Repubblica. Questo Parlamento, se non si va a votare prima: un Parlamento a maggioranza grillina, Lega in minoranza, uscito dalle elezioni 2018. La foto inversa rispetto all’esito delle europee. Salvini può lasciare a Di Maio la posizione dominante nella scelta politica capitale per il futuro del Paese, il prossimo settennato? Nell’agenda occulta del governo gialloverde il tema è questo. Se ne parla sottotraccia da settimane, il voto europeo ha cambiato aspettative e prospettive. Le grandi manovre per l’assalto al Colle sono iniziate. Mentre nel mondo di sopra gli argomenti all’ordine del giorno sono quelli visibili, le scadenze imminenti – la legge di Bilancio, gli scontri politici fra soci di governo, le fibrillazioni, le dichiarazioni e le smentite, le consuete polemiche del giorno che durano, appunto, un giorno – nel mondo di sotto è iniziata la cabala dei conti: bisogna preparare gli eserciti.

Ripercorriamo le premesse. Se andasse a scadenza naturale di legislatura l’attuale Parlamento arriverebbe al 2023. Il settennato di Sergio Mattarella, eletto a gennaio 2015, scade nel gennaio del 2022. Sarebbe dunque questo Parlamento a scegliere il prossimo presidente. Che è figura di garanzia, cruciale sempre ma decisiva in tempi politici incerti.
La maggioranza politica rappresentata alle Camere è quella uscita dalle elezioni politiche del 2018. I rapporti fra Lega e Cinque Stelle sono grosso modo questi: Lega 17 per cento, Cinque Stelle 32. Dalle Europee, undici mesi dopo, è uscito un risultato ribaltato: Lega 34 per cento, Cinque Stelle 17. È naturale che Matteo Salvini, ora azionista di riferimento del governo, non voglia lasciare la scelta del prossimo capo dello Stato a una maggioranza (relativa, ma pesante) grillina. Deve andare al voto prima. Quando? Bisogna contare a ritroso, a partire dalla scadenza di Mattarella: gennaio 2022. Nei sei mesi che precedono la fine del mandato, il semestre bianco, il presidente non può sciogliere le Camere. Da agosto 2021 non sarà più possibile votare. A luglio non si va alle urne: in estate il rischio astensione, in assenza di una legge sul voto a distanza, è altissimo. La prima finestra utile sarebbe febbraio-giugno 2021. Adesso riprendiamo a contare in avanti dal tempo presente. Se entro le prossime settimane non si apre una crisi di governo, il voto a settembre è escluso: anche la campagna elettorale d’agosto è sconsigliabile. Da ottobre si entra in zona Finanziaria, c’è da approvare la legge di Bilancio, e siamo alla fine del 2019. Se la manovra porterà i tagli che si attendono nessuna forza politica, meno che mai la Lega, vorrà mettere a repentaglio le sue prospettive elettorali: nel “lutto” dei sacrifici economici non si vota. Salterebbe così il voto a febbraio-marzo del 2020. L’ipotesi più prossima è maggio-giugno dell’anno prossimo. Se la Lega vuole essere padrona della scelta del Presidente, dunque, deve provocare una crisi di governo, andare alle urne e cambiare la composizione del Parlamento fra l’estate del 2020 e i primi mesi del 2021.

Questo lo scenario classico, che aveva in filigrana l’ipotesi di una staffetta fra Conte e Salvini: Conte al Quirinale e Salvini al governo. Ma Conte, indicato dai Cinquestelle, dalle Europee in avanti è diventato per la Lega sempre meno affidabile. Le “riserve della Repubblica” – profili “alti”, indiscutibili, condivisibili – sono sempre di meno. Circolano nomi di più giovani leghisti in purezza.
C’è poi il piano B. Trovare un’intesa su una figura ‘terza’, per il Colle, da far votare a questo Parlamento scongiurando lo scioglimento delle Camere e il voto. All’origine della resistenza ad andare al voto c’è la nuova legge sulle pensioni dei parlamentari, che ha radicalmente modificato il sistema dei vitalizi. Oggi per aver diritto alla pensione da parlamentare bisogna essere rimasti in carica almeno 4 anni e sei mesi. I quattro anni e mezzo scattano a dicembre del 2022: troppo tardi. Se si vota prima i parlamentari in carica dovrebbero rinunciare alla pensione e “accontentarsi” della restituzione dei contributi – pro quota, dice la legge. Riavrebbero insomma indietro le somme che hanno versato, ma solo a partire dal compimento del loro 65esimo anno (60esimo se sono alla seconda legislatura). Il 64 per cento di questo Parlamento è al suo primo mandato. L’età media dei deputati è di 44 anni (52 i senatori).
Andare ad elezioni anticipate significherebbe quindi per i due terzi dei deputati avere indietro i contributi versati fra più di vent’anni. Un importante deterrente, a tutte le latitudini politiche, che spiega molto più di quanto non si pensi. Avanza in questo scenario l’ipotesi di un accordo Lega-Cinque stelle con il doppio obiettivo di restare tutti in carica fino a fine mandato, far scattare le pensioni e intanto trovare un presidente della Repubblica che non dispiaccia troppo a nessuno dei due soci. Si fa per esempio il nome della presidente del Senato Casellati, di Forza Italia – partito all’opposizione dell’attuale governo – sulla quale potrebbero confluire i voti appunto di Forza Italia a compensare gli eventuali scontenti gialloverdi, e che potrebbe persino non dispiacere, in quanto “male minore”, a qualche frangia della sinistra di centro. Gli accordi preventivi sul presidente, si sa, sono volatili e fortemente a rischio di congiure notturne. Ma la posta in palio è alta, e potrebbe valere la pena correre il rischio.

In subordine – molto concreta, oggetto di sotterranee manovre di avvicinamento – c’è la possibilità di una crisi di governo che non porti ad elezioni ma ad una nuova maggioranza. La storia repubblicana è fitta di presidenti del Consiglio non eletti, nominati. Se questo governo entrasse in crisi repentinamente, senza aver preparato con accuratezza le mosse, Sergio Mattarella potrebbe dare a uno dei leader politici attuali l’incarico di “esplorare” se in Parlamento esista una nuova maggioranza, diversa da quella gialloverde. Il pallino è in mano ai Cinque Stelle, che non hanno interesse a tornare al voto, vista l’emorragia di consensi del Movimento (ad oggi la loro rappresentanza parlamentare sarebbe dimezzata), e che potrebbero cercare nuovi alleati. Per la Lega è questo il pericolo principale: un nuovo governo che non passi dal voto, e questo Parlamento che resta in carica fino all’elezione del Capo dello Stato.
Le cordialità di Conte con il Quirinale, il nuovo profilo istituzionale del presidente del Consiglio, preoccupano molto Salvini. Al quale restano pochi giorni di giugno per decidere: o fa saltare il tavolo adesso, ma rischia un governo alternativo che non passi dal voto, o resiste e fa la legge di Bilancio con Tria, avviandosi verso il logoramento di consenso che i sacrifici economici porteranno con sé. A quel punto il gioco dell’oca del Quirinale tornerebbe al punto di partenza: tutti fermi fino all’estate del 2020, e poi –in una manciata di mesi – si faranno i giochi che determineranno il futuro del Paese fino alle soglie del 2030. Il Colle, mai come in questi giorni di veleni, è la vera posta in palio.

Sorgente: È il Quirinale la vera posta dei litigi Lega-5S | Rep

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