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“Abbiamo ucciso un crociato a Baghouz”: è passato un mese da quando l’Isis ha usato la sua macchina della propaganda per annunciare la morte di Lorenzo Orsetti in Siria.

Un messaggio macabro che è arrivato come un pugno allo stomaco, inaspettato, perché prima di quell’annuncio la guerra in Siria era un argomento quasi d’élite, di cui pochi parlavano e di cui ancor meno si interessavano.

Per non parlare di quanto esiguo fosse il numero di persone che sapevano che in quel paese del Medio Oriente martoriato da anni di guerra a combattere contro l’Isis non c’erano solo i curdi e gli arabi, ma anche ragazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo, Italia compresa.

La morte di Lorenzo però ha aperto gli occhi ad un paese intero su una realtà troppo spesso ignorata e dopo un mese il suo nome risuona ancora, più debole ma con cadenza costante.

Come una goccia che cade sempre sullo stesso punto, inesorabile, testarda, tanto da riuscire a incidere anche nel più duro dei materiali: quello delle coscienze.

Ad un mese dalla sua morte, TPI ha intervistato il padre di Lorenzo, Alessandro Orsetti.

Signor Orsetti, chi era Lorenzo?

Lorenzo era uno dei tanti giovani che sentono che tante cose non funzionano, ma che non si rassegnano a questo spegnersi di valori ed ideali. In questi giorni ne ho conosciute tante di persone che non sono contente di questa politica, da questa mancanza di comunità e di condivisione.

Lorenzo era alla ricerca di qualcosa. Lui lavorava, aveva una casa e degli amici, ma non gli bastava. Un giorno qualcuno gli ha parlato del popolo curdo e ha deciso di andare in Siria. È diventato uno di loro, si è sentito parte della loro Rivoluzione sociale: in quel momento è iniziato un nuovo capitolo della sua vita, una vita che ha messo in pericolo per i curdi.

In una lettera che i suoi amici mi hanno dato scriveva: ‘Per la libertà bisogna essere pronti a pagare’.

Era cambiato in Siria?

Aveva trovato quello che cercava nella società del Rojava, fondata sulla democrazia dal basso, in cui ci sono villaggi autogestiti, dove le decisioni vengono prese insieme coinvolgendo uomini e donne, in cui è fondamentale il rispetto della natura e che si basa su un’economia non capitalista, ma fatta di condivisione.

Per difendere questa rivoluzione Lorenzo ha deciso di unirsi alle YPG, che sono Unità di autodifesa che fanno ricorso alle armi solo per proteggere il territorio.

Lorenzo in Siria era cambiato: era pacificato e lo si vede nelle testimonianze dei suoi amici. Era molto tenero e gentile, stava bene. Aveva trovato quello che cercava.

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Come padre cosa pensa di Lorenzo?

Ci aveva già detto due-tre anni fa che voleva partire, ma eravamo riusciti a dissuaderlo. Noi, come genitori, non eravamo contenti perché sapevamo che la sua era una scelta rischiosa e per un anno e mezzo siamo stati con il fiato sospeso. Poi quando sembrava che fosse tutto più tranquillo, quando mancava poco alla fine dell’Isis è tornato a combattere perché voleva che tutto finisse.

Però condividiamo i valori di Lorenzo, siamo orgogliosi di nostro figlio perché ha fatto una scelta importante in linea con quello in cui crediamo anche noi, ossia l’internazionalismo, la lotta contro il fascismo…

In molti associano i ragazzi che hanno combattuto in Siria ai partigiani. Lei cosa ne pensa?

Secondo me è un partigiano chiunque scelga di prendere parte, di schierarsi per difendere valori e principi come quelli di democrazia, di libertà, di cura del più umile. Tutti discorsi che la nostra società fa fatica a concretizzare. Per questo a chi esalta Lorenzo dico ‘Bene allora andiamo avanti, concretizziamo queste idee e diamoci da fare’.

Lorenzo aveva anche ricevuto la tessera ad honorem della sezione Partigiani di Firenze per le nuove resistenze. L’ultima volta che ci eravamo sentiti mi aveva chiesto la foto. Non voleva riconoscimenti, ma a questo ci teneva.

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Ci sono stati tanti gesti di solidarietà, soprattutto dalla società civile.

Penso che la lotta di Lorenzo appartenga a tutti noi. Sono contento e stupito da tutta questa attenzione che c’è su di lui, penso abbia smosso qualcosa. Ci siamo resi conto che ci stavamo imbarbarendo, che individualismo e consumismo ci stavano tagliando le gambe.

Con la sua morte ha toccato qualcosa che era nel cuore di tante persone. Ci sono state tante iniziative per ricordarlo. Sono contento per Lorenzo.

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La sua morte ha portato l’attenzione anche sui ragazzi per cui è stata richiesta la sorveglianza speciale.

Questa è l’assurdità della nostra società: finché combattono l’Isis va tutto bene, però poi se ritornano sono processati. Secondo me è perché non combattono solo contro l’Isis: nell’esperimento curdo e in molti dei ragazzi che vi partecipano c’è un fermento nuovo che spaventa molti politici e le nostre Istituzioni. La gente comune ha ascoltato il messaggio di Lorenzo, ha capito cosa c’era dietro di lui a differenza del mondo politico.

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La politica quindi non ha capito Lorenzo?

Non vedo cambiamenti: i meccanismi politici ed economici rispetto alla Turchia e alla Siria sono rimasti invariati, così come continuiamo a non combattere l’Isis. Non dico con le armi, ma con la cultura e l’integrazione.

Le risposte più forti sono arrivate dalla gente comune.

Il corpo di Lorenzo quando tornerà in Italia?

Lorenzo è ancora dai curdi, non si è capito se loro aspettano che il consolato italiano lo richieda o se il consolato ha presentato richiesta e non ha ancora avuto risposta.

Ci vorranno ancora mesi. Vorremmo una tomba per chiudere il cerchio, per elaborare il lutto.

Sorgente: “Mio figlio è un partigiano”: a TPI il padre del combattente morto in Siria

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