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Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso 420 mila posti di lavoro. Ma il difficile verrà a marzo, quando sarà tolto il blocco dei licenziamenti: si stima fra i 250/300 mila nuovi disoccupati che si aggiungeranno ai poco meno di 2,5 milioni di oggi. Tutto questo non farà che aumentare le persone che hanno diritto a sussidi. A giugno incassavano la disoccupazione (Naspi) 1,3 milioni di persone, altrettanti sono quelli in grado di lavorare che prendono il reddito di cittadinanza. A pagare sono i 23 milioni di  occupati. Una platea troppo ristretta, pari soltanto al 58,2% della popolazione attiva. E questo perché oltre ai disoccupati ci sono anche 13,5 milioni di inattivi e scoraggiati, soprattutto giovani che non cercano un posto convinti di non trovarlo.

Un quadro che rende l’Italia particolarmente vulnerabile poiché già prima della crisi la disoccupazione sfiorava il 10%. Nell’attesa che si intervenga a monte, con investimenti che creano nuovi posti, bisogna potenziare le politiche per il lavoro: l’Italia spende l’1,53% del Pil contro il 2,15 della Spagna e il 2,66 della Francia.
Occorre cioè fare incontrare chi è disoccupato con il lavoro che c’è. Troppo spesso non succede. La Euroedile srl di Treviso vorrebbe assumere operai specializzati nella costruzione di ponteggi, da due anni ne cerca una ventina ma non li trova. Aerea, vicino a Como, anche adesso in piena pandemia sta cercando giovani ingegneri ma senza successo. Nella provincia di Reggio Emilia in questo momento mancano all’appello 166 operai richiesti dalle aziende meccaniche, ma anche 84 autisti, 62 muratori, 18 ingegneri. Unioncamere ha appena reso note le richieste di impiego dei prossimi tre mesi a partire da dicembre 2020: 729.000 unità (di cui 191 mila solo a dicembre), dai dirigenti ai tecnici, dagli impiegati fino agli addetti alle pulizie. Ebbene, il 33% non si riesce a trovare.
Come funziona un portale efficiente

Il portale che doveva incrociare la domanda di lavoro con l’offerta doveva crearlo il presidente dell’Anpal Domenico Parisi, portando in italia il miracoloso software del Mississipi, lo Stato Usa dove insegnava. Non è stato fatto nulla. Sullo stesso terreno sono falliti a partire dagli anni ’90 diversi progetti, dal Sil, il sistema informativo lavoro, alla Borsa lavoro. Non è un’ambizione velleitaria,  altri Stati ce l’hanno. Se andiamo sul portale nazionale cliclavoro  non ci sono offerte da consultare. Su quello francese (pole-emploi.fr) invece ieri ce n’erano 619.605. Basta mettere la propria qualifica (venditore, badante…), la provincia in cui si cerca un impiego. Per fare qualcosa di simile a casa nostra, oltre a riunire su un unico portale le offerte dei principali motori di ricerca privati, le Regioni dovrebbero smettere di tenere per sé le banche dati, ma condividerle, e poi collaborare seriamente con l’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal).

La politica dei sussidi e incentivi

Fino a oggi le politiche del lavoro si sono fatte semplicemente dando soldi. Soldi ai disoccupati per arrivare a fine mese (si chiamano «politiche passive» e da sole fanno il 75% di tutta la spesa), oppure soldi alle imprese sotto forma di incentivi per assumere. Una strada che non risolve niente, perché non puoi erogarli per sempre, e togliere gli incentivi è come sospendere la tachipirina a chi ha l’influenza: poi la febbre ritorna. Per gli incentivi all’impiego in Italia sono Stati mobilitati 4,3 miliardi nel 2018 in Italia contro 0,8 in Germania, 0,7 in Francia e 1 in Spagna. In compenso spendiamo pochissimo in servizi per aiutare i disoccupati a trovare un altro posto di lavoro. Un passo avanti è stato fatto nel 2015 con l’introduzione del cosiddetto «assegno di ricollocazione»: una dote ai centri per l’impiego da 500 fino a 5000 euro per ogni disoccupato, a seconda della difficoltà di ciascuno a farsi assumere. Collocare chi perde il lavoro a 50 anni, per esempio, richiede più ricerca e impegno. Peccato che poi il  governo Renzi non lo abbia finanziato. Ci ha pensato il governo gialloverde con 350 milioni di euro, ma ha circoscritto l’assegno ai soli percettori del reddito di cittadinanza in grado di lavorare: 1.369.779 persone. Questo sulla carta. Perché nella pratica il servizio è stato fornito solo a 429 persone. Uno dei motivi? I centri per l’impiego non sono dotati di personale sufficiente e adeguatamente formato.

Come si aiuta chi cerca lavoro

Per fare funzionare l’assegno di ricollocazione è necessario quindi riqualificarli: oggi nei centri per l’impiego pubblici si registrano solo le pratiche. Ad aiutare chi cerca lavoro a compilare un curriculum o a metterlo in contatto con le aziende non basta la scorciatoia dei navigator, assunti a termine da Anpal servizi, e che a fine aprile 2021 saranno essi stessi senza lavoro. Servono i concorsi delle Regioni, visto che la competenza è loro. Nel lavoro di assistenza ai disoccupati è necessario coinvolgere anche  le agenzie private, studiando un sistema di compensazione proporzionato al reale lavoro svolto e favorendo il loro insediamento al Sud. Anpal dovrà coordinare la misura  con le Regioni che già la hanno introdotta: Lombardia e Veneto. E applicare la legge dove dice che se le Regioni non garantiscono i servizi di ricollocazione ai cittadini subentra lo Stato, commissariando i centri per l’impiego inadempienti. Infine lo strumento della ricollocazione deve tornare ad includere la grande platea dei disoccupati, e sarebbe ragionevole garantire questi servizi su base volontaria anche a chi è in cassa integrazione straordinaria e alle donne che vogliono tornare al lavoro dopo avere curato i figli.

Smettere di fabbricare i disoccupati di domani

Quando a un disoccupato mancano le competenze che il mercato richiede, la formazione fa la differenza. Oggi in Italia per tutta la formazione professionale
(giovani, senior, disoccupati e lavoratori) nel 2018 abbiamo speso, grazie anche ai fondi Ue, 1,9 miliardi, contro i 5,9 sia  di Francia e Germania. Se consideriamo soltanto la formazione per i disoccupati, in Italia ne facciamo poca: sul piatto circa 300 milioni di euro. La competenza è delle Regioni che decidono quali corsi bandire e quali organizzazioni accreditare. La programmazione dei corsi non è legata ai reali bisogni delle imprese, ma nella maggior parte dei casi si tratta di generiche lezioni di informatica o di inglese, dalle quali si esce con un attestato di frequenza che non serve a niente. Per cambiare verso bisogna preparare ciò che il territorio chiede: addetti delle rsa, alla produzione di beni e servizi, o autisti. Personale specializzato, insomma. Con tanto di esame e certificazione delle competenze alla fine del corso.

La programmazione sull’offerta formativa professionale è fatta dal Ministero dell’Università e dell’Istruzione insieme con le Regioni. Ma non viene costruita in considerazione della domanda di lavoro. E così molti ragazzi si diplomano in settori che «non tirano» o con conoscenze già superate. Sono i disoccupati di domani. Questo accade perché contano solo le specializzazioni che scuole e università sono in grado di offrire in questa o quella Regione. L’altra faccia della medaglia: gli Istituti tecnici superiori (Its) sfornano ogni anno meno di 4000 diplomati, mentre le imprese ne assorbirebbero almeno 20.000.  Nei prossimi anni usciranno dalla scuola  85.300 giovani con qualifiche professionali contro i 155.700 richiesti. Chi si occupa di «demografia professionale» dieci anni fa sapeva che oggi non avremmo avuto medici e infermieri a sufficienza, ma non è stato ascoltato. E ora raccogliamo i risultati.
Per investire nelle politiche per il lavoro oggi i soldi ci sono. Il governo nella legge di Bilancio ha stanziato 500 milioni di euro per le cosiddette politiche attive. Nelle intenzioni dell’esecutivo almeno altri tre miliardi in tre anni arriveranno dal Recovery Fund. Non si è ancora capito, però, come tutti questi soldi saranno spesi. Per cambiare direzione va messa in piedi una riforma dove lo Stato programma, e il territorio eroga i sussidi, sulla base di piani nazionali e regionali coordinati e mirati a trovare lavoro. Non si improvvisa, richiede due-tre anni per farla funzionare, significa avere una visione di Paese che non si fermi alla scadenza delle prossime elezioni.
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