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19 May 2024
0 27 minuti 2 settimane

La Spagna dei miracoli

L’economia iberica è tornata ad essere la migliore d’Europa. Il premier Sánchez non ha risolto il problema dell’instabilità politica, ma guarda al lungo periodo mettendo insieme equità, diritti e innovazione: “La competitività è di sinistra”

(guarda il video cliccando il link in fondo all’articolo)

Nell’ufficio di Diego Rubio c’è un quadro con una scritta nera su fondo bianco, in inglese: “La storia non è ancora stata inventata”. Ecco perché questo professore 38enne di Storia del pensiero politico, associato a Oxford, è stato chiamato da Pedro Sánchez alla Moncloa, la sede del governo spagnolo. A gennaio del 2020, all’inizio del suo secondo mandato, il primo ministro socialista gli ha chiesto di allungare lo sguardo oltre l’affanno della politica delle emergenze e le baruffe della politica elettorale, affidandogli una nuova direzione dedicata alla “Strategia di lungo periodo”. Un anno dopo, coinvolgendo un centinaio di accademici, Rubio ha prodotto “Spagna 2050”, uno studio di 607 pagine che analizza la traiettoria del Paese, i suoi punti di forza e di debolezza, e traccia un percorso per portarlo entro metà secolo all’altezza del nucleo più avanzato d’Europa, quello di Francia, Germania, Olanda e Svezia.

«Io non ho tessere di partito, nessuno della mia squadra», spiega Rubio, che dallo scorso novembre nel terzo governo Sánchez ha avuto anche la delega agli affari europei e allargato il team a 50 persone. Tutti dottori di ricerca, età media 35 anni, molti rientrati dall’estero: in uno degli edifici della Moncloa hanno raso al suolo le pareti in modo che possano lavorare in un unico ambiente aperto, anziché in stanzette da burocrati. «Le nostre analisi partono delle evidenze, non dall’ideologia – dice – . Ma sono le evidenze che puntano verso un’agenda di sinistra».

Tesi impegnativa: gli chiediamo cosa significhi, per il suo governo, “sinistra”. La risposta tiene insieme due aspetti difficili da conciliare di questi tempi, nei discorsi e nella pratica: la trasformazione, «essere i primi ad abbracciare i cambiamenti tecnologici, perché chi lo fa vince»; e l’equità, «non si può essere competitivi abbassando salari, diritti dei lavoratori e standard ambientali, perché nel mondo globalizzato ci sarà sempre qualcuno che ribasserà di più. Per questo abbiamo cambiato strategia».

L’eccezione spagnola

La Spagna è un’eccezione. In un’Europa dove le destre estreme avanzano ovunque e molti partiti provano a contenerle spostandosi nella stessa direzione, ormai da sei anni a Madrid governa – tra elezioni vinte o non perse – una maggioranza con un’agenda fieramente progressista, europeista ed ambientalista. La guida il 52enne Pedro Sánchez, unico sopravvissuto (politicamente) e fedele alla linea del gruppo di leader in camicia bianca che dieci anni fa si fotografò a una festa dell’Unità di Bologna, volti nuovi della sinistra europea. Che fine hanno fatto gli altri di quel “patto del tortellino”? Il francese Valls e l’olandese Samsom si sono ritirati dalla politica, il tedesco Post è tornato nei ranghi del partito socialista, Matteo Renzi, all’epoca segretario del Pd, oggi guida una forza molto centrista e molto poco centrale.

Non che Sánchez viva un momento facile, al contrario. Il suo terzo governo, nato dopo un’elezione in cui i Popolari di Alberto Núñez Feijóo sono stati il primo partito ma non sono riusciti a formare una maggioranza, è sostenuto da una variegatissima coalizione e appeso all’appoggio esterno delle forze indipendentiste, in cambio del quale lui si è impegnato ad approvare una controversa legge sull’amnistia per i promotori del referendum catalano del 2017, da Carles Puigdemont in giù. Domenica si vota proprio in Catalogna, e le tensioni con i partiti locali hanno bloccato l’approvazione della legge di Bilancio nazionale, con il risultato che quest’anno si procede in esercizio provvisorio.

Qualche giorno fa Sánchez ha anche minacciato di dimettersi, dopo l’apertura di un’indagine sulla moglie Begoña Gómez per traffico di influenze, scattata dopo l’esposto di un gruppo legato alla destra neo franchista. Ma dopo cinque giorni di meditazione privata è riemerso dichiarando che andrà avanti fino alla scadenza della legislatura, nel 2027. E magari anche oltre. Un colpo di teatro non nuovo, nella carriera di un politico abile nel gestire la propria immagine e il potere. O, versione dei suoi nemici, che il potere non lo vuole mollare. Resta il fatto che Sánchez lo ha usato per promuovere un «una nuova ortodossia», come ha detto a gennaio tra i big degli affari di Davos, «che combini crescita economica e redistribuzione». E che oltre a dire cose di sinistra, le ha fatte: l’Ingreso Minimo Vital, versione iberica del Reddito di cittadinanza; l’aumento del 50% del salario minimo, a quasi 1.300 euro; una riforma del lavoro che limita in modo radicale i contratti a termine; imposte temporanee su società energetiche, banche e grandi patrimoni per tenere i conti in equilibrio durante la pandemia; l’equiparazione del congedo di paternità a quello di maternità. Senza dimenticare i diritti, cavallo di battaglia dei socialisti iberici fin dai tempi arcobaleno di Zapatero: una norma sull’eutanasia; la “Ley trans” per l’autodeterminazione del genere; una legge sul consenso sessuale tra le più esplicite d’Europa, “Solo sì es sì”. Un menù di riforme da cui Elly Schlein ha tratto ampia ispirazione.

Ma quello che ha sorpreso molti è che questa svolta, un’inversione a “U” rispetto alla deregolamentazione selvaggia dell’era Rajoy, non abbia ingessato l’economia spagnola, nonostante le proteste e i presagi di sventura del mondo imprenditoriale. Al contrario: lo scorso anno il prodotto interno lordo è cresciuto del 2,5%, quasi tre volte più di quello italiano, e sia quest’anno (al 1,9%) che il prossimo (2,1%) dovrebbe restare secondo le previsioni ben sopra alla media della zona euro. Martedì scorso, poche ore dopo che Sánchez scioglieva la riserva sul suo futuro, i dati del primo trimestre 2024 confermavano il primato iberico: mentre a Berlino si esultava per un +0,2%, e a Roma per un decimo in più, Madrid incassava un +0,7%. La conferma che la Spagna esce dalla doppia crisi di pandemia e iper-inflazione con passo da locomotiva, oltre che con un tasso di disoccupazione, suo storico tallone d’Achille, che resta altissimo (11,8%) ma è ai minimi dalla crisi finanziaria.

 

Sanchez a Davos: “Competitività economica e benessere dei cittadini non sono incompatibili”

 

Il vecchio e il nuovo

La prima domanda è quanto sia favorevole congiuntura, e quanto invece una strutturale correzione del modello di crescita, destinata a durare nel tempo. La seconda è quanto vada attribuito alle politiche di Sánchez. Le risposte degli esperti, ad entrambe le domande, sono caute. Perché la Spagna è sempre cresciuta in modo “estensivo”, trainata dai settori ad alta intensità di manodopera e basso valore aggiunto come le costruzioni o il turismo, più che da quelli ad alta incidenza di investimenti, capitale umano e innovazione. Un elastico veloce nello scattare ma anche nel ritrarsi. All’apice di uno di questi cicli, era il 2007, un altro rampante premier socialista di nome Zapatero proclamò uno storico sorpasso sull’Italia per Pil pro capite, salvo vedere la crisi finanziaria travolgere il suo Paese e affogarlo in una recessione lunga e nerissima. Quel sorpasso sull’Italia non c’è più stato.

Anche durante l’emergenza Covid l’economia spagnola è caduta bruscamente, tonfo che spiega in parte l’energia del rimbalzo. E anche questa volta uno dei motori della ripartenza è stato il turismo. L’anno scorso sono arrivati 85 milioni di visitatori, record storico che fa impallidire i 60 milioni dell’Italia. Non sono più solo vacanzieri massa a caccia di movida, l’offerta si è ampliata e alzata di livello, ma resta pur sempre un punto di forza tradizionale. Come la massiccia immigrazione, che in un’Europa che invecchia garantisce alla Spagna un aumento di abitanti – un milione in più tra il 2022 e il 2023 – e forza lavoro. Si tratta soprattutto di cittadini dell’America Latina che grazie alla lingua si integrano con relativa facilità. Ma questo significa anche che la ricchezza divisa per teste è aumentata molto meno di quella totale: oggi supera di poco i valori pre-pandemia.

Dove la svolta di Sánchez sembra invece aver influito è sulla vitalità dei consumi delle famiglie, uscite prima e meglio che altrove allo shock dell’inflazione. La Spagna non dipendeva dal gas di Putin, ma il tetto al prezzo dell’energia negoziato con Bruxelles ha contribuito a contenere la fiammata delle bollette. Sussidi anti-povertà, salario minimo e riforma del lavoro – insieme a un generoso aumento delle pensioni – hanno sostenuto fiducia e potere d’acquisto. Il tempismo per introdurli è stato ideale, in un momento di ripresa e grandi assunzioni, l’incognita è cosa succederà quando tornerà una stagnazione o peggio una recessione. Gli imprenditori spagnoli, sempre più in rotta con Sánchez, fanno la stessa obiezione dei colleghi italiani: non si può irrigidire il mercato del lavoro, né alzare i salari senza che aumenti la produttività, altrimenti il loro costo sarà insostenibile. Da noi questa tesi è diventata la versione ufficiale della maggioranza, stroncando la proposta di salario minimo, in Spagna il governo ne ha sposata una opposta, cioè che proprio il fatto di avere a disposizione manodopera precaria e a basso costo abbia disincentivato le aziende a investire in produttività, e che queste misure le spingeranno ad aumentarla.

Non sono finite: il patto di governo tra Sánchez e la ministra del Lavoro Yolanda Díaz, leader della forza di sinistra radicale Sumar, prevede di ridurre la settimana lavorativa da 40 a 37,5 ore. E di rendere permanenti le tasse su imprese e redditi alti, nonostante gli attacchi quotidiani contro l’aumento della pressione fiscale da parte delle destre, che nelle regioni in cui governano provano a resistere con sgravi uguali e contrari. «Tocca a chi sta meglio», ripete spesso il premier, una consapevolezza sempre più diffusa a livello globale. Ma che quasi nessuno ha tradotto in pratica.

 

 

 

Scosse elettriche

C’è grande entusiasmo nella sede di Basquevolt. Dopo lunga attesa sono arrivati i macchinari della linea prototipo. I tecnici li hanno assemblati al piano terra, nell’aerodinamico edificio che doveva essere la sede di una scuderia di Formula 1 basca, e ora è stato recuperato a un progetto perfino più ambizioso ma si spera di maggiore successo: rivoluzionare il mercato delle batterie. Quelle che vuole produrre Basquevolt, un nome un programma, sono “allo stato solido” e sono il Santo Graal dell’industria elettrica perché rispetto agli ioni di litio che oggi accendono telefonini e auto elettriche promettono maggiore densità, minore peso e costi più bassi. «La chiave per arrivare a un’industria automobilistica 100% elettrica e sostenibile finanziariamente», spiega Francisco Carranza, manager di lunga esperienza nel settore che dirige Basquevolt. Le tecnologie sono quelle messe a punto qualche centinaia di metri più in là nello stesso parco tecnologico di Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, dagli scienziati del CIC energiGune, centro di ricerca sui materiali per le batterie creato dal governo della regione autonoma nel 2011. Il compito della startup ora è provare a trasformarle in prodotto, missione per cui Carranza ha assunto 80 giovani chimici e ingegneri di tutto il mondo.

Basquevolt è il prototipo delle imprese che servono alla Spagna per rendere la sua economia più varia e produttiva. Aziende che investono alla frontiera hi-tech, crescono e creano impiego specializzato e ben retribuito. I fattori di competitività ci sono, spiega Carranza: «Una forza lavoro qualificata», a un costo inferiore rispetto a Francia o Germania, e «un’abbondanza di energia verde a basso costo» grazie allo storico primato nell’eolico e alla crescita del solare. L’invasione dell’Ucraina, con la fine dell’era del gas russo a basso costo, hanno invertito l’equazione energetica europea, consegnando alla Spagna la prospettiva di prezzi strutturalmente più bassi rispetto ai vicini. L’anno scorso il Paese ha prodotto oltre il 50% dell’elettricità da fonti rinnovabili, primo dei big europei a superare la soglia, e mentre tanti governi frenano in nome di un presunto “realismo” l’obiettivo del governo Sánchez è accelerare la transizione, spegnendo nel frattempo il nucleare. La filiera verde, dalla generazione alle auto elettriche, dovrebbe essere il cuore della “reindustrializzazione” – parola del premier – del Paese.

 

 

I fondi europei del Recovery sono la grande occasione. Proprio come il governo Meloni, Madrid ha da poco rinegoziato il suo Piano, lievitato a 180 miliardi di euro, secondo solo a quello italiano. Anche le criticità sono simili: le risorse spese sono appena il 10%, stimava a metà dello scorso anno Standard & Poor’s, ipotizzando che pure la Spagna dovrà chiedere una deroga sulla scadenza del 2026; governo ed enti locali litigano; non c’è trasparenza sull’avanzamento di bandi e cantieri.

Sembra esserci più coerenza però, visto che gran parte delle risorse sono concentrate su transizione e modernizzazione industriale attorno ai cosiddetti Perte, “progetti strategici di ripresa e trasformazione” che puntano a stimolare gli investimenti in undici settori chiave. Il bilancio per ora è in chiaroscuro. Nell’automotive, dove la Spagna è già il secondo produttore europeo – 2 milioni e 420 mila veicoli contro gli 840 mila dell’Italia – i quasi 5 miliardi stanziati hanno permesso di attirare investimenti per nuove linee elettriche. Quelli di multinazionali già presenti nel Paese, come Volkswagen (padrone di Seat) e Stellantis, e new entry come la cinese Chery, che il mese scorso, sotto gli occhi di un sorridente Sánchez, ha inaugurato i lavori all’impianto di Barcellona, il primo di una società cinese in Europa. Era tra le case corteggiate anche dal governo italiano, ha scelto i vicini.

Nel settore dei chip invece, dove i miliardi sono addirittura 12, la Spagna parte da zero e il rischio è di costruire cattedrali nel deserto. Nell’idrogeno, di cui vuole diventare un hub europeo producendolo sotto il solleone d’Andalusia e poi trasportandolo a Nord, il piano è stato rallentato dalle incertezze sulla tecnologia. L’idea di Sánchez è che lo Stato debba giocare un ruolo guida nell’economia, presidiando una serie di settori strategici. Idea che si traduce da un lato in queste ambiziose politiche industriali, più vicine a quelle di Francia e Germania che agli altri Paesi del Club Med, e dall’altro nella scelta di acquisire un 10% nell’azionariato del campione nazionale delle telecomunicazioni Telefónica. Ma fino a che punto i soldi pubblici verranno spesi con efficacia e faranno da volano a quelli privati, è questione dibattuta. Un indicatore che in Spagna non ha recuperato i livelli pre-pandemia sono proprio gli investimenti, con quelli in ricerca che stagnano all’1% del Pil, la metà della media europea. Pesa il nanismo delle imprese, con una produttività che negli anni è cresciuta poco più di quella italiana, cioè quasi per nulla, e senza le multinazionali tascabili che sono la forza del Made in Italy.

Carranza di Basquevolt aggiunge un dubbio: «I fondi dei Perte sono tutti dedicati abbassare i costi fissi dei nuovi stabilimenti industriali, per lo più di società straniere, ma non coprono la ricerca: non aiutano chi come noi sviluppa nuove tecnologie». La piccola parte di risorse europee che la startup è riuscita ad ottenere è legata al fatto che fra qualche mese anche lei costruirà una piccola fabbrica pilota. Per il resto deve ringraziare il governo basco, una specie di Trentino-Alto Adige spagnolo per autonomia fiscale, ricchezza e visione: «Il supporto che i nostri concorrenti hanno in Francia e Germania è di tutt’altra intensità, l’impressione è che quei Paesi abbiano deciso dov’è il futuro, noi ancora no».

 

 

 

Una Spagna, tante Spagne

Se c’è un luogo che incarna il buon momento della Spagna, quello è Madrid. Durante la pandemia, sotto la spinta dell’amministrazione locale nelle mani dei Popolari e nonostante grandi tensioni con il governo, la capitale ha limitato al minimo le chiusure, coltivando un’immagine di apertura che ha rubato risorse e riflettori a Barcellona, penalizzata dallo strappo non sanato dell’indipendentismo. Efficiente, pulita, creativa: Madrid attrae, lo suggerisce lo sguardo e lo confermano i numeri. Attrae persone: ricchi immigrati latino-americani in fuga da regimi, poveri immigrati in cerca di lavoro, professionisti e nomadi digitali alla ricerca di un posto al sole. E attrae investimenti: uffici di multinazionali dei servizi e progetti immobiliari, come dimostra la foresta di gru nella parte Nord, attorno allo stadio Bernabeu, casa-museo in ristrutturazione del Real, e alla stazione Chamartín. Ha tre delle business school più prestigiose d’Europa e un numero crescente di startup, aiutata da una nuova legge nazionale che incentiva visti e investimenti: l’ecosistema innovativo non è ai livelli di Londra o Parigi, ma stacca il resto dell’Europa mediterranea. Due dei punti di forza del Paese, digitalizzazione e ottime infrastrutture, qui sono evidenti.

Ma Madrid è anche l’emblema di un paradosso della Spagna, dove a una percezione di dinamismo sociale che a occhi italiani fa invidia si accompagna il terzo tasso di diseguaglianza più alto d’Europa, inferiore solo a quello di Romania e Bulgaria. Dal centro scintillante basta fare qualche chilometro verso Sud, storicamente l’area più povera, per capire quanto sia profonda la spaccatura e come colpisca soprattutto i giovani. «Quelli che si rivolgono a noi sono sempre più fragili», racconta Inmaculada Iglesias, dirigente della Fundación Iter. Nata nel 2007, la no profit si occupa di supportare ragazzi tra i 18 e 24 anni a rischio di esclusione sociale. Sono giovani con la licenza media, in un Paese dove il tasso di abbandono scolastico è il più alto dell’area Ocse. Che non trovano un lavoro, in un Paese dove la disoccupazione giovanile resta al 27,9%, la più alta dell’eurozona. Sono le vittime di un’emergenza che sta peggiorando, numeri alla mano: «Noi ammettiamo cento persone al mese e sono arrivate 600 domande, mentre l’indicatore di fragilità che usiamo per decidere a chi dare la priorità è del 20-25% più alto rispetto a tre anni fa».

Iter limita la formazione a un corso di un mese – autostima da ricostruire, qualche nozione base sul mondo del lavoro – per poi provare subito a indirizzare i ragazzi verso un impiego. Nella sede di Leganés, in un palazzone con sala bingo al pianterreno, incontriamo fuori dalla classe Alexander, Eduardo, Johan, e Fatima. Raccontano le circostanze che li hanno portati a lasciare gli studi, di famiglie tenute in piedi da un solo stipendio, al minimo o giù di lì, del caro affitti che si porta via ben oltre la metà delle entrate. La rete di protezione sociale in Spagna fa acqua da tutte le parti e le politiche dei governi di sinistra, pur inquadrando il problema, hanno solo iniziato ad affrontarlo, con strumenti la cui efficacia va ancora verificata. Tra le famiglie dei ragazzi quasi nessuna percepisce l’Ingreso Minimo Vital, difficile da ottenere e facile da perdere, motivo per cui spinge molti a rifiutare dei contratti di lavoro, con cui non è cumulabile.

Molti dei ragazzi vorrebbero rimettersi a studiare e ottenere almeno un diploma professionale, per salire dal livello degli impieghi in nero e poveri, operai non specializzati, badanti, personale di pulizia, a quelli un po’ meno poveri, commessi, infermieri, elettricisti, tecnici di fotografia. Tutti gli osservatori riconoscono che il sistema educativo spagnolo, che pure al vertice della piramide produce più laureati di quello italiano, abbia bisogno alla base di una revisione profonda. Il governo Sánchez cita il numero record di iscritti alle scuole professionali, a lungo bistrattate, come la prova di un’inversione di tendenza e ha in programma una riforma dell’istruzione. Iglesias è scettica, ne ha viste tante, una per ogni cambio di maggioranza: su questo, dice, ci vorrebbe un’intesa trasversale. Una specie di utopia.

 

 

La convergenza che non c’è

Che i problemi strutturali restino profondi – e non così diversi da quelli dell’Italia – lo ha detto di recente la Banca di Spagna, riconoscendo che l’economia si è mostrata molto resiliente, ma aggiungendo che da dieci anni a questa parte «non si vede una convergenza strutturale in termini di reddito pro capite con la media europea». A questi ritmi di crescita la Spagna potrà pure riavvicinarsi all’Italia, magari perfino superarla, ma entrambe continuano ad allontanarsi dal nucleo più avanzato dell’Unione, che attira talenti e capitali.

La Banca centrale cita diverse criticità, anche queste familiari per noi mediterranei. Una sono i conti pubblici. Perché se è vero che lo spread spagnolo è congelato a 70 punti base, la metà del nostro, e che dopo l’impennata pandemica il debito è in calo al 107% del Pil, per evitare che torni a salire la riforma delle pensioni di Sánchez richiederà presto una correzione. Che si aggiungerà a quelle energiche imposte dalle regole del nuovo Patto di stabilità, simile a quella che attende l’Italia.

Il messaggio è chiaro. Nei prossimi anni qualsiasi governo dovrà ridurre il disavanzo. E visto che le tasse non si possono alzare all’infinito la crescita andrà stimolata facendo le riforme strutturali, quelle previste del Piano di ripresa spagnolo e altre: riforma del fisco, della scuola, dei sussidi di disoccupazione, di un settore pubblico in cui il governo ha stabilizzato molti precari ma i cui livelli di efficienza stanno diminuendo

 

 

Spagna, Sánchez non lascia: “Continuerò con più forza di prima”

 

Sánchez oppure Sánchez

Sono riforme per cui servono accordi larghi, ecco l’altra grande criticità. «La ricetta di sinistra del governo Sánchez c’è, un grande discorso basato sulla social democrazia e sull’essere una diga contro l’estrema destra in Europa», dice Fernando Vallespín, professore di Scienza politica all’Università Autonoma di Madrid, «ma è presto per dire se avrà successo o meno». La frammentazione dentro la coalizione di governo è a livelli di guardia, come testimonia la sostanziale paralisi delle ultime settimane, la polarizzazione politica e sociale oltre. Quella tra centro e periferia, con le forze autonomiste che dopo aver chiesto e ottenuto dal premier la legge sull’amnistia – attesa a breve all’approvazione definitiva – ora pretendono di tenersi una fetta maggiore delle loro tasse. E quella tra destra e sinistra, nonostante fino ad oggi in Spagna i grandi partiti “tradizionali”, socialisti e popolari, abbiano retto e la destra iper nazionalista e reazionaria di Vox non abbia sfondato, con grande delusione della supporter Giorgia Meloni.

Sánchez non è estraneo a questa polarizzazione, che infiamma le cronache e orienta gli elettori più della crescita economica. Dalla scelta di concedere agli indipendentisti l’amnistia, alla recente minaccia di dimettersi, denunciando un attacco alla democrazia, e poi ripartire come se niente fosse: per l’opposizione è stata la dimostrazione di come il “sanchismo” stia degenerando in un caudillismo sudamericano, per alcuni commentatori, come lo stesso Vallespín, una forzatura istituzionale che avrebbe richiesto una nuova fiducia del Parlamento, per tutti una prova di forza con cui il premier ha voluto personalizzato lo scontro. o me o loro.

Sembra averla vinta, stando agli ultimi sondaggi che proiettano i socialisti sopra i popolari e verso una vittoria nelle elezioni catalane. “Molti si sono resi conto che non c’è alternativa a Sánchez, dentro e fuori il partito socialista”, ha scritto in un editoriale El País. Per un leader progressista, di questi tempi, rivelarsi indispensabile è un discreto miracolo, ma si tratta di capire se basterà a ridare slancio anche alla sua agenda, o se l’eccezione spagnola si scioglierà nel magma politico incandescente. «Il rischio c’è», ammette Diego Rubio, lui che alla Moncloa ha la missione di guardare lontano, aggiungendo però che questo governo non cadrà finché non lo decide Sánchez. «È più difficile approvare leggi? Sì. È più difficile raggiungere accordi? Sì. È un male per il Paese? No. Va contro il progetto di lungo periodo? Non credo, perché è un progetto basato su ciò che funziona, non sull’ideologia».

 

Sorgente: Spagna, il miracolo economico di Sanchez tra welfare state e riforme – la Repubblica

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