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Niente può essere più difficile che respingere tali emozioni ma va fatto e bisogna farlo dall’interno. Un giorno, uno studioso ebreo, dovrà sfidare la pressione esterna e pubblicare uno studio critico di tutti i dati statistici storici anche quelli a più alto tasso emotivo, i sei milioni di morti della sua gente, affrontando la possibilità che, per quanto terribile sia la cifra effettiva, quella riconosciuta potrebbe rivelarsi esagerata. Devono esserci uomini che dimostrino che appartenere a un popolo non equivale ad accettare l’opinione prevalente su ciò che tale appartenenza comporta.
Eric Hobsbawm, Nazionalismo, lezioni per il XXI° secolo

Confrontarsi con un libro a carattere storico-politico quale Hamas, Dalla resistenza al regime, di Paola Caridi significa affrontare le cause dei vari anatema sit e gli stereotipi che gravano su Hamas. Di Hamas, a parte la definizione di organizzazione terroristica, non parla nessuno. Basta una rapida sinossi della pubblicistica per rendersene conto. Perciò, stando così le cose, è un gran bene leggere il saggio della Caridi su Hamas per analizzare e comprendere cosa sia, in quale contesto nasca, quali strutture crei per agire, quali i motivi del suo successo popolare, quale il suo rapporto, storicamente determinato, con l’uso della violenza. Ed è un gran bene davanti ai cliché  che descrivono Hamas come  tout court un’organizzazione terroristica.
Su pochi punti del libro andremo a focalizzarci, evidenziando che tali focalizzazioni analizzano Hamas così come si è sviluppato fino al 7 ottobre 2023.
Consapevoli che la storia non si possa dividere nettamente in un prima e un dopo, e che quella data è frutto di un processo che è probabilmente ancora in corso e di cui si possono fare solo supposizioni.

La definizione di Hamas che Paola Caridi fa propria è mutuata da Tom Segev, editorialista di Haaretz, che nel 2008, all’indomani dell’inizio dell’operazione “piombo fuso” lo descrive come un movimento politico che ha fatto anche uso di terrorismo nella sua storia.
Tale definizione suggerisce di andare oltre l’immagine che in Occidente abbiamo di Hamas per immergersi in un movimento che fonda la sua esistenza non solo sull’aspetto religioso ma che è anche un movimento riformatore politico. La carta d’identità del militante di Hamas è il rifugiato, il profugo arrivato nella Striscia dopo la Nakba (la tragedia in arabo del 1948, anno in cui lo stato Israeliano, con la solita complicità degli interessi coloniali occidentali, s’insedia in Palestina)con istruzione superiore, spesso universitaria, conseguita presso le università del Medio Oriente come in quelle europee e statunitensi. Hamas è un movimento non monolitico, che ha saputo dimostrare flessibilità e pragmatismo, dentro un quadro di discussioni interne democratiche e un principio organizzativo-dialettico che è molto simile al centralismo democratico del vecchio PCI.

Hamas (Movimento di resistenza islamico, questo il significato dell’acronimo Hamas) nasce nel 1987 dentro la Prima Intifada, e del 1988 è la sua carta fondativa, la Mithaq.
Quella carta fondativa, scritta da un predicatore proveniente dai campi profughi di Gaza, che viene sempre citata, dall’ordine del discorso dominante, quale volontà di Hamas di distruggere lo Stato d’Israele, è una carta sulla quale invece Hamas non ha mai discusso al proprio interno. Un documento pieno di slogan e stereotipi i più retrivi, in cui si definisce la Palestina, un Waqf islamico, ovvero: “terra islamica affidata alle generazioni di musulmani sino al giorno del giudizio […] nessuno può rinunciare a tutto o persino a una parte di essa”.
La Caridi su questo delicatissimo passaggio mette in evidenza come la Mithaq di Hamas, in fondo, riprendeva in chiave islamista quello che la Carta nazionale palestinese, approvata dal Consiglio nazionale palestinese dell’11 luglio 1968, diceva in chiave tutta nazionalistica: “La liberazione della Palestina, da un punto di vista arabo, è un dovere nazionale […] e mira all’eliminazione del sionismo in Palestina”. E rileva come gli elementi anti sionisti qui contenuti non furono un impedimento ai negoziati tra Olp e Israele degli Accordi di Oslo del 1993.
In realtà Hamas, accantona sostanzialmente la Carta fondativa, che per bocca di diversi suoi dirigenti viene definita “sovrastimata”, sostituendola da altri documenti molto più importanti sui quali Hamas fonda effettivamente la propria strategia politica, interpretando così in profondità lo spirito del popolo palestinese e la sua coscienza collettiva, anche aprendo, pur non riconoscendo lo Stato di Israele, alla possibilità di costruire uno stato Palestinese dentro i confini del 1967 (data delle guerra di occupazione di Israele). Il capitolo 3 ha, a questo riguardo, un titolo molto evocativo: la Carta, la Mihtaq, non è il Corano. Perciò è da sottolineare grandemente questa capacità autocritica del Movimento.

Tra questi documenti, fondamentale è il programma politico della lista “Riforma e cambiamento” con il quale Hamas si presenta alle elezioni nel 2006 (elezioni … un ossimoro, in una terra in cui autonomia e autodeterminazione non esistono, venendo scientemente impedite dai governi israeliani, ma tant’è). Il linguaggio usato è lontano sideralmente da quello contenuto nella Mithaq: “…costruire una società civile palestinese avanzata basata sul pluralismo politico, sull’alternanza del potere, …sulla separazione dei poteri … parla dei cittadini uguali di fronte alla legge…di garantire i diritti delle donne…”.
Il cuore del mandato dei deputati eletti nella lista “Riforma e cambiamento”, dirà Abu Marzuq, uno dei dirigenti di Hamas è “alleviare le condizioni debilitanti dell’occupazione e non istituire uno stato islamico”
E’ su questo programma politico, che Hamas vince le elezioni del 2006 che dalla comunità internazionale vengono definite come assolutamente democratiche, quando nessuno l’aveva previsto. Nemmeno Hamas. E’ l’eterogenesi dei fini che contraddice sul piano dello sviluppo storico dei fenomeni sociali ogni volontà di dominio. Poiché i popoli vivono come gli individui, reagiscono, costruiscono la propria memoria organizzandola materialmente e immaterialmente in realtà politiche che esso sa scegliersi e per questo è doveroso, da chi come noi, osserva dall’esterno, il più alto rispetto. Ma tutto ciò non avviene, in quanto Hamas viene inserito dall’amministrazione Clinton prima e poi dalla condiscendente Europa nella lista delle organizzazioni terroristiche.

Altro fondamentale documento è la nuova Carta, del 2017 , che arriva dopo almeno 4 anni di consultazioni interne tra le varie componenti di Hamas. E’ un punto cruciale questo perché il movimento islamista deve destrutturare lo stereotipo attraverso il quale viene identificato con la Carta del 1988. Il linguaggio, evidenzia la Caridi, è profondamente politico e contemporaneo e non lascia spazio ad interpretazioni. I riferimenti all’Islam enfatizzano la dimensione storica più che quella religiosa. La Carta definisce dal punto di vista geografico  “la Palestina quale terra che si estende dal Giordano al mare” … richiama “l’inalienabilità dei diritti del popolo palestinese su tutta la Palestina” … evidenzia come “non ci sarà nessun riconoscimento della legittimità dell’entità sionista” “tuttavia, senza compromettere il suo rifiuto dell’entità sionista…Hamas considera la creazione di uno stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con capitale Gerusalemme secondo le linee del 1967, con il ritorno dei rifugiati … alle case da cui sono stati espulsi… come una composizione del consenso internazionale…Hamas afferma che il suo conflitto è con il progetto sionista, non con gli ebrei perché ebrei ma combatte contro i sionisti che occupano la Palestina… Hamas ritiene che l’antisemitismo … è fenomeno legato fondamentalmente alla storia europea e non alla storia degli arabi …”
Tali punti (la Mithaq, il programma “Riforma e cambiamento” e la Carta dei principi del 2017) sono punti di una storia che la Caridi collega restituendoci l’immagine di un movimento complesso, composito che affonda le proprie radici nell’azione sociale, caritatevole, e che, fondato sulla democrazia interna, decide ad un certo punto di farsi anche lotta armata.
Hamas cambia nel tempo la propria strategia di lotta armata. Tenendo fermo il rifiuto di seguire le orme già tracciate di atti terroristici internazionali decide invece di internalizzare la lotta, rivolgendola inizialmente contro obiettivi solo militari, estendendola poi a obiettivi anche civili. Obiettivi che, è qui la tragica svolta – il casus belli – vengono decisi all’indomani dell’atto terroristico (rimasto impunito) di un colono israeliano alla Moschea a Hebron nel 1994. Viene applicata l’efferatezza della legge del taglione, prima con attentati suicidi poi abbandonando anche quelli. In un alternarsi di tregue sempre però unilaterali.

Il libro racconta l’evolversi di Hamas che si trova sempre a confronto con la violenza istituzionalizzata e legalizzata esercitata dallo stato Israeliano, analizza i motivi del suo consenso popolare, dettaglia l’ostracismo internazionale che si acutizza dopo la vittoria alle elezioni del 2006, evidenzia le rigidità del movimento nel dialogo con Fatah e viceversa, la guerra civile con Fatah che non accetta la vittoria di Hamas, e che aggiunge tragedia a tragedia. La vittoria militare sul campo che fa di Hamas l’unico potere a Gaza. Giungendo al regime.
La Caridi ci mostra anche tutta l’ambiguità del rapporto tra Hamas e le brigate Al Din Al Quassam, il braccio armato di Hamas che da questo, appunto sono ambiguamente indipendenti (così come ambiguo era il rapporto tra Sinn Fein e Ira).
Il 7 ottobre 2023 arriva come una cesura, a definire un prima e un dopo e la Caridi infine introduce l’ipotesi, tutta da verificare nel futuro, che proprio le brigate Al Quassam siano diventate maggioritarie in Hamas e che la linea che definisce pragmatica sia adesso sconfitta.

Il libro della Caridi si dipana dunque in un’analisi dettagliata della storia di Palestina dimostrandoci quanto sia infondata la sinonimia tra Hamas e terrorismo, tra antisionismo e antisemitismo, quanto sia cinica e interessata la sinonimia tra popolo palestinese e terrorismo.  Destruttura stereotipi. E lo fa raccontando da dentro, grazie alla quotidianità che dieci anni vissuti a Gerusalemme le hanno offerto, condividendo peraltro con quella città l’angoscia quotidiana in cui bellezza e terrore, dovute alle rivendicazioni storiche di cristiani, ebrei, musulmani, sono tangibili forse più che altrove.
Hamas e la sua storia sono raccontati nel loro intreccio complesso e vivificante al fine di fare emergere le contraddizioni, i rapporti di forza, le difficoltà, i bisogni collettivi di appartenenza, quelli religiosi in primis di una storia, quella del popolo palestinese, che è fatta, sostanzialmente, da totale invisibilità quale diretta conseguenza di un’oppressione inarrestabile. La lente che ci pare questo libro usi per indagare il fenomeno Hamas è quella del caleidoscopio. Hamas è quindi un fenomeno poliedrico, flessibile e pragmatico davanti alle drammatiche circostanze che deve affrontare e alle necessità del popolo che le subisce. E per rispondervi riesce, perché vive dentro il popolo, ad afferrarne i bisogni materiali e spirituali e tradurli, grazie ad un’operatività decisionale democratica, in risposte puntuali.
Un libro denso e secondo noi, imprescindibile per chi voglia davvero capire. Tra le altre, le occasioni di dialogo che pure Hamas ha offerto per la soluzione di questa immane tragedia. Sempre disattese.

 

Sorgente: ODISSEA

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