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Sarraj riconquista le coste della Libia, e torna il trafficante di esseri umani

Arrestato dopo le rivelazione che lo volevano a fianco del governo di unità nazionale e scomparso forse con la mediazione dei servizi italiani, ora Dabbashi rispunta fuori

di Francesco Battistini

Maglietta nera e pantaloni mimetici, già pronti al combattimento. Alza le braccia. Si agita. Parla concitato, in un cortile sterrato, decine dei suoi che l’ascoltano. Dice che è stato lui a far incendiare la sede della polizia di Sabratha. E fa capire soprattutto una cosa: che è tornato.

Il trentenne Ahmad Dabbashi detto Al Ammu, ovvero «lo Zio», il re dei trafficanti di uomini verso l’Italia, il contrabbandiere del petrolio, l’uomo dei sequestri lampo, il criminale super-ricercato dall’Onu e dalla procura di Tripoli, sembrava sparito nel nulla da quand’era cominciata l’offensiva del generale Haftar su Tripoli. Stava in prigione, secondo fonti ufficiali: arrestato dopo le rivelazioni che l’avevano indicato tra i collaboratori segreti del governo tripolino di Fayez Al Sarraj; fatto scomparire dopo un’oscura storia di 5 milioni di dollari che gli sarebbero stati versati addirittura con mediazione dei servizi italiani, perché collaborasse a stoppare il viavai di barconi che lui stesso aveva sempre alimentato.

Mercoledì, con la controffensiva di Sarraj su Sabrata e Surran, con la liberazione di 400 pericolosi detenuti nel carcere, riecco lo Zio. Quello che vantava (e spesso millantava) rapporti con gli alti dirigenti del Viminale. Oggetto di smentite dell’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, e d’audizioni al Copasir: in un reportage dell’Associated Press, s’era raccontato che il calo degli sbarchi in Italia durante il governo Gentiloni non era dovuto solo agli accordi internazionali con Serraj, ma specialmente a un’intesa con la milizie Al Ammu e Brigata 48 che controllano da sempre Sabrata e le partenze dei barconi. Chi ha rimesso in circolazione lo Zio? Da poche ore, a Sabrata e lungo tutta la costa occidentale che va da Tripoli al confine con la Tunisia, sono tornate le truppe di Serraj. E la controffensiva «Tempesta di Pace», lanciata dal governo della capitale assieme ai turchi, ha costretto i soldati cirenaici di Haftar a una precipitosa ritirata: quella che può sembrare una buona notizia per l’Italia, nell’area che controlla le migrazioni nel Mediterraneo e dove passano le pipeline dell’Eni, ma che in parte inquieta per il ritorno sulla scena di personaggi come Al Ammu.

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E intanto in Libia: nella distrazione mondiale per la pandemia, qualcosa s’è mosso in queste settimane. La tregua offerta alle due parti, legata al lento diffondersi anche qui del virus, non è stata rispettata. Anzi. Fra reciproche accuse, Serraj e Haftar hanno alzato il livello dello scontro. L’altro giorno, nella base navale di Abu Seta, un colpo di mortaio è caduto a 250 metri dalla nave italiana da trasporto Gorgona: nessun danno, ma i nostri militari han dovuto salpare e sistemarsi in una zona più sicura, al limite delle acque territoriali libiche.

Dopo mesi di difficoltà, per la prima volta dal 4 aprile 2019 e dall’inizio dell’assedio di Tripoli, l’esercito Gna di Serraj sta riconquistando terreno e le forze Lna di Haftar ammettono la provvisoria sconfitta sul fronte occidentale fino alla frontiera tunisina: si sono ritirate verso una base militare, Al Watiya, hanno perso quadri di comando e soffrono i colpi dei droni turchi mandati a gennaio da Erdogan in sostegno di Serraj. Non solo: a sud della capitale, si combatte pesante e a fare la differenza sono i siriani filoturchi, pure quelli inviati da Ankara. Sul campo di battaglia si segnalano tipini come Mohammed Aidan, miliziano di Al Nusra finito in mano agli uomini di Haftar, e vecchie conoscenze jihadiste come Faraj Shaku, che a Bengasi comandava le squadre islamiche. Secondo la Bild tedesca, a mille dollari al mese (50mila alle famiglie, in caso d’uccisione), sono spuntati anche nuovi mercenari arrivati dalla Siria e dall’Iraq, ingaggiati dai russi del gruppo Prc Wagner.

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La guerra si sta incarognendo. Serraj combatte su tre fronti – ovest e sud di Tripoli, oltre che Misurata – e ha fretta di chiudere prima dell’inizio del Ramadan, il 24 aprile: ha già imposto dieci giorni di lockdown per il virus, anticipando una specie di coprifuoco. L’Onu è incapace di trovare perfino il nuovo inviato speciale al posto di Ghassam Salamé – gli Usa e i Paesi africani non vogliono la nomina d’un algerino, come proposto – e denuncia atrocità varie dell’aviazione di Haftar che colpisce pure i bambini, oltre che delle truppe di Serraj: «Profanazione di corpi, saccheggi, rapine, incendi di proprietà private». Per una settimana, due milioni di tripolini sono rimasti senz’acqua: a chiudere i rubinetti, una tribù che rivendicava il rilascio del figlio d’un suo capoclan. Sono ricominciate le fughe via mare: Malta s’è rifiutata di soccorrere un gommone con 55 persone, denunciano le ong, e dodici sono morte di sete o annegate. «E’ la fine che fanno le vite di serie B ai tempi del Covid», ha scritto Sea Watch Italy. Vite che non sarà certo il ritorno dello Zio, a salvare.

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