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Domenica 28 aprile la Spagna va alle urne per le elezioni generali. Il voto arriva a due anni dalle ultime politiche del 2016 e a meno di uno dalla crisi politica che ha permesso all’attuale premier, il socialista Pedro Sanchez, di scalzare l’esecutivo di centrodestra di Mariano Rajoy e formare un governo di minoranza. L’esperienza è durata poco, visto che lo scorso febbraio Sanchez ha convocato le elezioni di questa domenica dopo il tentativo (fallito) di far approvare la sua legge di bilancio per l’anno in corso. La tornata elettorale potrebbe stravolgere gli equilibri che hanno disciplinato la democrazia spagnola, a partire dall’aritmetica parlamentare: l’alternanza fra Popolari e Socialisti dovrebbe “esplodere” in un totale di cinque partiti diversi rappresentati in Parlamento, dall’estrema sinistra alla destra neo-franchista di Vox.

Lo scenario sembra ricalcare quello previsto per le Europee di maggio, quando lo storico duopolio fra Partito popolare europeo e Socialisti e democratica perderà per la prima volta la sua maggioranza aggregata di seggi nell’Eurocamera. D’altronde il voto spagnolo è l’ultimo appuntamento a incidere sul calendario della politica continentale, almeno fino alle stesse Europee. Un ragione in più per vedere nel voto di Madrid un banco di prova, o un presagio, dell’appuntamento comunitario del 23-26 maggio.

Le analogie con il voto in Europa
Il parlamento iberico povrebbe superare domenica lo storico duopolio fra Popolari e Socialisti, facendo apparire sulla scena altri tre schieramenti capaci di guadagnare una buona quota di consensi. L’esito sarebbe un Congresso frammentato fra cinque forze politiche, moltiplicando le formule per un’intesa o complicando, ancora di più, la formazione di una maggioranza. La prima delle tre new entry è Ciudadanos («I cittadini»), partito di ispirazione liberale e apparentato all’Alde nell’Europarlamento di Bruxelles. Nata in Catalogna nel 2005, la forza ha finito per sposare una retorica sempre più di destra, passando dall’ostilità al nazionalismo indipendentista della sua regione all’apertura a posizioni più conservatrici. Nel 2018 ha fatto scandalo la sua scelta di allearsi nel Consiglio della Andalusia con i Popolari e soprattutto Vox: un partito di destra radicale che ha infranto l’immunità spagnola alle forze nazionaliste esplose nel resto d’Europa, conquistando 12 seggi nel consiglio andaluso e diventando l’ago della bilancia necessario alla formazione di una maggioranza. L’istituto di ricerca Polls of Polls li proietta al 15% dei consensi. Proprio Vox è la seconda sorpresa attesa sullo scenario spagnolo. Fondato nel 2013, il partito si orienta su posizioni di destra estrema, con forti tinte nazionaliste, centraliste (in opposizione ai fenomeni indipendentisti), anti-islamiche, anti-femministe e tradizionaliste. Il suo Dna ideologico ha spinto alcuni commentatori a rievocare un parallelo con il franchismo, avvalorato dalla scelta di candidare alcuni ex vertici dell’esercito fra le sue file. Al di là dell’exploit in Andalusia, il partito potrebbe centrare il 10% dei voti. La terza forza che può influire sulle intese è ancora Podemos, anche se diluito in un’intesa più larga delle sinistre: Unidos Podemos («Uniti possiamo»), gruppo lanciato dallo stesso Iglesias e stimato dai sondaggi intorno al 13% dei consensi.

È qui che il voto spagnolo sembra sovrapporsi con quello Ue. La similitudine con le elezioni europee sta, prima di tutto, nella fine (?) della maggioranza combinata di seggi a Bruxelles per Partito popolare europeo e Socialisti e democratici. Pur non essendosi mai alleate, per ovvi motivi, le due famiglie hanno sempre costituito un blocco unitario delle forze tradizionali sugli scranni dell’Europarlamento. Nel voto di maggio 2019, per la prima volta, l’Eurocamera dovrebbe risvegliarsi con uno scenario frammentato in maniera simile a quanto si annuncia per la Spagna. L’ultimo sondaggio dell’Europarlamento attribuisce ai Popolari 180 seggi contro i 217 del 2014 e ai Socialisti 147 seggi contro i 186 del voto di cinque anni fa. Il resto della partita si gioca, sempre in analogia con la Spagna, al di fuori del binomio che ha garantito una maggioranza de facto fino a questa legislatura. I liberali dell’Alde sono dati in crescita da 68 a 76 seggi e il gruppo di ultradestra Europa delle nazioni e delle libertà (ora in via di confluenza nella nuova creatura politica di Salvini, l’Alleanza europea dei popoli e delle nazioni) da 37 a 62 seggi. Un’eventuale alleanza fra Verdi e i partiti della sinistra, riuniti nel Sinistra unitaria europea-Sinistra verde nordica, riuscirebbe a sfondare abbondantemente i 100 seggi. Daniel Gros, direttore del think tank Centre for European Policy Studies (Ceps), intravvede nel voto spagnolo diversi indizi di quanto potrebbe verificarsi a fine maggio. Il primo fra tutti è la contrapposizione fra partiti tradizionali (Popolari e Socialisti) e le forze nazionaliste o ammiccanti al nazionalismo, accomunate da un fattore: la critica all’Europa senza sposare più, almeno ufficialmente, la causa del divorzio dalla Ue. «La tendenza non è più fra partiti eurofili o euroscettici, ma fra partiti tradizionali e nazionalisti – spiega Gros – Ora i secondi non vogliono più uscire dall’Europa, ma trasformarla. Almeno a parole».

Lo spostamento a destra dei Popolari, da Madrid a Bruxelles
A proposito di nazionalismo. Un’altra affinità fra il voto spagnolo e quello europeo si gioca sulla linea politica interna di una delle stesse forze in crisi, il Partito popolare. Inteso sia come Partito popolare europeo, la grande famiglia del centrodestra europeo, sia come il Partido Popular, la principale forza del centrodestra spagnolo. Entrambi temono di subire un’emorragia di consensi a destra, magari in direzione delle forze nazionaliste che contestano gli eccessi di moderazione della famiglia politica che va dalla Cdu di Angela Merkel a Fidesz, il partito «sovranista» del primo ministro Viktor Orban.

Ed entrambi sembrano inclini a rispondere alla perdita di consensi spostando, a propria volta, il baricentro politico in un’ottica più conservatrice. Su scala Ue Manfred Weber, lo sptizenkandidat (candidato principale) del Ppe per la carica di Commissario europeo, annuncerà ad Atene un manifesto programmatico che calca la mano su alcuni temi cari alla retorica delle sigle nazionaliste: dall’implementazione di 10mila agenti di frontiere sulle coste Ue entro il 2022 (cinque anni prima rispetto all’agenda Ue) alla creazione di una «Fbi europea» per vigilare sui rischi di radicalizzazione all’interno del perimetro comunitario. Il cambio di rotta ricorda quello intrapreso, con le dovute proporzioni, dal Partido Popular dell’era Casado.

La sigla è uscita con le osse rotta da sette anni di governo, travolta da scandali giudiziari e una gestione tentennante della crisi costituzionale scoppiata con la Catalogna fra 2017 e 2018. Ora Casado, come ha notato il portale Politico, sta tentando di imprimere una «rivoluzione conservatrice» al partito, dopo la linea più centrista mantenuta dal suo predecessore Mariano Rajoy. L’intenzione è preservare un bacino di consensi che potrebbe essere corteggiato, variamente, dalla destra liberal di Ciudadanos e quella nazionalista-conservatrice di Vox. Fra le svolte alla linea del partito ci sono il testacoda sulla liberalizzazione dell’aborto (in controtendenza rispetto alla legge approvata nel 2010), tagli robusti alle imposte e il mantra sposato anche da Weber dei «maggiori controlli alla frontiera».

Sorgente: ilsole24ore.it

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