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I dem tengono tre Regioni su 4 e il segretario chiede correzioni all’agenda di governo. “Il rimpasto? Non è un tema”. Ma c’è chi lo vuole vicepremier

di GIOVANNA VITALE

“Sarebbero da prendere a schiaffi: se ci avessero dato retta sulle alleanze, probabilmente avremo vinto tutte le regioni eccetto il Veneto”. Alle cinque della sera Nicola Zingaretti, chiuso con Dario Franceschini e Peppe Provenzano nel disadorno studiolo al secondo piano del Nazareno, quasi non crede ai suoi occhi.

Sul pc portatile scorrono le prime proiezioni che danno Eugenio Giani stabilmente avanti a Susanna Ceccardi e Michele Emiliano in forte vantaggio su Raffaele Fitto, ben al di là di ogni rosea aspettativa, e il segretario del Pd fatica a trattenere l’entusiasmo. “Dai scendiamo in sala stampa, non c’è bisogno di aspettare le sette”, dice ai suoi, sorprendendoli tutti. Mai era accaduto che chiedesse di commentare un’elezione a esito non ancora acquisito. Ma qualcosa di grosso è successo e Zingaretti non ce la fa proprio ad aspettare.

C’è da rivendicare il trionfo del Sì al referendum, grazie al quale “si può aprire il cantiere delle riforme che il No avrebbe bloccato”, ma soprattutto esprimere “grande soddisfazione” per una tornata elettorale che pochi credevano potesse finire così. Tutte le regioni confermate salvo una, e non tanto per colpa del Pd: citofonare Cinquestelle, che l’accordo nelle Marche non l’hanno voluto. Sulla porta incrocia Andrea Orlando, un abbraccio lungo, strettissimo, che vale più di mille parole.

Giuseppe Conte non ha ancora chiamato, lo farà un’oretta più tardi, per fargli i complimenti, riconoscergli un successo che, ne è convinto, mette in sicurezza il suo governo: una telefonata “affettuosa” per tenerselo buono, ora che tutti sostengono essere proprio lui – il leader dem, dipinto per mesi come incerto, appiattito sui grillini, sempre a un passo dalle dimissioni – l’unico vero vincitore di questa partita.

“Ma guardate che quelli preoccupati eravate voi”, scherza il segretario guardando in faccia i “suoi” ministri. “Da quando Daniele (Leodori, il vicepresidente del Lazio fedelissimo di Franceschini, ndr) mi ha detto che sarebbe finita 3 a 3 io mi son messo tranquillo: negli ultimi quindici anni non ne ha sbagliata una”. E l’aruspice ha avuto ragione. Portando con sé due risultati indiscutibili: la blindatura al vertice del partito – “A questo punto le chiacchiere sul dopo Zingaretti si chiudono qui”, certifica ai microfoni del Tg1 il vice Orlando – e il rafforzamento del Pd in seno all’esecutivo.

Da adesso in poi, le carte le darà il Nazareno: “Dal Mes ai decreti Salvini, dobbiamo accelerare perché da oggi siamo di gran lunga più forti”, scandirà l’inquilino del Nazareno davanti alla piccola folla di parlamentari accorsi al quartier generale per fare festa. Anche se “quando si sta in una coalizione bisogna ottenere risultati, non dare ultimatum che servono solo per fare un titolo sui giornali”, smorzerà poi a telecamere accese.

Ma la linea è tracciata: gli equilibri nell’esecutivo sono mutati, il verdetto delle urne parla chiaro e gli alleati dovranno prenderne atto. Altrimenti si torni pure a votare: il Pd – a differenza di altri – non ha paura. “Il governo va avanti se fa le cose”, è il mantra che Zingaretti intonerà da qui in avanti. Specie ora che il pericolo è scampato, la tempesta perfetta non c’è stata e il partito ha tenuto.

Una vittoria che odora di governo, la sua. Nonostante le Marche, perdute dopo un quarto di secolo a guida centrosinistra, il pallottoliere pende dalla parte del segretario dem. Tutti gli altri leader sono usciti ammaccati: Salvini ha straperso, Renzi non è riuscito a essere determinante neppure in Toscana, Di Maio si è fatto scudo col referendum per dissimulare il crollo del M5S. E siccome in queste regionali pure Conte ha giocato a nascondino, ora tocca a Zingaretti stabilire cosa fare. “Non cadiamo nel tranello del rimpasto, se si farà lo deciderà il premier, stiamo sui temi, dobbiamo spendere bene i miliardi del Recovery”, incalza a reti unificate. Ma è solo un modo per prendere tempo.

Sa bene di essere a un bivio, il capo del Nazareno: entrare nell’esecutivo, magari coi galloni da vicepremier, per irrobustirne il profilo politico e aumentare il peso specifico del Pd, oppure continuare a restarne fuori. A rischio però di ritrovarsi esposto, come già è avvenuto, agli attacchi degli avversari esterni e interni. Quelli alla Bonaccini, per intendersi, che speravano in un passo falso per sfilargli la segreteria. Contro cui sfoderare il colpo a sorpresa, sul quale medita già da un po’: convocare subito un congresso per far venire allo scoperto eventuali sfidanti. E chiudere, almeno, la gara sulla leadership democratica. Anche se non è detto che ce ne sia bisogno.

In attesa di sciogliere il dilemma sul governo. Passare all’incasso o ascoltare le sirene contrarie di Conte e Franceschini? Di sicuro la possibilità esiste. Ma non è certo la priorità: “Ci dicevano che eravamo subalterni ai 5S, poi si vota e il Pd è il primo partito”. Un dato di realtà con cui tutti, da oggi, dovranno fare i conti.

Sorgente: Referendum: Zingaretti esulta, Pd primo partito. “Mes e decreti Salvini non ci sono più scuse” | Rep

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