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25 April 2024
0 9 minuti 3 anni

Pubblicato il 9 settembre 1971, fu subito simbolo di pacifismo: preghiera laica di un mondo senza armi. In realtà per John Lennon quel brano era un inno di battaglia. E un invito, attualissimo, a ripensare la società

“Imagine” di John Lennon non è mai stato il canto generalista, lastricato di “buone intenzioni”, a cui siamo abituati ad associarlo, nonostante le centinaia di cover, tributi, riferimenti popolari e da prima serata. Non è mai stato un “We are the world” in anticipo sul sentimentalismo degli anni Ottanta, ma una canzone con all’origine la rabbia, la protesta. Nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna religione. E per questo, dopo cinquant’anni, è ancora qui.

Certo, il resto dell’immaginario che gli è cresciuto intorno, il giro di Do maggiore, suonato col pianoforte, che la tiene in piedi e la rende così elementare, serena e accogliente, l’appello all’ascoltatore a essere parte di quel “sogno” collettivo che è il fulcro del testo, il videoclip in cui cammina fianco a fianco a Yōko Ono nella loro villa con gli interni in bianco, aprendo le finestre alla “luce”, persino il fatto che l’ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter una volta abbia ammesso che in vari paesi del mondo sia considerato alla stregua di un inno nazionale, ha contribuito e contribuisce a quel racconto, con le punte arrotondate e un po’ ambiguo, ovattato negli aspetti più di lotta. Give peace a chance, quindi, sì; però non solo.

 

Perché il pacifismo di cui è diventata da subito un simbolo, e che tutto sommato avvolge tanto la produzione e il pensiero del Lennon solista e maturo quanto il contesto da post-sessantotto in cui nasce il brano, sono solo la faccia più evidente. Dice lo stesso autore: più che prossimi a un grande appello per la pace, il sentimento dietro al testo è in realtà sempre stato affine al Manifesto del partito comunista (per quanto lui non si ritenesse un socialista ma un artista astratto da ogni sorta di dibattito in merito). Di nuovo però: nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna (soprattutto) religione. Ono – sua anima gemella e allora anche collaboratrice, tant’è che ha pure co-prodotto la canzone insieme col marito e Phill Spector – ne ha parlato come di un pezzo secondo cui, in sintesi, «siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo»; ma nei piani originali resta un’idea apertamente da battaglia, schierata, a favore di un ripensamento radicale verso laicità, anti-consumismo, anti-nazionalismo. Altro che buoni sentimenti da discount.

Non bastasse, il messaggio in questione arriva nei negozi l’11 ottobre del 1971, cinquant’anni fa appunto, quando le barriere e le distinzioni che si propone di cancellare sono il minimo comune denominatore con cui ragiona la geopolitica globale, di qua e di là del Muro, fuori e dentro i Vietnam. E, per di più, arriva anche e soprattutto sul mercato occidentale. Che succede, allora? Succede che “Imagine” viene «accettata perché coperta di zucchero», cioè di tutti quegli elementi popolari, mediatici, rassicuranti che tutt’ora ce la fanno ricordare più morbida e meno ideologica, a tratti persino sovversiva, di quanto fosse in realtà. Parola di Lennon, che pare l’abbia composta seduto al piano, nella sua camera in Inghilterra, giusto nel giro di una giornata. Il giro di Do, il sogno collettivo, il ritornello facile da cantare. Quasi una ninna-nanna. E pure Spector, infatti, racconterà che già durante la lavorazione fossero tutti consapevoli di registrare «una dichiarazione politica forte, ma anche molto commerciale». È il grande inganno del pop che si fa più forte di tutto, il lavoro della retorica che va a smussare gli spigoli.

E Lennon, di spigoli, ne aveva parecchi. Nel look, nel timbro di voce, persino nella dialettica e nell’umorismo british, era stato sempre il più ruvido dei Beatles. Nel 1971, appena trentenne, stava già nella sua seconda vita. Archiviati nella burrasca i Fab Four e i rapporti con McCartney e soci, aveva tagliato quella barba e quei “capelloni” che l’avevano traghettato fuori dalla band e dentro i Bed-in di protesta non violenta con l’allora neo-moglie Ono, cioè due settimane del loro viaggio di nozze trascorse interamente nel letto di un albergo di Amsterdam e dopo a Montréal, in opposizione alla guerra nel Vietnam. In camera entravano giornalisti, fotografi, telecamere, attenzioni varie. Si aspettavano una coppia di sposini intenti a fare sesso davanti a tutti, trovavano pigiami e discorsi contro le armi. La sensibilità comune stava cambiando, e loro ne erano artefici e testimoni. Era il 1969 e lui diventava un uomo, fra la fama, l’ossessione dei media, la sperimentazione musicale sconsiderata, l’aspetto fisico che cambia, la crescita spirituale, una nuova e radicale consapevolezza ideologica, le droghe. Addio aura da teen idol, addio caschetto; aveva già contribuito a ripensare il pop dall’interno, e a quel punto voleva parlare a tutti sfruttando i riflettori che aveva puntati addosso.

Ci riuscirà – dopo un primo disco solista di discreto rodaggio, John Lennon / Plastic Ono Band del 1970 – con “Imagine”. Perché se nell’album precedente svettava quella “Working class hero” diventata inno per la sinistra dell’epoca, ovunque, e poi superata di slancio dalla sovversiva “Power to the people” (marzo 1971), qui l’afflato è direttamente astratto, universale, calmo, persino pedagogico. «Stavolta ho capito che serve aggiungere del miele», per mandare giù lo sciroppo amaro. Un compromesso, prima che un tranello. E così questa che lui definisce «preghiera laica», comunque messianica, umanistica e collettiva, ispirata tra l’altro da poesie della moglie, apre una finestra sul futuro e con la leggerezza del pop rende legittima l’utopia. Un mondo senza nazioni, armi, guerre e religioni? È possibile, persino semplice, se ci mettiamo tutti in marcia; è possibile, se se una voce serena come la sua, su una ballata per pianoforte e archi, ammette di essere un dreamer a pensarlo, uno spudorato sognatore che sta solo condividendo le sue speranze, eppure già in cammino in attesa che qualcuno si unisca a lui. È tutto lì, sembra dire, a portata di mano. Tradotto: anche un ripensamento così profondo della società, da protesta politica, se cantato nel modo “giusto”, semplificato, può affascinare chi lo ascolta, trascendere – nel tempo, nei riferimenti – l’epoca di cui è in parte figlio, diventare il più grande successo commerciale della carriera di Lennon.

Sulla scia di questa strategia, due mesi dopo avrebbe pubblicato anche “Happy Xmas (War is over)”, canto di Natale che ritorna nelle radio e nelle feste ogni dicembre e che dietro l’espediente del brano-strenna (campanelli, cori, atmosfere simil-liturgiche) veicola ancora lo stesso messaggio pacifista e radicale, ma sempre da intendersi sul generico, sognante. In sintesi: se lo vuoi davvero, la guerra può scomparire dalla faccia della Terra; e buone Feste. E no che non è così semplice, e no che nel frattempo non è andata così; però intanto si continua a cantarla insieme a “Imagine”, che proprio per la sua astrattezza di fondo – oltre che a causa del deserto di impegno, fra le popstar di oggi – riesce a ripetere il suo gioco anche oggi. Quanti fra chi la celebra adesso sarebbero davvero favorevoli a dei cambiamenti sociali del genere? E quanti, davvero consapevoli e aperti alla matrice ideologica dietro del pezzo? Non importa ormai.

E mentre dopo cinquant’anni ritorna nei filmati d’epoca restaurati per l’anniversario, nelle versioni rimasterizzate e recuperate di rito, cinquant’anni in cui non se ne è mai andata e con un mosaico è finita anche al centro dei diecimila metri quadrati del “giardino della pace” in memoria di Lennon al Central Park di New York, e intorno non è cambiato nulla, fra rigurgiti culturali ed edonismi, crisi e nuovi conflitti, altri confini, del pezzo e della sua funzione pedagogica restano per tutti il sogno e non la rabbia, l’utopia e non la rivoluzione. Il rifugio, e la speranza. Una canzone pop.

Sorgente: Imagine, 50 anni di utopia – L’Espresso

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