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Le nuove parole del presunto cambiamento, sovranismo e populismo, hanno dominato per un anno il discorso pubblico

di Ezio Mauro

Esiste un sentimento comune della Repubblica? E su che cosa si fonda oggi, dopo più di settant’anni di vita repubblicana? Le nuove parole del presunto cambiamento – sovranismo, populismo – hanno dominato per un anno intero il discorso pubblico, promettendo una svolta non solo politica ma culturale, una sorta di teoria generale dell’antipolitica: rovesciando Machiavelli nel suo Paese, per far giustificare i fini dai mezzi, con il peso dei voti, la forza del consenso e l’istinto di destra utilizzati per far piazza pulita di ogni eredità del passato, impiantando un nuovo ordine rivoluzionario in Italia e in Europa.

Soltanto che la teoria non ha retto alla prova dei fatti, non si è mai tradotta in una cultura di governo capace di dare un’anima condivisa e un orizzonte comune all’esecutivo che arranca con un’economia boccheggiante, mentre l’Europa si è difesa con il voto dei cittadini (potremmo dire dei popoli) dal tentativo della nuova destra di deformarla, naturalmente in nome del popolo.

Resta dunque sul terreno sfortunato del nostro Paese (terra di tentazioni, più che di innovazioni) l’elemento più pericoloso perché imprevedibile: un consenso senza politica, una politica senza dottrina, una dottrina chiusa in se stessa come l’ultima ideologia. Dunque una forza cieca, potente ma tecnicamente ottusa perché non sa dove andare e dove portare il Paese, e quindi fatalmente preda delle tensioni interne che la dilaniano paralizzandola, come avviene in ogni sistema bloccato.

Lo spirito alieno che unisce a destra leghisti e grillini e li ha portati a scegliersi, nell’illusione rivoluzionaria, rende il governo neutro rispetto alla Costituzione (il richiamo dell’articolo 2 alla solidarietà è ignorato quasi programmaticamente, fino a rovesciarsi nel suo contrario), sordo alla tradizione repubblicana dell’antifascismo, che pure è la fonte di legittimazione della libertà democratica riconquistata, ed estraneo alle istituzioni, concepite come postazioni da occupare più che come articolazioni dello Stato da guidare.

L’ambiguità in politica estera – con lo spettacolo miserabile di un Paese occidentale che flirta con Putin, Erdogan e Orbán, e sceglie l’antieuropeismo di Trump come bussola contronatura – determina l’azzeramento del peso e del ruolo dell’Italia, e il suo isolamento. Un inedito nullismo internazionale, aggravato in Europa dalle alleanze preferenziali di Salvini e Di Maio con partner venuti dal buio del continente, espressione di quell’ultradestra che è l’ultima insidia europea, avversaria dei valori liberali e democratici dei nostri Stati.

Così si spiega l’allarme di Mattarella, nell’occasione del 2 giugno: chi alimenta i conflitti, fomenta scontri, cerca continuamente un nemico, limita il pluralismo, crea contrasti “dissennati” tra le identità, agisce in realtà contro la libertà e la democrazia, mettendole in pericolo.

In un momento in cui la crisi economica cancella la speranza di futuro per troppe famiglie, il presidente chiede invece di puntare sulla solidarietà e sull’inclusione, sulla difesa del welfare e delle reti di protezione sociale attive sul territorio, sulle energie del volontariato e dell’associazionismo, sul dialogo. Cioè semplicemente sulla tradizione dimenticata e scartata della civiltà italiana, che negli anni e nel passaggio delle generazioni ha saputo unire la tutela degli interessi particolari legittimi con il senso generale di responsabilità nei confronti degli altri, di tutti gli altri. Anche questa tradizione fa parte del sentimento della Repubblica.

Il Capo dello Stato è la Costituzione che parla. Nei momenti di regolarità istituzionale, di tranquillità democratica, la festa della Repubblica può diventare l’occasione per un ricordo storico e politico, la celebrazione nazionale di una data fondativa sul calendario civile condiviso del Paese. Oggi non è così, non c’è un patrimonio civico comune, la storia non scorre nella stessa direzione per tutto il Paese. Anzi oggi c’è ben poco di condiviso, con il ministro dell’Interno che manda ogni giorno i suoi “bacioni” come pizzini a chi lo critica, aizzando l’odio e il rancore nella folla indistinta e anonima dei social network, coi grillini che fanno quotidianamente l’opposizione a se stessi, cercando ancora un anno dopo l’identità smarrita dentro i saloni di palazzo Chigi.

Quello smarrimento nasce esattamente dal rifiuto della storia repubblicana, come se il divenire democratico del Paese nei settant’anni fosse tutto da buttare e la vittoria mutilata di grillini e leghisti segnasse l’ora X dell’anno zero, il tempo dell’avvento rivoluzionario. Siamo davanti al primo governo che pretende di essere fuori dalla vicenda della Repubblica, generato dalla provvidenza invece che dalla storia, o meglio dalla cronaca italiana rancorosa e impaurita.

E invece, la rivoluzione è per fortuna rimandata, e al Paese servirebbero semplicemente un governo e qualcuno capace di ricordare la miglior tradizione repubblicana, secondo cui quando un uomo politico giura da ministro nelle mani del presidente, si trasforma in uomo di Stato: se ne è capace.

Sorgente: Il sentimento smarrito della Repubblica | Rep

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