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A un mese e mezzo dalla vittoria dei talebani, l’Afghanistan vive la sua recessione più grave. «Le transazioni internazionali sono paralizzate, siamo in bancarotta». In 14 milioni senza cibo

DAL NOSTRO INVIATO
KABUL Televisori, servizi di piatti, bicchieri, posate, arredi di ogni genere, vestiti, montagne di tappeti, stufe elettriche, ventilatori, condizionatori, biciclette, motorini, persino culle: gli afghani svendono le loro cose per cercare di sopravvivere. Occorre venire ai mercati cittadini per cogliere la gravità del collasso economico. Quello di Jadei Maiwan, nel centro della capitale, ha invaso le strade, i venditori sono più dei compratori.

 

«L’offerta supera la domanda. Inevitabilmente, i prezzi sono in caduta libera. Chi ha contante può fare affari d’oro. Puoi comprare qualsiasi cosa a meno del venti per cento del suo prezzo in tempi normali», dice Zoaker Brahimi, un commerciante 28enne che sta acquistando da una famiglia del vicinato le poltrone e tavolini della sala del valore stimato di 40.000 afghani per circa 5.000. «Abbiamo bisogno di contanti per mangiare. Non ci sono alternative, se non svendere», spiegano loro. L’area è ingombra di set da salotto. I divani migliori sono stati coperti con fogli di plastica. Ma ci sono anche letti in legno pregiato, credenze, armadi. «Da due mesi sono senza salario. Mi sono sposato da poco, per fortuna non ho figli. Però devo mantenere anche i nostri anziani genitori. Vendo ciò che posso, nella speranza magari di emigrare appena se ne presenta l’opportunità», racconta Nader Khan, un trent’enne neolaureato in medicina. Butta a terra un tappeto arrotolato: valore 16.000 afghani, ma non ne ricava più di 2.000. Nulla, se si pensa che per pranzare in modo decente nei ristoranti del centro occorrono almeno 1.000 afghani a testa.

Nel mercatino di Wazir Akhbabar Khan, uno dei quartieri più benestanti, si ragiona in dollari, la merce è più preziosa. Ci sono mobili di lusso, vestiti pregiati: però la musica non cambia. «Avevano valutato il mio televisore nuovo per 350 dollari, ne ho presi 60. Speravo di ricavarne almeno 280 per il frigorifero americano, ho dovuto accontentarmi di 80», dice il 32enne Sultan Ahmad. Suo zio ha lavorato per le basi militari americane, è in possesso del visto di entrata negli Usa. Sultan vorrebbe partire con lui. Sono tutti aspetti dello stesso problema. Vende chi è rimasto senza lavoro, ha il conto in banca bloccato e cerca contanti. E in parallelo vendono tutti coloro che sperano di partire.

A un mese e mezzo dalla vittoria militare talebana, l’Afghanistan vive una delle crisi più gravi della sua storia. L’economia è paralizzata. Le banche non danno oltre 200 dollari alla settimana ai propri correntisti. Quasi nessuno paga i salari. Gli oltre 9 miliardi di dollari delle riserve dello Stato sono congelati nelle banche americane, che impongono l’embargo. Le Nazioni Unite parlano di dramma incipiente. I talebani domandano non vengano chiusi i canali umanitari, chiedono all’Onu di essere ascoltati mentre l’aiuto economico è l’unica carta che la comunità internazionale può utilizzare per costringere alla moderazione il nuovo esecutivo di Kabul. Intanto il World Food Program segnala che ci sono già 14 milioni di persone (quasi la metà della popolazione) in «crisi alimentare», e 2 milioni di loro sono in pericolo di vita. I profughi interni a causa della guerra sono circa 600.000. «Voi media occidentali vi preoccupate delle donne, ma dovete sapere che qui per il cittadino medio il dramma maggiore è la sopravvivenza quotidiana», spiega un reporter locale della Reuters. Però negli ultimi anni molte lavoratrici erano diventate l’unico sostegno di famiglia e adesso l’ordine per loro di restare a casa incrementa il problema dell’indigenza. «Ogni transazione internazionale è paralizzata dal 15 agosto. Anche gli istituti di credito più sani sono a rischio fallimento. Noi e i nostri 700.000 correntisti non sappiamo che fare. I talebani non danno alcuna indicazione», si dispera Ahmad Shah Siddiqi della Afghanistan International Bank.

L’intera classe afghana medio-alta rischia di essere spazzata via. I negozianti della Hares Plaza, la palazzina della «computer technology», non vedono un cliente da metà agosto. La decina che abbiamo intervistato vorrebbe emigrare subito. «Viviamo nell’incertezza totale», dice il trent’enne Aharon Raufi, proprietario del Kabul Shop, che da cinque anni vende vestiti di taglio occidentale importati dalla Turchia. «Per i talebani io sono un nemico. Non mi uccideranno. Semplicemente non mi faranno più vendere la merce che ho nei magazzini. E dunque andrò in bancarotta».

Sorgente: Mercatini, salari bloccati e niente cibo: l’abisso di Kabul | Il reportage

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