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Marco Veruggio

Come ci dimostrano le vittime di queste settimane, da Luana D’Orazio ad Adil Belakhdim, in realtà la lotta di classe non se n’è mai andata, è stata semplicemente ricoperta dall’ipocrisia del “siamo tutti sulla stessa barca”. La pandemia e l’accelerazione impressa dalla “ripresa” ci impongono un bilancio, senza il quale i lavoratori sono destinati ad affrontare un futuro difficile inermi. 

 

Ci sono periodi in cui l’accelerazione e la concentrazione degli eventi fanno affiorare una tale quantità di spunti di riflessione che vale la pena di fermarsi un attimo e provare a interrogarsi e tirare qualche conclusione. Tra gli anniversari del 2021 cadrà il trentennale dello scioglimento dell’Unione Sovietica. Nel giorno di Santo Stefano del 1991 la bandiera dell’URSS sul Cremlino venne ammainata e al suo posto venne issato il tricolore russo. Il giorno prima Michail Gorbacev si era dimesso da presidente dell’Unione Sovietica, passando il testimone a Boris Eltsin agli altri leader della nuova Confederazione degli Stati Indipendenti. Quell’evento epocale, naturalmente, ebbe un impatto anche sul mondo occidentale. Dal collasso del cosiddetto “socialismo reale” i vincitori della Guerra Fredda tirarono come conseguenza l’idea che a essere tramontati non fossero solo quei regimi (che di socialista peraltro avevano ben poco) ma l’idea stessa da cui, nel bene o nel male, essi avevano tratto legittimazione. Cioè che, come scrissero Marx ed Engels nelle righe iniziali del Manifesto Comunista, la storia di ogni società è una storia di lotta di classe.

Chiuso il triennio iniziato con gli scontri a Piazza Tien an Men e la caduta del Muro e conclusosi con la fine dell’URSS ad affermarsi è stata, quindi, anche una nuova “narrazione” sociale conciliatoria e tranquillizzante. Era finito il tempo della lotta di classe, dei padroni e degli operai: i lavoratori diventavano collaboratori che stanno sulla stessa barca del loro datore di lavoro e nel mondo della globalizzazione semmai bisogna fare squadra per spuntarla nella competizione internazionale. Sergio Marchionne fu uno dei teorici di questa nuova filosofia, in cui gli operai della FIAT venivano arruolati per combattere contro le Big Three dell’auto americane, Renault, Volkswagen e Hyunday e dunque il conflitto si spostava da Mirafiori, Melfi e Pomigliano ai mercati internazionali. Anche se per affermare questa sua filosofia l’ad del gruppo torinese non esitò a ingaggiare in quegli stabilimenti uno scontro frontale con la FIOM, all’epoca dipinta come portatrice della vecchia concezione del mondo. Per suggellare questo cambiamento fu importata da oltre oceano la formula win-win, a indicare che le dinamiche sociali non erano più un gioco a somma zero, dove se qualcuno guadagna qualcun altro inevitabilmente perde, ma che ora si vince tutti insieme (perché del loose-loose non si occupò nessuno).

 

Quando poi tutta questa ubriacatura di mercato cominciò a scontrarsi con la realtà, cioè una crescita abnorme delle diseguaglianze in tutto il mondo e all’interno delle nostre stesse società, qualcuno nel salotto buono del capitalismo italiano, in particolare al Corriere della Sera, pensò di addossarne la colpa alla politica, troppo intenta a conservare il consenso e i propri privilegi di “casta” per procedere speditamente alle riforme “di cui il paese ha bisogno”. Ma siccome non tutte le ciambelle vengono col buco una volta lanciata la campagna contro la Casta a prendere il volante fu chi, a differenza dei suoi promotori, con la Casta poteva dimostrare di non aver mai avuto nulla a che spartire. Il Movimento Cinque Stelle, sottratta la bandiera dell’antipolitica a chi l’aveva agitata inizialmente, plasmò anche una propria narrazione sociale: il conflitto tornava all’interno dei confini nazionali, ma non era più quello “novecentesco” tra sfruttatori e sfruttati, ma aveva come protagonisti “cittadini” e “casta”. La vecchia distinzione tra sinistra e destra non aveva più ragion d’essere e l’idea dei lavoratori che stanno sulla stessa barca dei loro datori di lavoro trovava la sua massima espressione nella retorica della piccola impresa, altra bandiera strappata di mano da chi per primo l’aveva agitata negli anni precedenti.

Tre anni di governo e la parabola del “populismo” a livello internazionale ci permettono di guardare con disincanto a un decennio di “grillismo” e giudicarlo sulla base dei fatti. Il non essere né di destra né di sinistra si è rivelato, com’era prevedibile, sinonimo di essere di centro, e tornava in auge una delle tattiche parlamentari della Prima Repubblica: la politica dei due forni ovvero posso allearmi sia con la destra sia con la sinistra, perciò sono il vero ago della bilancia della politica nazionale. Mentre la retorica sociale si è dimostrata per un verso un semplice stratagemma propagandistico per raccattare voti, per un altro un’incongruenza interna al Movimento Cinque Stelle destinata a essere sacrificata rapidamente sull’altare della “responsabilità” e delle convenienze istituzionali. Perciò, se caricare sul bilancio dello Stato i costi del reddito di cittadinanza, attirandosi i rimbrotti delle imprese che lucrano sul ricatto occupazionale, era tutto sommato accettabile, caricare sui bilanci aziendali il costo di un aumento generalizzato dei salari attraverso la fissazione del salario minimo per legge si è rivelato un sogno irrealizzabile per un movimento interclassista legato alla piccola borghesia come i Cinque Stelle.

Gli avvenimenti dell’ultimo anno e mezzo, con un capitalismo italiano travolto dalla pandemia e incapace di reagire anche grazie a 30 anni di tagli alla spesa sanitaria, ma soprattutto l’accelerazione impressa dall’uscita dall’emergenza mettono sul tavolo tutte la carte necessarie a fare un bilancio più generale. Il cinismo con cui il mondo delle imprese ha dimostrato di essere pronto a fare strage di intere famiglie o a esporre una ragazza di 22 anni a una morte atroce – essere stritolata viva da una macchina – in nome dei bilanci e della produttività, a quasi tre anni dal crollo di Ponte Morandi, dovrebbe rappresentare una doccia sufficientemente fredda da riportarci alla realtà. E se non basta possiamo aggiungere una campagna martellante contro i lavoratori che non hanno voglia di lavorare e che si presentano ai colloqui con la sfrontatezza di chiedere salario e orari di lavoro; un’altra campagna contro i garantiti, cioè coloro che durante la pandemia hanno avuto il privilegio di continuare a lavorare oppure di sopravvivere con 800 euro al mese di una cassa integrazione pagata con sei mesi di ritardo; la propaganda per cui a essere colpite dalla pandemia sarebbero state prima di tutto le imprese, ignorando interi settori – telecomunicazioni, grande distribuzione, logistica, settore farmaceutico ecc. – che grazie al Covid hanno fatto soldi a palate, per non parlare di quella folta schiera di imprese che ha beneficiato della cassa integrazione senza aver perso un solo euro di fatturato o addirittura continuando a far lavorare i dipendenti; le aggressioni, ripetute e tutt’altro che casuali, ai lavoratori della logistica che pochi giorni fa sono costate la vita a un sindacalista del Si Cobas. E infine l’insistenza del Governo sullo sblocco dei licenziamenti e il suo intervento per liberalizzare gli appalti.

 

È la cruda realtà che per trent’anni si è cercato di occultare dietro l’ipocrisia del win-win e del “siamo tutti sulla stessa barca” e se vogliamo che queste morti, che ormai purtroppo ci sono state, abbiano almeno un senso – quello di far sì che le cose non continuino a ripetersi uguali a se stesse – questo è il momento per tirare qualche conclusione. A dispetto di tutti i cantori della modernità la lotta di classe non è mai sparita dalla scena della storia e lo stillicidio di vittime di queste ultime settimane ce lo ricorda con impietosa evidenza. Non si tratta di eccezioni o di episodi isolati: sono tutte vittime di uno scontro in cui qualcuno difende non solo il proprio fatturato, ma più ancora l’idea che nella propria azienda può fare quel che vuole – mettere i forchettoni, disinstallare la saracinesca o assoldare dei picchiatori – perché è “casa sua” e lo Stato (si veda l’inerzia della polizia quando il picchetto alla FedEx di Lodi è stato aggredito) sta a guardare. Affrontare i prossimi mesi e le crisi che ci aspettano, a partire dallo sblocco dei licenziamenti, con questa idea chiara nella mente significa essere quanto meno armati di una coscienza senza la quale saremmo completamente inermi e impreparati ad affrontare gli eventi e a difenderci. Il resto dovrà venire di conseguenza e certo non verrà da solo, ma costerà studio, elaborazione e sacrifici, incluso l’impegno di affrontare questa situazione guardando non solo all’Italia, ma anche a quanto succede almeno a livello europeo. Intanto però diciamo: ben tornata lotta di classe!

 

L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 22 giugno.

Sorgente: BENTORNATA LOTTA DI CLASSE! – GLI STATI GENERALI

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