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di Cristiano Sabino

Ringrazio le compagne e i compagni di Sa Domo de Totus perché questo saggio è il frutto di un continuo confronto politico, umano e culturale con loro, in un circolo elettrico comunitario e accogliente, nutrito quotidianamente dal flusso vitale di impegno e volontà di rompere la gabbia e di guadagnare finalmente libertà e dignità.

28 ottobre 2023. La manifestazione nazionale sarda Palestina Libera, tenutasi a Sassari il 28 ottobre 2023 e chiamata da Sardegna Palestina, Sa Domo de Totus e Fronte della gioventù comunista, rappresenta uno spartiacque. Negli anni a venire ci sarà un prima e un dopo 28 ottobre.

I media hanno filtrato la notizia volutamente sottotono, anche perché la mobilitazione non rientrava in alcuna categoria di comodo entro cui il sistema di informazione derubrica qualche critica minimamente significativa al regime coloniale. Il 28 ottobre però, per la sua impostazione e per i soggetti che la proponevano, non poteva essere riposta nei soliti cassetti “pacifismo”, “antimilitarismo”, ecc..

Passati alcuni giorni ed elaborati diversi aspetti, è arrivato il momento di sviluppare una riflessione approfondita sul segno che la manifestazione nazionale del 28 ottobre ha lasciato a chi vorrà raccoglierne i frutti.

Soffia il vento della decolonizzazione. Il 7 ottobre palestinese ha sorpreso solo chi pensava di vivere in un mondo ormai unipolare e pacificato, dove i popoli accettano la propria condizione post-storica e il dominio imperiale del cosiddetto occidente, con il suo portato di colonizzazione e “valori” liberali basati sull’individualismo, sull’edonismo e sul suprematismo atlantico. In realtà, oltre la bolla della narrazione e della retorica sugli splendidi valori di libertà, progresso e democrazia europei e nordamericani rappresentati dalla casta della cosiddetta “comunità internazionale”, esiste un mondo ribollente e insofferente che sta alzando la testa. Non è detto che le azioni dei popoli che si ribellano all’ordine imposto dall’occidente possano sempre piacere ad una “sinistra” ormai del tutto assimilata all’ordine imperiale e coloniale, ma è un fatto che la forte eco del movimento di liberazione decoloniale che attraversa implacabilmente il Mediterraneo, il mondo arabo oppresso e l’Africa è arrivato anche in Sardegna. La Sardegna non è fuori dal tempo, come cercano di veicolare i professoroni nelle aule delle università, sfogliando libri di storiografia che espellono puntualmente tutti i momenti dialettici dalla storia della Sardegna, dalla resistenza antiromana alla lunga esperienza di libertà giudicale, dal lungo processo rivoluzionario repubblicano, antifeudale e sardo centrato guidato Da Giovanni Maria Angioy, Gioacchino Mundula e Frantziscu Cillocco a quella fase del sardismo delle origine, a forti venature popolari, rivoluzionarie, socialiste che appassionò tanto il pensatore rivoluzionario Antonio Gramsci e che lo portò a concepire i subalterni sardi come soggetto di trasformazione storica. Noi siamo nel presente e nel futuro di questo irrefrenabile urto storico e questo presente storico sta risollevando vigorosamente la questione della decolonizzazione e della fine dell’imperialismo e del colonialismo bianco, occidentale, a dominanza anglosassone e delle sue articolazioni latine come quella italiana, francese e spagnola. Dopo un periodo di apparente pacificazione l’Africa è nuovamente in rivolta e in particolar modo lo è il Sahel. Dal punto di vista della propaganda occidentale i golpe guidati da una nuova generazioni di militari in Niger, Mali, Burkina Faso e Ciad confermano questa generale tendenza. Ciò che viene posto in dubbio è la presenza della Francia nei suoi vecchi territori coloniali con la politica neocoloniale della cosiddetta Françafrique. In occidente, ovviament,e si sono sprecate le interpretazioni geopolitiche sulla longa manus di Russia e Cina sulla rivolta contro la colonizzazione, specialmente antifrancese. A detta dei tanti opinion makers suprematisti, dietro ai colpi di stato anti coloniali ci sarebbe appunto l’intervento di Russia e Cina e questo rappresenterebbe una pessima notizia perché rallenterebbe il fantomatico progresso dei popoli africani verso il radioso orizzonte rappresentato dai sempre fantomatici “valori” occidentali, ratificando la concezione neocoloniale dell’«anticamera» della civilizzazione, tipica della visione orientalista e suprematista (eurocentrica e coloniale prima e imperialista a trazione statunitense poi), secondo cui esiste un solo modello di civilizzazione che è quello fondato sul capitalismo e sul sistema occidentale.

Di fronte alla perdita del controllo, l’opinione pubblica occidentale va in cortocircuito e la storia che segue il 7 ottobre, con l’attacco dei combattenti di Hamas che ha incredibilmente bucato le difese di uno degli stati più avanzati tecnologicamente e più militarizzati del mondo, fa saltare tutte le narrazioni su quella presunta superiorità di quegli stessi valori. Basta leggere i piani del Ministero dell’Intelligence israeliano che prevedono di deportare 2,3 milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza al Sinai, in territorio egiziano (Il piano di Israele per la popolazione di Gaza: deportare 2,3 milioni di persone nel Sinai, Egitto, Fanpage.it, 31 ottobre 2023). La reazione è la paranoia, il terrore, l’involuzione antidemocratica, non solo di uno stato fondato sull’apartheid come Israele, ma anche di Stati come la Francia – culla del liberalismo e della democrazia borghese – che arrivano a vietare le manifestazioni pro Palestina e ad arrestare sindacalisti solo per aver solidarizzato con la causa palestinese (Francia: due sindacalisti della CGT arrestati per un comunicato sulla Palestina, Pagine esteri, 21 Ottobre 2023.). Come scrive lo scrittore Filippo Kalomenidis, il 7 ottobre, che ci piaccia o no, ci mette davanti ad una questione focale perché questo fatto storico (non ci sono dubbi che il 7 ottobre sia un fatto storico!) «ha l’effetto di far cadere, ad una a una, le maschere dei nemici. A cominciare dal trucco pesante delle garanzie democratiche che si scioglie, scoprendo il volto autoritario e discriminatorio dell’Unione Europea» (Kalomenìdis, La rivoluzione palestinese del 7 ottobre, Osservatorio Repressione).

Dalla resistenza delle popolazioni del Donbass alle politiche espansive e aggressive della NATO, al fallimento della controffensiva ucraina, del tutto sostenuta appunto dagli stati dell’alleanza atlantica, dal fallimento delle sanzioni alla Federazione Russa al compattamento dei cosiddetti Brics in funzione anti occidentale, dalla nuova rivolta contro la colonizzazione di molti popoli africani al rilancio traumatico della resistenza palestinese, emerge chiaramente che la storia non è finita, che l’egemonia imperiale euro-nordamericana è in pesante crisi e che sotto le certezze di un occidente che gustava l’impero millenario, dopo il crollo del socialismo sovietico, si apre oggi un oscuro squarcio senza fondo. Non è un bel mondo quello in cui ci troviamo a vivere e a sperare un nuovo orizzonte di giustizia e uguaglianza per gli oppressi e i popoli schiacciati dal colonialismo. Anzi è un mondo «grande e terribile» – come lo definiva Gramsci – in cui però è sempre più necessario individuare spazi di manovra per costruire qui ed ora movimenti di trasformazione situati e adeguati alle circostanze e alla fase storica che stiamo vivendo, senza false narrazioni e filtri ideologici, ma anche senza ripetere inutili coazioni a ripetere dettate dall’abitudine e dalle nostre esigenze di sicurezza e stabilità.

Veniamo dunque a noi. La Sardegna è a un bivio. Da una parte una larga fascia della popolazione sarda è del tutto compliante con la colonizzazione italiana e con l’uso militare che della Sardegna fanno non solo gli stati dell’alleanza atlantica, ma anche appunto Israele. Ma esiste anche la possibilità che emerga una soggettività capace di mettere in discussione la direzione coloniale e subalterna assegnata alla Sardegna da quando siamo stati occupati dalle forze piemontesi. Dalla feroce nebulosa di un mondo a pezzi e di una egemonia coloniale sempre più in crisi, sta emergendo qualcosa anche nel nostro angolo di mondo e di questo qualcosa voglio parlare in questa riflessione. Siamo per forza di cose destinati ad essere la Cayenna italiana e la rampa di lancio militare Nato nelle guerre determinate dal dominio imperiale dell’Occidente o esiste la possibilità di avere parte nella totale messa in discussione della logica imperiale e coloniale, a partire dalle contraddizioni e che vivono le persone che, in questo momento, popolano questa terra?

Rieccoci, dunque, all’importanza del 28 ottobre. Proviamo a buttare giù alcuni punti.

Dalla Palestina alla Sardegna. La manifestazione del 28 ottobre è stata la terza chiamata sulla questione palestinese in appena dieci giorni, la prima il 7 ottobre per la liberazione dello studente italo-palestinese Khaled El Qaisi, la seconda un flash mob assai riuscito “unu frore pro sa Palestina” e la terza appunto il corteo che ha tagliato la parte moderna del centro e la parte medievale di Sassari.

In tutte e tre le piazze è emersa fortissima la questione sarda, intrecciata ovviamente alla questione palestinese. Grazie ad un accordo di cooperazione militare siglato il 17 maggio 2005 che disciplina la partnership militare tra Italia e Israele, la Sardegna è diventato infatti il parco giochi di Israele e, banalmente, molti dei sistemi d’arma che l’esercito utilizza per sterminare palestinesi inermi sono stati sperimentati in Sardegna, con il plauso di una classe dirigente politica e culturale (per esempio la ex rettrice dell’Università di Cagliari Del Zompo) statale e regionale compiacente. Già nel 2006 alle esercitazioni congiunte effettuate dalle forze armate israeliane in Sardegna seguì, di poco, l’aggressione al Libano dove vennero utilizzati sistemi d’arma sperimentati nei poligoni militari che lo Stato impone al popolo sardo.

Nel 2021, durante un violento attacco israeliano sulla striscia di Gaza, a Sassari una serie di associazioni della sinistra coloniale chiamò una manifestazione per la Palestina, senza dire una parola né sui legami che intercorrono tra Israele e poligoni militari sardi, né sulla stessa occupazione militare che subisce la Sardegna.

La recente mobilitazione pro Palestina che si è sviluppata a Sassari ha dimostrato che da ora in poi sarà impossibile tacere su tale legame ed è ormai chiarissimo che parlare di Palestina, in Sardegna, significa anche parlare di Sardegna, che cioè in Sardegna non si può più parlare di Palestina senza parlare anche di Sardegna e dell’occupazione militare, culturale e sociale che la nostra terra subisce.

Forse è anche per questo motivo che una certa area ha evitato di esporsi, spaventata non tanto di compiere scivoloni su Hamas, quanto dal non poter – per sua stessa natura – esporsi sulla questione occupazione militare della Sardegna.

Su questo punto la mobilitazione di ottobre ha credo segnato un punto di non ritorno.

La mobilitazione che ha gonfiato le vie del centro turritano però racconta anche altri aspetti che è importante portare alla luce. Era da anni che non si assisteva ad un corteo così numeroso, ma non è sui numeri che mi concentrerò. Ho partecipato a tante manifestazioni, di cui una buona percentuale sulla Palestina, anche durante i giorni bui della seconda Intifada, dell’assedio di Gaza e della morte di Arafat. E ovviamente non solo a Sassari o in Sardegna, ma anche in metropoli dello Stato italiano e in generale in diversi paesi europei.

Raramente ho assistito allo spettacolo del 28 ottobre. In piazza non c’erano spezzoni, barriere ideologiche o di nicchia, nemmeno gruppetti omogenei. La piazza del 28 ottobre era, dalla testa alla coda, intergenerazionale, interetnica, intersessuale, assolutamente eterogenea per età, estrazione sociale, politica e culturale, ma allo stesso modo omogenea nell’esprimere un carattere popolare, sardista e meticcio che è stato il punto di forza di questa mobilitazione e che – a mio avviso – rappresenta il cuore di un una nuova soggettività politica in gestazione, assolutamente diversa da tutte le soggettività che si sono affacciate su questa terra. Esistono ovviamente elementi di continuità con il passato, per esempio con i movimenti studenteschi e indipendentisti, ma grandi sono anche le fratture.

La diversità rispetto allo stile delle manifestazioni classiche dei “movimenti” anni Novanta e anni Duemila (prima del grande collasso) è stata tangibile. Le piazze della sinistra (o dell’indipendentismo) classico che siamo stati abituati a vedere, avevano una dirigenza chiaramente staccata dal corteo, attorniata da giornalisti e paparazzi. Seguiva poi un serpentone di militanti irreggimentati in sfumature dello stesso grigio, diviso in spezzoni che diventavano presto ghetti:i giovano con i giovani, i lavoratori contraddistinti dalle loro bandiere sindacali, i migranti (quando presenti) distaccati dal resto del corteo, le femministe e poi i vari partitini confinati nel proprio spezzone.

Il 28 ottobre è stato qualcosa di totalmente differente: una dimostrazione meticcia e sardista, assolutamente diversa dai cortei settoriali e dalle manifestazioni di partito, ma anche molto diversa da quelle mobilitazioni di movimento che spesso portano in piazza corpi omogenei ideologici (no global, antifa, lgbtq, antimilitaristi), ma totalmente privi di collante, radicamento, carica di rottura politica e presa sociale. Il 28 ottobre è stato a tutti gli effetti l’emergere della politica di comunità, attraversata da mille differenze politiche, valoriali e di metodo (in piazza si è persino pregato e nessuno ha avuto qualcosa da ridire), ma collegata da un medesimo filo rosso de coloniale, carica di speranza e rabbia, radicalità nei contenuti e attraversabilità nelle forme in cui essa si è posta alla città e al territorio. Una comunità sardista meticcia che rappresenta dunque una frattura netta rispetto al passato.

Perché «sardismo meticcio». Dico «meticcio» perché un elemento propulsivo sono state le comunità, in particolare i tunisini, i marocchini e i senegalesi, ma anche i maliani, i gambiani, i somali, ovviamente i palestinesi. È stato evidente fin da subito, quando molti di loro hanno preso la testa del corteo, mescolandosi con i giovani del Fronte della Gioventù comunista e gli attivisti di Sa Domo de Totus. Ed è stato ancora più evidente quando in piazza, uno dopo l’altro, senza paura, senza vergogna, senza esitare hanno preso il microfono e si sono esposti, parlando anche con i pochi giornalisti presenti. Fra loro molte donne, bellissime e fiere, senza alcun timore, si sono esposte, hanno usato il loro visto come un manifesto politico e le loro parole come un potente richiamo alla lotta unitaria contro il putrescente regime coloniale che dal Medioriente all’Africa, passando per la Sardegna, sta dissanguando i nostri popoli, svilendo i nostri saperi, mercificando i nostri sogni e desertificando le nostre comunità.

Tutti loro erano assolutamente mescolati con i sardi, intrecciati dietro gli stessi striscioni, avvoltolati dalle stesse bandiere della Palestina e della Sardegna. Protagonisti di un’unica marea montante che poneva la questione palestinese inestricabilmente collegata a quella sarda. Perciò dico anche «sardista». Abbiamo capito che non si ha alcun bisogno di spiegare a un somalo, a un maliano, a un gambiano cos’è il colonialismo e perché la Sardegna soffre di un rapporto di dipendenza, di privazione, di degrado e corruzione, in maniera analoga a una qualunque realtà coloniale africana o araba. La Sardegna stava nella chiamata della manifestazione esclusivamente in lingua sarda e nessuno si è posto il problema che il messaggio non sarebbe arrivato. E il messaggio è arrivato forte e chiaro, attraversando barriere linguistiche e diffidenze culturali. Dobbiamo dircelo con chiarezza: è più facile comunicare con i somali, con i palestinesi, con i senegalesi, con i gambiani, con i maliani che con ampi settori della borghesia intellettuale che vanno a comporre quella che ancora ci ostiniamo a chiamare “sinistra”. Tutta gente convinta fin nel midollo che i loro privilegi di classe e le loro residuali ricchezze, li collochino nella «parte fortunata del mondo», che la Sardegna sia banalmente una regione d’Italia, che l’importante è andare a ingrossare le fila a Roma perché è lì che accadono le cose davvero importanti. Portano in piazza cartelli per la pace, indossano magliette di Che Guevera, parlano di diritti e tifano Palestina, ma non possono capire il balzo concettuale rappresentato dalla manifestazione del 28 ottobre, dal sardismo meticcio, non hanno la minima idea di come seminare in questa pentola a pressione pronta ad esplodere che per loro era e resta solo una periferia poco vivace dell’Italia, dove infatti cercano, appena possono, di trasferirsi con bagagli e burattini.

Il 28 ottobre ha ammutolito questa «sinistra» imperiale e coloniale, questo progressismo del privilegio, questa ipocrisia da salotto, questa progenie ben pensante e ha fatto emergere qualcosa di molto diverso.

Non più bianchi antirazzisti con gli africani e gli arabi a fare da carta da parati, ma comunità meticcia, intrecciata, inestricabilmente, collegata in una sola fiumana indistinguibile. Il 28 ottobre è stata una marea popolare, sardista, internazionale, intersezionale, chiaramente alternativa al colonialismo, al suprematismo occidentale, al conformismo imperante a quel che resta dell’indipendentismo, persino di chi oggi si fregia del titolo di “partito della sinistra indipendentista” e stringe alleanze con il peggio del sistema coloniale in vista delle elezioni. Dai quartieri ridotti a dormitorio, da un centro storico schiacciato sulle varie emergenze criminalità e degrado, dalle case in subaffitto e dalle strade dove corrono i riders per pochi spiccioli orari, ma anche dalle aule universitarie dove studiamo e fanno ricerca e dalle scuole dove insegniamo o facciamo i bidelli, dai supermercati e dai negozi dove viviamo la nostra condizione precaria e dagli uffici dove facciamo tirocinio o lavoriamo, abbiamo camminato ad un unico passo e abbiamo scandito Palestina e Sardigna libertade ad un’unica voce.

Non più cosmopoliti sradicati, pronti a sposare ogni causa caotica, ma radici robuste intrecciate con la sofferenza di questa terra, della nostra terra e solo grazie a questo abbraccio capaci di tenderci verso altre sofferenze, altre miserie, altre ribellioni. Chi non lotta, chi non difende la propria comunità, non può pretendere di sposare altre cause. Bandiere sarde e palestinesi che sventolavano insieme contro l’occupazione militare della Palestina (e per la fine della pulizia etnica in corso). Ma anche contro l’occupazione coloniale che subisce la Sardegna, il degrado morale ed economico a cui siamo stati ridottida un secolo e mezzo di subalternità, lo spopolamento indotto, l’evaporazione della nostra lingua e della cultura o, ancora peggio, la riduzione di esse a sagra per turisti babbei.

Non più dirigenza paternalista che esalta i giovani per usarli come braccia e carta da parati, ma comunità intergenerazionale dove ognuno porta ciò che ha di meglio da dare, senza la pretesa che sia tutto o sia perfetto, senza l’ansia di dover salvare o cambiare il mondo, ma con la certezza che la comunità ha bisogno di tanti affluenti e di essere nutrita, perché se così non fosse torneremo a quella condizione atomica dove abbiamo la sensazione di essere tutto ma la realtà fattuale è che non siamo niente. Il 28 ottobre è stato partecipatissimo dai giovani di ogni nazionalità (sardi, marocchini, senegalesi, gambiani, maliani, palestinesi, ecc.), alla faccia di chi si lamenta ogni giorno della loro assenza e che attribuisce loro la responsabilità della loro mancata partecipazione alle robe da parrucconi, paternaliste e preimpostate che stancamente si realizzano in questa città e in questa terra, a perpetrare l’eterno ritorno dell’uguale e cioè le solite celebrazioni senz’anima, le noiose omelie istituzionali, le trite e ritrite ripetizioni di un progressismo di facciata attaccato alle anticaglie di Togliatti e Berlinguer e di fatto a difesa dell’ordine coloniale prestabilito.

Il 28 ottobre ci ha dato una lezione che resterà nella nostra pelle. Il futuro non sta nelle sigle della cosiddetta “sinistra”, non sta nelle metropoli italiane, non sta in qualche carta ritenuta “la più bella del mondo”. Il futuro sta solo e unicamente nella lotta, nella pratica, nel protagonismo dei subalterni e delle subalterne, nel meticciato che si riscopre “afro-sardo” come ha meravigliosamente gridato in piazza quel campione di chiarezza anticolonialista che è Osman Fatty della Gambia Society.

Il futuro è sardista popolare ed è quello stesso futuro che immaginava Gramsci quando parlava di Sardegna come “colonia di sfruttamento” e dei sardi come soggetto rivoluzionario che avrebbero creato la loro “Repubblica Autonoma”, prima che sul suo progetto rivoluzionario mettessero le mani Togliatti e i suoi accoliti, trasformandolo in una sorta di statalismo centralista che sognava la coabitazione con il capitalismo e la borghesia e che in cambio tollerava (e in molti casi veicolava) la colonizzazione della nostra terra.

Mentre molti ancora si interrogano come far rinascere la sinistra e l’indipendentismo, invitano Santoro e staccano biglietti per le kermesse al Circo Massimo, noi ormai sappiamo che il nostro compito è impastare a mani basse la malta con cui costruire il nostro meticciato, con tutti i sardi di questa terra. E dire sardi significa dire lavoratori, precari, disoccupati, studenti, giovani, donne, della Sardegna, della Palestina, del Senegal, della Somalia, del Marocco, del Gambia, del Mali, dell’Angola e di tutti i popoli che si stanno alzando finalmente in piedi per sfidare il colonialismo e che questa generazione è chiamata ad abbattere.

È dalla lotta che si crea l’identità, non il contrario.

E la lotta è appena incominciata, come la nostra nuova identità sardista meticcia.

«Sardegna è alluvione giovane di lotta. Occhi di figli che hanno onde come madri, venti come padri e mari come maledizioni.

Bocche di tempeste raccontate al posto delle fiabe, cammini che hanno suono di pioggia sull’acqua pure se il sole è alto.

Sardegna palestinese, mediterranea, araba, africana, asiatica, latino-americana.

Si bagna nel Sud del Mondo. È quello il suo posto. Nuota lontano dall’Occidente della luce morta.

Nemica fino al sangue di colonialisti sionisti, europei, statunitensi, sfruttatori, falsari, ladri d’orizzonti, carcerieri di popoli, assassini anche quando concedono resti di vita nella loro pace.

Li odia.

Il diluvio d’ottobre non odia forse naturalmente il fuoco ingiusto, l’aridità che brucia la terra?

Il corso delle grida di ragazze e ragazzi ama Gaza e la Palestina. Gocce scorrono impreviste per congiungersi lì, al grande fiume che ha travolto margini d’acciaio.

Ogni abbraccio è stringere a sé i martiri del genocidio, ogni passo è incitamento grato ai combattenti.

Non avrei mai immaginato d’incontrare una giornata così torrenzialmente viva nel luogo da dove scappai a diciannove anni.

Anche le lacrime si rivoltano e non bastano dieci dita per nasconderle.

Vogliono unirsi al fiume inarginabile.

Perché la rivoluzione del sette ottobre è appena iniziata».

Dai versi “Sassari, 28 ottobre 2023”

di Filippo Kalomenìdis

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