0 6 minuti 2 anni

di Fabrizio Roncone

A Montecitorio tra le pattuglie di deputati e senatori con l’incubo del voto anticipato. Le rassicurazioni di Di Maio, le occhiatacce di Santanché

È il rosario che aspettavano.

«Mattarella… Mattarella… Mattarella…».

Cortiletto di Montecitorio, lo spoglio in diretta sui maxischermo. Nel riverbero giallastro dei lampioni, loro. I vincitori.
Sta finendo come volevano.
Fanteria parlamentare all’ultimo bivacco.
Occhiate di purissima allegria sotto le mascherine, febbrile eccitazione: «Siamo già a 348 voti! Eh eh…». Seduti in circolo, pregustano la certezza di poter trascorrere un altro anno abbondante dentro questo potere e questo lusso, certi qui e gli altri a Palazzo Madama, ma tanto un Transatlantico vale l’altro: l’importante, per la maggior parte di loro, è continuare a camminare nei corridoi con il velluto rosso alle pareti, i marmi che risplendono, i lampadari sempre accesi come nemmeno a Versailles e un bell’accredito sicuro sul conto corrente.

«Mattarella… Mattarella… Mattarella…».

Ha ripreso colorito Mario Acunzo da Battipaglia, ex 5 Stelle, quello che per arrotondare recita nella fiction di Rai 1 «Il commissario Ricciardi» e che pensava di aver fatto un casino ammettendo di volere Berlusconi al Quirinale. Ecco pure Alviso Maniero, un altro gigante del gruppo Misto che, quando lasciò il Movimento, paragonò Davide Casaleggio a Kim Jong-un. Ma lo spettacolo più tragico è stato assicurato, ogni giorno, da molti di quelli che sono rimasti grillini.

Paura battente.
Animi sanguinanti.
Eccoli qui, i conti cimiteriali ancora in tasca: con un voto elettorale anticipato, un po’ per il calo dei consensi, un po’ per la contrazione dei seggi prevista dalla nuova legge, due terzi di loro non sarebbero stati rieletti. Così l’arrivo di Luigi Di Maio è stato sempre accolto con inchini e sospiri. Lui incedeva offrendo il suo corpo rassicurante, distribuiva carezze, blandiva, state tranquilli, non può succedervi nulla. Tiziana Ciprini e Luca Frusone, Paolo Parentela e Marta Grande. «Giggino, siamo nelle tue mani». «Giggino, che Dio ti benedica». Una fatica bestiale.

Adesso giacciono stremati sulle panchine. Passa Daniela Santanché avvolta in un giaccone maculato (che potrebbe essere di leopardo finto ma anche vero, cacciato appositamente per lei). Li osserva schifata: «Hanno pensato solo a cadrega e portafoglio».
Occhiate feroci per lei e per quelle altre che la poltrona comunque non l’avrebbero rischiata: la Ravetto, con le sue borse firmate che costano come l’annualità di un metalmeccanico; oppure la Boschi, ormai definitivamente altera e lassù, distante, tra una copertina di Chi e la promessa di tornare, prima o poi, a fare il ministro.

«Mattarella… Mattarella… Mattarella…».

Sbuffano in un miscuglio di stanchezza e soddisfazione pure certi leghisti. Perché anche da quelle parti: calcoli malevoli. Con gli attuali sondaggi, un voto anticipato avrebbe prodotto almeno 70 seggi in meno, tra Camera e Senato.
E però vedevano il capo piombare di corsa, stravolto. Salvini entrava, votava, spariva. Due ore dopo annunciava cinquine, terne. Pera, Moratti, Nordio. Un pomeriggio è andato a casa di Sabino Cassese. Nel frullatore ha messo Giampiero Massolo e Franco Frattini. Poi ha mandato a sbattere la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Casellati. Infine, la tombola: candidando Elisabetta Belloni, il capo dei servizi segreti.
Così i leghisti — preoccupati — erano spesso accucciati accanto all’Umbertone Bossi: seduto sulla sedia a rotelle, il sigaro acceso, faceva segno di no, non andrà come «pensa quello lì, state calmi». I governatori Fedriga e Zaia, muti, sgomenti, di cera.

«Mattarella… Mattarella… Mattarella…».

Sul tabellone luminoso siamo a 487 voti. C’è ancora il tempo di ricordare la visita pastorale di Giuseppe Conte, che Rocco Casalino, l’altro giorno, ha deciso di trascinare qui. «Devi venire perché sei tu, fino a prova contraria, il capo del Movimento… Non possiamo lasciare i gruppi nella braccia di Di Maio». Solo che Conte lisciava, non riconoscendole, le sue pecorelle grilline: e così il panico diventava totale. «Questo non sa nemmeno chi siamo, porcaccia miseria!». Ma Conte aveva altro, in testa. Per dimostrare d’essere il miglior alleato riformista possibile del Pd, si stava accodando a Salvini, che voleva dare all’Italia una guida tipo quella di Abdel Fattah al-Sisi in Egitto.

Giornate penose per tutti.
Potete recuperare sui social le immagini di euforica liberazione con cui il pattuglione del Pd, nella sala del Mappamondo, ha accolto la notizia che al Quirinale sarebbe rimasto il vecchio Presidente. Anche tra i dem serpeggiava il dubbio: lo sapete, sì, che se Enrico dovesse rifare le liste elettorali, almeno la metà di noi tornerebbe a casa?
Poco fa, Matteo Renzi se ne è andato seguito dalla sua guardia d’onore (per qualche ora, al mattino, ha provato a piazzare Casini: che, annusato il colpaccio, da meraviglioso democristiano soffiava ai peones: «Fratelli, non smarrite la strada, che siamo vicini…». E quelli: «Ha svalvolato?».

«Mattarella… Mattarella… Mattarella…».

Ci siamo: 503, 504, 505. Quorum. Abbiamo il Presidente. Applauso lungo e forte (ma è rivolto a lui, o a loro stessi?)

 

Sorgente: Quirinale, l’euforia dei peones dopo il panico: «Un altro anno è nostro». Applausi