Appare dunque naturale la discesa in campo di Paragone, perfetto esponente della politica che detesta la politica e dell’anti-casta che diventa la nuova casta. È il M5S a cercarlo. Prima ancora delle elezioni di marzo, quando nessun elettore grillino avrebbe mai immaginato un accordo con Salvini, Paragone dichiara: “Penso proprio che potrei essere l’uomo del dialogo post voto tra M5S e Lega. Per alcune battaglie, per alcuni temi, l’affinità c’è”. E così è: Paragone viene eletto senatore e il governo gialloverde prende forma.
Il pensiero di Paragone si riassume nel suo libro Noi no! – Viaggio nell’Italia ribelle, in cui scrive: “Ogni NO che si leva da nuclei sempre più estesi di società, dal NO Salvabanche, ai NO Tax, NO Euro, NO Tav, NO Vax, fino al NO all’immigrazione incontrollata, viene tacciato di arretratezza, chiusura, ignoranza, antipolitica. L’assunto è che dalla parte dei Sì ci sia un consesso di menti illuminate, onniscenti e disinteressate, e dall’altra una massa indistinta di trogloditi selvaggi, opportunisti e antiscientifici”.
A proposito di vaccini, è sempre stato in prima linea contro il Decreto Lorenzin, partecipando anche a una manifestazione no-vax a Pesaro, a fianco di nomi come Giuseppe Povia e Diego Fusaro. Sulla questione euro, invece, ha recentemente dichiarato: “È una moneta sbagliata, la soluzione sarà la creazione di due monete, un euro del Nord e un euro del Sud, o la creazione di un euro flessibile”. Le sue posizioni economiche ricalcano quelle dei leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – anche perché il M5S non ha una vera e propria posizione in merito – e quindi si riallaccia al suo passato di destra. C’è da dire che coloro che rivendicano di non essere né di destra né di sinistra solitamente sono particolarmente di destra, e in tal senso Paragone calza a pennello nella finta post-ideologia del M5S.
Paragone ha il diritto di avere qualsiasi opinione e di fare propria qualunque bandiera: se c’è un colpevole in questa vicenda non è di certo lui. È sempre stato sincero quando ha ripercorso le tappe della sua carriera, non ha mai negato di essere entrato in Rai grazie alla politica, così come non ha mai mistificato il suo passato leghista. Il problema è esclusivamente del M5S, che è passato da Rodotà a Paragone, dalle battaglie contro l’immunità parlamentare al salvataggio di Salvini, dai NO convinti ai SÌ stringendo i denti e giustificandosi con il proprio elettorato. Le ipocrisie che si possono imputare a Paragone sono invece legate alle sue frasi contro “la casta dei giornalisti”, quando si scaglia contro i fondi all’editoria dimenticando di averne usufruito in prima persona ai tempi della Padania, quando guadagnava 117mila euro lordi l’anno di soldi pubblici.
Gianluigi Paragone è la rappresentazione plastica della natura populista del M5S. Una natura che è ontologicamente ondivaga, che si nutre delle altalenanti paure e dei mutevoli desideri del popolo, ma che deve gestire con cura la virata a destra per non far scappare quei pochi “grillini di sinistra” rimasti. Il Frankenstein nato dal Vaffa-day adesso è una creatura senza identità che fa del compromesso il proprio scopo, che deve bilanciare Fico e Paragone, quello che era e quello che è, per non contorcersi su se stessa. L’avidità nel cercare un punto di contatto col Carroccio, nonché l’ingordigia di fronte alla spartizione delle poltrone, ha fatto perdere di vista al M5S la gittata del suo progetto. Se la gente deve votare un partito populista di destra, possibilmente con tendenze sovraniste, non vota la brutta copia, ma la versione originale: la Lega.