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La missione di 14 parlamentari italiani sul lato egiziano della frontiera. Controlli minuziosi, l’attesa può durare settimane

AL-ARISH (Egitto) — Camion. Telonati e non, con e senza rimorchio, con su la bandiera, la firma o la faccia del donatore, che anche dalle fiancate promettono solidarietà con la Palestina. Stanno in fila lungo le strade, ammassati in parcheggi diventati quasi tendopoli, in coda per entrarci. A migliaia, tutti carichi di aiuti, tutti costretti ad aspettare. Impolverati da giorni e notti di deserto, raccontano che Gaza è vicina.

 

Il valico di Rafah appare all’improvviso. Un gigantesco, incongruo, simbolo della pace annuncia il confine, poco dietro c’è la frontiera. Ma la Striscia non si vede. La nascondono muri e filo spinato. Dal lato egiziano del valico i 14 parlamentari italiani arrivati insieme ad attivisti e operatori di Aoi, Arci e Assopace chiedono il cessate il fuoco. Lo urlano davanti ai soldati annoiati schierati davanti a un cancello nero. «La vedi quella palazzina?». È gialla, non sarà a più di 200 metri. «Quando la superi – spiega Yousef Handouna di EducAid, una delle Ong della rete Aoi – sei in Palestina». E c’è la guerra.

 

«Almeno un milione di bambini hanno bisogno di cura e assistenza», tuonano da Ocha. In 15 sono già morti di fame. «Se non adesso», dice Jens Laerke, portavoce dell’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite – quando sarà il momento di tirare i freni, rompere il vetro e inondare Gaza con gli aiuti di cui ha bisogno?». 

 

Dal valico di Rafah passa poco e niente. In una mattinata, i camion che riescono a entrare nella Striscia sono tre. In 24 ore, dice Mutaz Banafa di Ocha, ne passano un centinaio, ma per settimane il numero è crollato a 20. Prima del 7 ottobre erano 550 al giorno. Adesso i controlli sono serrati. Fra l’arrivo a Rafah e il transito di un camion all’interno della Striscia, possono passare settimane. «Siamo qui da un mese», dicono infuriati gli autisti bloccati ad Al-Arish in attesa del loro turno per sottoporsi ai controlli. Alcuni sono pagati a giornata, altri a viaggio. «Sono aiuti umanitari, cosa aspettano a farci entrare?», urla un altro. 

 

 

Ogni mezzo deve essere controllato – ai raggi X, da uomini, cani e con gli scanner – a Nitzana o Kerem Shalom, a 8 km da Rafah. Solo dopo può tornare al valico e superare il confine. Sempre che ottenga il visto dagli israeliani. «Basta un articolo non consentito e tutto il carico viene bloccato», spiega Mohammad Noseer della Mezzaluna rossa egiziana. Il suo “regno” è il Logistic center di Al-Arish, dove gli aiuti arrivano, si smistano, si arenano. «Questa è la porta dell’inferno», dice il leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni.

 

Sacchi a pelo, tavolette per potabilizzare l’acqua, bombole d’ossigeno, kit maternità. A Gaza tutto questo non entra. Persino i datteri o alcuni giocattoli non passano i controlli. La presenza di un tagliaunghie può bloccare per settimane un pallet di kit igienici o di pronto soccorso. 

Formalmente il motivo è il cosiddetto “dual use”, cioè la possibilità di uso militare dei beni forniti. E così delle tende passano i teloni – sempre che non siano verde militare «perché ci hanno detto che potrebbero diventare uniformi», spiega Noseer – ma non i pali per sostenerle. Anche una fornitura di merendine al cioccolato è stata bloccata. Sono stati considerati beni di lusso quindi non necessari, mentre dall’altra parte dei cancelli ci sono persone che muoiono letteralmente di fame. O di malattie banali. Ma al Logistic center di Al Arish sono immagazzinate incubatrici, sedie a rotelle, stampelle, deambulatori, bombole d’ossigeno, bagni chimici. «I farmaci possono passare, ma alcuni devono stare a bassa temperatura. E io come faccio a mandarli di là se non sono vietati refrigeratori e generatori e pannelli solari per alimentarli?», si danna uno dei logisti. A Gaza, racconta, non c’è più un albero. Tutti sono stati usati per cucinare, scaldarsi, sopravvivere.

Gli aiuti ora arrivano anche dal cielo. Hanno iniziato gli Usa, altri seguiranno, inclusa l’Italia. «Bisogna poi far tacere le armi e passare alla politica: serve una conferenza internazionale di pace», invoca Laura Boldrini. Al momento, si lavora faticosamente solo per arrivare a una tregua.

«Se oggi aprissero i cancelli – dice Scott Anderson, vicedirettore dall’ufficio di Gaza dell’Unrwa – almeno metà dei palestinesi ammassati a Rafah scapperebbero». Oggi si può fare solo pagando, 5mila euro a testa per gli adulti, meno i bambini. Nahed non li ha, allora sarà lui a rientrare. Lavorava in Europa quando è scoppiata la guerra, ci ha messo mesi e 500 dollari per ottenere i permessi. «Mio figlio mi ha detto non voglio né pane, né giocattoli, voglio solo te». E lui da giorni aspetta di passare il valico per tornare sotto le bombe.

Sorgente: Gaza, per i camion di aiuti entrare nella Striscia è un’odissea – la Repubblica

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