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Il ministro dell’Interno diserta il summit di Villa Borghese e va a Cernobbio. Gli argomenti sono gli stessi usati da Giorgetti con interlocutori americani

Matteo Salvini osserva da lontano gli accordi tra l’Italia e la Cina. È consapevole dei vantaggi economici per il nostro Paese, cavalcati con entusiasmo dal suo alleato Luigi Di Maio. Un entusiasmo «eccessivo» dettato dal protagonismo del ministro per lo Sviluppo economico, che ha messo la sua firma su tutti i trattati con Pechino. Per il leader del Movimento 5 Stelle è stato un momento di gloria, di grande esposizione sul piano internazionale e nei confronti del sistema industriale italiano che ha visto in primissima fila anche il premier Giuseppe Conte. Tutto in un momento in cui i 5 Stelle annaspano nei consensi e tentano disperatamente di tornare a galla per l’appuntamento elettorale delle Europee.

Ma Salvini, che questi problemi non li ha (il suo eccesso di salute politica potrebbe anzi causare l’entrata in crisi dell’esperimento gialloverde) vede arrivare un problema da Oltreoceano. Non è preoccupato delle reazioni di Francia e Germania che, insieme alla Commissione di Bruxelles, avvertono il pericolo di una fuga in avanti di Roma, di un Paese del G7, rispetto alla necessità di una risposta europea al gigante cinese. Salvini teme il contraccolpo che può venire dagli Stati Uniti, alle prese con quella che nella Lega definiscono «la più grande guerra nella storia mondiale del commercio». Una guerra per il primato economico e politico, che passa attraverso il controllo delle tecnologie avanzate, delle telecomunicazioni e del sistema 5G.

«Va bene tutto – spiega Salvini – va bene moltiplicare l’esportazione del Made in Italy, va bene sviluppare il traffico nei nostri porti, attenzione però a comprendere fino in fondo la natura dell’interlocutore quando sigliamo certi accordi. La Cina non è un libero mercato, non è una democrazia occidentale». È necessaria una parità di condizioni, ragiona il leader leghista, bisogna essere cauti quando c’è in ballo la sicurezza nazionale. «Non è una competizione ad armi pari».Salvini valuta eccessivo l’entusiasmo dettato dal protagonismo dell’altro vicepremier Salvini sottolinea tutta la sua preoccupazione dal forum di Confcommercio a Cernobbio, nelle stesse ore in cui Conte e Di Maio firmano a Villa Madama il Memorandum inviso a Washington. E il giorno dopo quella che i leghisti considerano «un’invasione di campo» del capo grillino sul terreno della sicurezza, la proposta di introdurre in Italia il modello americano della National Security Strategy.

Dagli Stati Uniti semmai il ministro dell’Interno vorrebbe importare la linea dell’amministrazione Trump e la consapevolezza che la Cina non è un «Paese con il mercato libero». Parole e concetti identici a quelli che Giancarlo Giorgetti ha espresso alcune settimane fa, durante i numerosi incontri avuti tra New York e Washington. Una torsione atlantista di cui si trova traccia nelle parole pronunciate ieri dal sottosegretario leghista quando, evocando le affermazioni del Capo dello Stato, ha detto che ci vuole reciprocità: «La Via della seta non è soltanto in una direzione».

La reazione di Di Maio è stata a dir poco piccata. Salvini parli quanto vuole, ma il ministro dello Sviluppo economico ha il dovere di guardare ai fatti «e i fatti sono la firma di accordi per 2,5 miliardi». Per il leader 5 Stelle non è il momento delle gelosie, delle ripicche, della politica da cortile italiano, ma «un giorno importantissimo in cui vince il Made in Italy, vincono le imprese italiane». Come se a Salvini non stessero a cuore le stesse cose. Ma c’è di mezzo qualcosa di più grande. I rapporti con gli Stati Uniti, che per i leghisti Di Maio sottovaluta. Il vicepremier M5S sostiene di non voler scavalcare i nostri partner Ue e ricorda con malizia: «Come qualcuno diceva America First, noi nelle relazioni commerciali diciamo Italy First». Quel qualcuno, fanno notare nel Carroccio, si chiama Donald Trump. «E non vorremmo che si arrivi a China First».

Salvini ieri ha ripetuto in pubblico quello che aveva detto Giorgetti negli Usa in consessi a porte chiuse: in quelle conversazioni i suoi interlocutori dell’Amministrazione – e non solo – hanno spiegato che una cosa è la Russia, avversario strategico ma meno pericoloso dal punto di vista militare e commerciale, e ben altra cosa è il Dragone cinese, con la sua volontà di potenza geopolitica e finanziaria. Da che parte sta l’Italia?

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Sorgente: La frenata di Matteo per rassicurare gli Usa: il M5S ignora i rischi – La Stampa

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