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Repubblica ha verificato e geolocalizzato alcuni dei video più emblematici che hanno mostrato al mondo le proteste e il ruolo guida delle donne

Di Laura Lucchini e Gabriella Colarusso. A cura di Paola Cipriani e Valeria D’Angelo

Le proteste in Iran per Mahsa Amini – Fonte CNN

(guarda tutti i video e fotografie cliccando il link riportato in fondo all’articolo)

Il 22 settembre, Niloufar Hamedi, una nota giornalista iraniana del quotidiano Shargh, diffonde la notizia della morte all’ospedale Kasra di Teheran di  Mahsa Amini , una 22 enne curda che era stata  arrestata  dalla polizia morale il 13 settembre con l’accusa di non aver indossato correttamente il velo obbligatorio che la Repubblica Islamica impone alle donne. Le autorità tentano di accreditare la tesi della morte per infarto, la famiglia smentisce e denuncia invece che la ragazza è stata picchiata così forte da averle procurato un trauma. La foto dei genitori di Amini in lacrime nel corridoio dell’ospedale viene condivisa migliaia di volte. Davanti al Kasra iniziano a radunarsi decine di persone, nel giro di pochi giorni l’Iran si infiamma. Le manifestazioni si diffondono in più di 80 città guidate dalle donne e dai giovanissimi. “Jin, jiyan, azadi”, “donna, vita, libertà”, diventa lo slogan principale di un movimento spontaneo che chiede diritti civili e libertà politiche, sviluppo economico, democrazia.

Il governo blocca Whatsapp, Instagram, Signal, Linkedin e isola l’Internet nazionale dalla Rete globale per evitare che le proteste abbiano eco. Ma centinaia di video riescono a bucare la censura. Di fronte alla difficoltà per i giornalisti iraniani e stranieri di documentare quello che accade nelle strade, lo user generated content (ugc) diventa uno dei pochi veicoli di informazione. È però anche uno strumento fallace: è sufficiente attribuire le immagini a un contesto o un luogo sbagliato per generare distorsioni. Repubblica ha analizzato decine di video e ha parlato con diverse fonti sul posto per contestualizzarli e geolocalizzarli.

Donne alla guida

Le proteste sono iniziate a  Saqqez , la città da cui proveniva Amini, ma si sono rapidamente diffuse a tutte le province curde del Nord Ovest alla capitale Teheran e poi ad altre grandi città come Shiraz, Isfahan, Ahvaz, Tabriz. Alla guida ci sono soprattutto giovani donne, a cui si affiancano fratelli e papà. I video mostrano ragazze che affrontano a viso aperto e con i capelli scoperti le forze di sicurezza nel centro di Teheran; che sventolano o bruciano i loro hijab in piazza a Sari, che si tagliano i capelli in segno di protesta, come a Kerman. La rabbia si indirizza soprattutto contro il velo obbligatorio, ma non solo. A Mashhad viene data alle fiamme la statua del famoso chierico sciita Motahari: sono i simboli fondativi della Repubblica islamica. La protesta cresce, contagiando le élite e le professioni. Si schierano gli artisti come il regista premio Oscar Asghar Farhadi; i musicisti come Shervin Hajpour, autore della canzone “Baraye”, “Per”, diventata inno delle proteste. Molte ragazze si fotografano al ristorante o in strada mentre camminano con i capelli al vento, disobbedienza civile che si moltiplica con l’eco dei social.

La repressione

Il governo reagisce schierando in massa le forze di sicurezza e i basij, una milizia paramilitare che viene utilizzata per sedare le proteste di piazza. Le forze di sicurezza usano manganelli e proiettili a salve contro i manifestanti, ma anche proiettili veri. Amnesty International conta 52  vittime  accertate, per la ong Iran Human Rights sono almeno 133. Le autorità avviano una campagna di arresti di massa. Attivisti e ong denunciano che molti manifestanti sono stati prelevati e di loro non si sa più nulla. Al momento non c’è un dato preciso e ufficiale sul numero delle persone scomparse e finite in carcere.

Lo sciopero degli studenti

Il 26 settembre, le associazioni degli studenti universitari convocano lo sciopero nazionale. Per tre giorni si susseguono manifestazioni in decine di atenei del Paese, anche nelle città più conservatrici come Qom e Mashhad.  Il 2 ottobre, una manifestazione nel prestigioso ateneo di tecnologia di Teheran, la Sharif University, viene duramente repressa. “Mahsa è diventata il simbolo dell’oppressione”, dice a Repubblica una giornalista di Teheran che accetta di parlare con la garanzia dell’anonimato. “Gli iraniani chiedono una vita normale, prosperità economica, libertà civili, rispetto e pari diritti, tutto quello di cui non hanno goduto in questi anni”. Finora sono 32 i reporter arrestati. Tra loro c’è anche Niloufar Hamedi, la giornalista che per prima ha raccontato la storia di Mahsa Amini.

Sorgente: Iran, la mappa delle proteste delle donne dopo la morte di Mahsa Amini – la Repubblica

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