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«Google sta chiudendo ma bisogna innovare e credere nell’open internet», dice Ilaria Zampori, gm Italia e Spagna di Quantcast. Che vede un futuro in cui privacy e identificazione universale possono coesistere

Un mondo in costante cambiamento. La pubblicità digitale si sta preparando ad affrontare una nuova, profonda trasformazione. Non è la prima e certamente non sarà l’ultima. Google nel suo browser Chrome ha deciso, come già hanno fatto Safari e Firefox, di bloccare i cookie di terze parti, i piccoli frammenti di informazione che vengono salvati all’interno dei computer dei naviganti per tracciarne i percorsi online.

Dal 2023 questa rivoluzione bloccherà la possibilità per tutte le terze parti che non siano Google (che invece sta sviluppando altri modi per tracciare i naviganti in esclusiva) di vendere inserzioni pubblicitarie sulla base della navigazione degli utenti sui vari siti. È una situazione che ha già provocato la reazione delle associazioni degli editori Ue (Enpa ed Emma) che ribadiscono che Google gioca questa carta per bloccare i concorrenti, perché in realtà già da anni “è in grado di fare un uso molto più sofisticato della pubblicità personalizzata rispetto ad altri”. Una visione diversa, insomma, dal “privacy first web” presentato dalla stessa Google.

In realtà non è l’unica sfida per l’industria della pubblicità basata sull’open internet: anche i cosiddetti wallet garden, le piattaforme chiuse che non consentono a terze parti di vendere pubblicità direttamente, come Facebook, Twitter ed Amazon (i cui ricavi della pubblicità hanno superato la gallina dalle uova d’oro del cloud di Aws), stanno costruendo un ostacolo crescente. Al quale l’industria reagisce anche con l’innovazione.

 

Abbiamo chiesto a Ilaria Zampori, General Manager Italia e Spagna di Quantcast, multinazionale della tecnologia per l’advertising online, che ha da poco presentato una sua nuova piattaforma basata sull’intelligenza artificiale che consente a brand, agenzie ed editori di conoscere e accrescere la propria audience, cosa secondo lei stia succedendo. A cominciare dalla mossa di Google.

 

Che impatto può avere?
Non è simbolico: il browser Chrome di Google ha circa il 70% del mercato. Prima di Google si è mossa Apple con la Intelligent tracking prevention di Safari, ma la quota di mercato della casa di Cupertino è molto più bassa. La mossa di Google raggiunge molti più consumatori: si va veramente verso una rivoluzione epocale dell’ecosistema.

Cosa succede adesso?
Ci sono quattro possibili scenari: consegnamo il controllo agli ecosistemi chiusi come Google, Facebook ed Amazon, ma questo avrà un impatto sulla coda lunga di Internet, perché gli editori più piccoli non sopravviveranno; mettiamo tutti i siti a pagamento, ma abbiamo già visto che questo approccio non funziona e fa calare fortemente le visite; mettiamo dei sistemi di login per accedere ai contenuti, ma diventa tutto molto scomodo per gli utenti; infine collaboriamo per un equilibrio migliore. Ecco, noi lavoriamo per quest’ultima ipotesi con le associazioni di settore, i consorzi e cercando di fare innovazione.

Quali sono i possibili sviluppi possibili se veramente si va verso un mondo senza cookie di terze parti?
Ci sono due strade. Una è l’approccio “contextual and cohorts”, cioè targettizzare grandi gruppi di consumatori per il tipo di siti che visitano e per fasce d’età in modo “meccanico”. È un passo indietro, verso una pubblicità che non serve bene l’utente, che spesso non è per lui rilevante. L’altro è l’approccio “identity”, che crediamo sia il migliore.

Come funziona?
Ci sono due modalità: quella deterministica, che identifica in modo anonimo i consumatori usando dati relativi ai suoi apparecchi (sistema operativo, un identificatore unico per ogni utente che tiene conti di molteplici dispositivi), e quella probabilistica, che invece analizza con l’intelligenza artificiale i comportamenti anonimizzati del consumatore e che può scalare e quindi dare i volumi. Secondo noi sono perseguibili entrambi insieme. E sono molto importanti.

Perché questa è la strategia migliore, per voi?
Crediamo molto nell’approccio basato sulla identity perché riteniamo sia molto importante mantenere l’idea di open internet senza sacrificarla insieme ai cookie di terze parti. La cosa importante è l’open internet: ci sono 5 miliardi di persone al mondo che passano metà del loro tempo su internet e tutto questo è possibile grazie all’open internet, grazie a un modello di internet aperta basata sulla pubblicità. Uno dei peccati originali della rete è stato non aver comunicato in maniera trasparente al consumatore qual è il suo ruolo all’interno dell’ecosistema e quanto sia importante avere il suo consenso alla pubblicità facendo in modo che sia lui a decidere dove finiscono i suoi dati. È il tema più importante per la pubblicità profilata e personalizzata. Perché l’ecosistema possa sopravvivere il finanziatore deve essere la pubblicità.

La pubblicità basata sul tracciamento non è criticata solo da parte degli attivisti ma anche di molti governi, sempre più sensibili al tema della privacy. E la diffusione su larga scala degli ad-blockers, i software che bloccano il tracciamento, viene letta come un grande voto di sfiducia da parte del pubblico degli utenti a questo modello di pubblicità percepita come invasiva. Come risponde a questa critica?
È proprio da là che siamo partiti, analizzando qual è stato il nostro errore. Internet è stata geniale nel mettere a disposizione una moltitudine di contenuti gratuiti, che non era possibile in nessun’altra forma. La pecca però è stata che non ha comunicato in modo trasparente con il consumatore. Sostenere l’open internet vuol dire far capire ai consumatori che la pubblicità è fondamentale: è quello che permette loro di fruire di notizie e contenuti che vengono da fonti diverse. Se il consumatore non comprende questa cosa, abbiamo impatti sulla coda lunga di internet molto importanti: gli editori piccoli non sopravvivono. Diventa quindi anche una questione di diversità e pluralità dell’informazione. Per questo ritengo che sia importante dire chiaramente che il finanziatore principale dell’internet è la pubblicità. Per far sopravvivere l’ecosistema occorre comunicare con il consumatore e presentargli l’importanza del suo consenso. È importante che si usino in maniera anonima i suoi dati così ho pubblicità più profilata e rilevante, e poi mettere nelle mani del consumatore la scelta: come si utilizzano i dati online e in che modo.

La normativa europea del Gdpr serve anche a questo. Che risultati a prodotto, dal suo punto di vista?
Il Gdpr ha complicato troppo le cose per il consumatore, che vede i pop up per la navigazione con informazioni di tipo complesso, strutturate in modo molto legale. Bisogna andare verso un mondo fatto di maggiore trasparenza, con il ruolo importante del consumatore dentro l’ecosistema.

Infine, un commento sulla notizia che Google ha raggiunto un accordo per pagare gli editori per poter pubblicare stralci di articoli nei risultati delle sue ricerche. Cosa ne pensa?

È una buona notizia: è una piccola rivincita degli editori che si sono sentiti schiacciati dall’approccio di Google, che nel suo mondo permette al consumatore di fruire i contenuti che non produce direttamente. È un passo in avanti che va in direzione del diritto d’autore in Europa e delle sentenze Antitrust. Ripeto: nient’altro che una buona notizia.

Sorgente: Senza i cookie il futuro della pubblicità online è nell’Identity – La Stampa

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