Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso 420 mila posti di lavoro. Ma il difficile verrà a marzo, quando sarà tolto il blocco dei licenziamenti: si stima fra i 250/300 mila nuovi disoccupati che si aggiungeranno ai poco meno di 2,5 milioni di oggi. Tutto questo non farà che aumentare le persone che hanno diritto a sussidi. A giugno incassavano la disoccupazione (Naspi) 1,3 milioni di persone, altrettanti sono quelli in grado di lavorare che prendono il reddito di cittadinanza. A pagare sono i 23 milioni di occupati. Una platea troppo ristretta, pari soltanto al 58,2% della popolazione attiva. E questo perché oltre ai disoccupati ci sono anche 13,5 milioni di inattivi e scoraggiati, soprattutto giovani che non cercano un posto convinti di non trovarlo.
Come funziona un portale efficiente
Il portale che doveva incrociare la domanda di lavoro con l’offerta doveva crearlo il presidente dell’Anpal Domenico Parisi, portando in italia il miracoloso software del Mississipi, lo Stato Usa dove insegnava. Non è stato fatto nulla. Sullo stesso terreno sono falliti a partire dagli anni ’90 diversi progetti, dal Sil, il sistema informativo lavoro, alla Borsa lavoro. Non è un’ambizione velleitaria, altri Stati ce l’hanno. Se andiamo sul portale nazionale cliclavoro non ci sono offerte da consultare. Su quello francese (pole-emploi.fr) invece ieri ce n’erano 619.605. Basta mettere la propria qualifica (venditore, badante…), la provincia in cui si cerca un impiego. Per fare qualcosa di simile a casa nostra, oltre a riunire su un unico portale le offerte dei principali motori di ricerca privati, le Regioni dovrebbero smettere di tenere per sé le banche dati, ma condividerle, e poi collaborare seriamente con l’Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal).
La politica dei sussidi e incentivi
Fino a oggi le politiche del lavoro si sono fatte semplicemente dando soldi. Soldi ai disoccupati per arrivare a fine mese (si chiamano «politiche passive» e da sole fanno il 75% di tutta la spesa), oppure soldi alle imprese sotto forma di incentivi per assumere. Una strada che non risolve niente, perché non puoi erogarli per sempre, e togliere gli incentivi è come sospendere la tachipirina a chi ha l’influenza: poi la febbre ritorna. Per gli incentivi all’impiego in Italia sono Stati mobilitati 4,3 miliardi nel 2018 in Italia contro 0,8 in Germania, 0,7 in Francia e 1 in Spagna. In compenso spendiamo pochissimo in servizi per aiutare i disoccupati a trovare un altro posto di lavoro. Un passo avanti è stato fatto nel 2015 con l’introduzione del cosiddetto «assegno di ricollocazione»: una dote ai centri per l’impiego da 500 fino a 5000 euro per ogni disoccupato, a seconda della difficoltà di ciascuno a farsi assumere. Collocare chi perde il lavoro a 50 anni, per esempio, richiede più ricerca e impegno. Peccato che poi il governo Renzi non lo abbia finanziato. Ci ha pensato il governo gialloverde con 350 milioni di euro, ma ha circoscritto l’assegno ai soli percettori del reddito di cittadinanza in grado di lavorare: 1.369.779 persone. Questo sulla carta. Perché nella pratica il servizio è stato fornito solo a 429 persone. Uno dei motivi? I centri per l’impiego non sono dotati di personale sufficiente e adeguatamente formato.
Come si aiuta chi cerca lavoro
Per fare funzionare l’assegno di ricollocazione è necessario quindi riqualificarli: oggi nei centri per l’impiego pubblici si registrano solo le pratiche. Ad aiutare chi cerca lavoro a compilare un curriculum o a metterlo in contatto con le aziende non basta la scorciatoia dei navigator, assunti a termine da Anpal servizi, e che a fine aprile 2021 saranno essi stessi senza lavoro. Servono i concorsi delle Regioni, visto che la competenza è loro. Nel lavoro di assistenza ai disoccupati è necessario coinvolgere anche le agenzie private, studiando un sistema di compensazione proporzionato al reale lavoro svolto e favorendo il loro insediamento al Sud. Anpal dovrà coordinare la misura con le Regioni che già la hanno introdotta: Lombardia e Veneto. E applicare la legge dove dice che se le Regioni non garantiscono i servizi di ricollocazione ai cittadini subentra lo Stato, commissariando i centri per l’impiego inadempienti. Infine lo strumento della ricollocazione deve tornare ad includere la grande platea dei disoccupati, e sarebbe ragionevole garantire questi servizi su base volontaria anche a chi è in cassa integrazione straordinaria e alle donne che vogliono tornare al lavoro dopo avere curato i figli.
Smettere di fabbricare i disoccupati di domani
Quando a un disoccupato mancano le competenze che il mercato richiede, la formazione fa la differenza. Oggi in Italia per tutta la formazione professionale
(giovani, senior, disoccupati e lavoratori) nel 2018 abbiamo speso, grazie anche ai fondi Ue, 1,9 miliardi, contro i 5,9 sia di Francia e Germania. Se consideriamo soltanto la formazione per i disoccupati, in Italia ne facciamo poca: sul piatto circa 300 milioni di euro. La competenza è delle Regioni che decidono quali corsi bandire e quali organizzazioni accreditare. La programmazione dei corsi non è legata ai reali bisogni delle imprese, ma nella maggior parte dei casi si tratta di generiche lezioni di informatica o di inglese, dalle quali si esce con un attestato di frequenza che non serve a niente. Per cambiare verso bisogna preparare ciò che il territorio chiede: addetti delle rsa, alla produzione di beni e servizi, o autisti. Personale specializzato, insomma. Con tanto di esame e certificazione delle competenze alla fine del corso.