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Studiose e attiviste sostengono che l’approccio al lavoro sessuale andrebbe cambiato per eliminare lo stigma e migliorarne le condizioni

di Giulia Siviero

Nel 2005, a Bruxelles, una grande assemblea di sex workers scrisse collettivamente un manifesto per esaminare le ingiustizie presenti nelle loro vite, metterle a confronto, «contestarle» e proporre i cambiamenti necessari per creare una società nella quale i loro diritti e il loro lavoro venissero riconosciuti. C’erano donne, persone trans, qualche uomo, provenivano da 26 paesi e scambiavano servizi sessuali in contesti e in condizioni molto diverse tra loro. «Il sex work è per definizione sesso consensuale. Il sesso non consensuale non è sex work; è violenza sessuale o schiavitù» diceva il manifesto.

Nel dibattito pubblico, in tutto il mondo, questa distinzione prevale invece poco: si tende a considerare la questione come un fenomeno monolitico e la posizione più diffusa, anche all’interno di parte del movimento femminista, è che “tutte le prostitute sono delle vittime”. O di uno sfruttamento vero e proprio da parte di altri, o di un’oppressione interiorizzata.

Intorno al lavoro sessuale ci sono dunque immaginari stereotipati e opinioni spesso molto nette. Ci sono, soprattutto, il rifiuto e la discriminazione che una certa morale collettiva impone su tutto quello che ha a che vedere con la sessualità: che impedisce il riconoscimento del lavoro sessuale come lavoro, e che direttamente o indirettamente lo criminalizza.

Manifestazione fuori dal Parlamento scozzese, Edimburgo, Scozia, 25 novembre 2020 (Jeff J Mitchell/Getty Images)

Non un’unica storia
Nell’immaginario collettivo lo scambio di sesso per denaro rimanda immediatamente a due stereotipi ben radicati: quello delle donne di strada straniere sfruttate, e quello di una piccola élite che esercita la professione d’alto bordo. A loro volta, le persone protagoniste di questa storia unica incarnano perfettamente il ruolo della vittima, da una parte, o della “puttana” dall’altra.

La sociologa Giulia Selmi, che fa parte di Grips, Gruppo di ricerca italiano su prostituzione e lavoro sessuale, spiega al Post che questi stereotipi si nutrono a loro volta di dicotomie: «Da un lato c’è la vittimizzazione, cioè l’idea che tutte le persone che vivono di redditi guadagnati da lavoro sessuale siano vittime di abusi e quindi incapaci di esprimere una capacità di agire dentro la propria vita e di fare delle scelte. Dall’altro lato ci sono le cosiddette escort, le “squillo”: le donne a cui piacciono i soldi facili. L’esperienza reale abita nelle enormi sfumature che stanno nel mezzo».

«Prima di diventare una escort lavoravo nel teatro, facevo spettacoli, animazione e intrattenimento, ma venivo pagata poco. Poi mi sono iscritta a psicologia per fare un salto lavorativo; e mentre studiavo ho pensato che avrei dovuto trovare qualcos’altro. Al sex work ci pensavo da quando avevo 20 anni (ora ne ho 32) ma prima non mi sentivo all’altezza, mi intimoriva. Poi mi sono detta: proviamoci. Perché adoro il sesso, ho sempre avuto una vita sessuale variegata, esplorativa, libertina. Avevo solo dei dilemmi etici: come mi sentirò a chiedere soldi? A mischiare al sesso la parte capitalistica? E invece mi sono trovata bene, fin dall’inizio. (…)

Ho scelto di fare questo lavoro in modo indipendente. I clienti me li scelgo io, decido io quali far entrare in casa mia e, se succede qualcosa, so anche come mandarli via. Ho potere anche sulla gestione dell’incontro, detto io le regole, se qualcosa non mi va lo dico chiaramente o lo faccio capire con dolcezza. Dico di no alle pratiche rischiose sul piano igienico sanitario (…) o a quelle pericolose (…).

Il sex work è un lavoro come un altro, per certi aspetti persino auspicabile. C’è la possibilità di lavorare in modo dignitoso, di avere buone entrate, più che con altri lavori. Per me è più auspicabile che lavorare in un call center, ad esempio. Per il fattore economico sicuramente, per la possibilità di scegliere i turni di lavoro e, se si fa selezione, anche per il tipo di lavoro in sé».

Parte di una storia raccolta dalla sociologa Elettra Santori e pubblicata su MicroMega 6/2020

Gli spazi dove avviene lo scambio, le forme con cui si esercita, le motivazioni, le persone coinvolte, le condizioni in termini di autonomia, negoziazione o sfruttamento, possono essere molte e molto diverse tra loro. Ed è per questo, suggerisce Selmi, che per restituire tale complessità si dovrebbe sempre usare un sostantivo plurale: lavori sessuali.

Chi, dove, come
Nonostante ad oggi in Italia non esistano dati certi per definire né numericamente né nei suoi vari aspetti il fenomeno della prostituzione, la fonte più affidabile per avere un quadro realistico è la mappatura nazionale coordinata dal numero verde antitratta e realizzata dalle unità di strada e di contatto che vi aderiscono. I dati dicono che la maggior parte delle persone che vendono prestazioni sessuali sono donne. Una componente significativa è rappresentata da persone trans, principalmente MtF, la sigla che indica la transizione dal genere maschile a quello femminile. In numeri più piccoli sono presenti anche uomini: per strada vendono prestazioni ad altri uomini e sono quasi totalmente stranieri, mentre al chiuso la clientela è principalmente femminile.

In Italia, dopo l’approvazione della legge Merlin che nel 1958 abolì le case di tolleranza, la strada, cioè lo spazio pubblico, divenne il luogo lecito in cui esercitare il lavoro sessuale. Il modello italiano è quello abolizionista: la prostituzione non è esplicitamente vietata dal codice penale, ma sono illegali alcune condotte collaterali come sfruttamento, agevolazione o adescamento. A partire dagli anni Novanta, come ha spiegato la sociologa Giulia Selmi in un numero di MicroMega del 2020, la prostituzione di strada ha modificato geografie e composizione: dai centri storici si è spostata nelle periferie, e le donne italiane che la esercitavano in condizione di autonomia sono state quasi completamente sostituite da donne straniere senza permesso di soggiorno «che lavorano spesso in condizioni di sfruttamento».

I dati più recenti confermano quanto osservato negli ultimi anni: una riduzione costante delle presenze in strada e la suddivisione di queste presenze femminili in due grandi gruppi: il 30 per cento circa delle donne proviene dal continente africano e il 60 per cento dall’est Europa. «A fronte di una narrazione pubblica che spesso identifica la prostituzione di strada come composta in gran parte da migranti irregolari, la mappatura ci restituisce una percentuale elevata di donne comunitarie» scrive Selmi.

La diminuzione dei numeri della prostituzione di strada non coincide con una diminuzione generale del fenomeno, ma con una modificazione delle sue forme. Le politiche migratorie sempre più restrittive e le politiche punitive nei confronti della prostituzione di strada applicate a livello comunale con multe e ordinanze in nome del decoro e dell’ordine pubblico hanno fatto in modo che, già dall’inizio del 2000, il lavoro sessuale si spostasse dalla strada agli spazi chiusi come appartamenti, locali di striptease o lap dance, camere in affitto, centri massaggi, e così via.

Manifestazione contro il divieto di lavorare durante la pandemia, Stoccarda, Germania, 6 agosto 2020 (Sebastian Gollnow/dpa)

Negli ultimi dieci anni, anche in Italia, così come nel resto del mondo, allo spazio pubblico e allo spazio chiuso si sono poi affiancate le dimensioni virtuali, forme di commercializzazione della sessualità che avvengono attraverso supporti tecnologici, e che funzionano sia come spazio di compravendita sia come vero e proprio spazio di interazione sessuale attraverso webcam (l’evoluzione della telefonia erotica degli anni Novanta, insomma).

Per le strade, al chiuso o su Internet, infine, le condizioni possono essere quelle di sfruttamento, il lavoro può essere svolto sulla base di accordi negoziati (le donne che lavorano ad esempio nei locali di lap dance possono concordare un patto con i titolari per l’utilizzo delle camere private), oppure in autonomia.

«Io ci sono entrata insieme alla mia coinquilina quando avevo 24 anni e per tre anni è stata la mia attività principale, il salario che mi permetteva di pagare per la mia sussistenza e le spese. Eravamo stufe di farci sfruttare a Roma per pochi euro come cameriere o nei call center o nei supermercati, stufe marce delle manate sul culo nei pub da parte dei proprietari, dei contratti a nero, di essere spremute come limoni infilando 3 lavoretti di merda e dover sottostare al nero degli affitti dei padroni palazzinari. Volevamo tutto e questo lavoro ci ha permesso per tre anni di essere autonome.

Certo, abbiamo scelto noi, ragazze bianche occidentali e istruite nelle scuole con il nostro diplomino utile solo ad essere sfruttate nel precariato. Abbiamo risposto ad un annuncio, ci siamo registrate come ragazze dello spettacolo, il contratto per ragazze di sala e via, è iniziata così. Per tre anni ho vissuto di notte nei locali notturni, la prestazione la stabilivamo fra di noi e sotto una certa cifra non si scendeva: una concertazione fra le stesse lavoratrici, esperienza che ho fatto fatica a trovare fuori, nel mondo diurno, che si definisce moralmente autorizzato a sfruttare».

“Sono femminista, sono sex worker”, Lettera pubblicata da Maddy sul sito di Ombre Rosse

Nonostante tutte queste articolazioni ed enormi differenze, c’è però qualcosa che accomuna tutte le condizioni di chi esercita la prostituzione: lo stigma.

Lo stigma della puttana
Lo stigma sulla prostituzione è un insieme di comportamenti, atteggiamenti e idee che disapprovano lo scambio di sesso per denaro, innanzitutto dal punto di vista della morale cristiana, per la quale il sesso risulta comprensibile soltanto all’interno del matrimonio e della riproduzione. Le donne che vendono sesso sono peccatrici. Questa lettura (la devianza della prostituta dal ruolo “normale” della donna all’interno della società) ha direttamente o indirettamente influenzato le successive visioni del fenomeno. Ma lo “stigma della puttana” funziona per tutte le donne, indipendentemente che vendano oppure no prestazioni sessuali.

Per spiegarlo, Giulia Selmi prende in prestito i concetti di purità e impurità usati dall’antropologa britannica Mary Douglas negli anni Cinquanta: «Il marchio di purità organizza la società su assi di diseguaglianza: muovendosi sull’asse della morale condivisa, allontana gli impuri per definire chi è puro». All’interno e al centro di questo dispositivo di disciplinamento c’è la sessualità: «La più grande invenzione del patriarcato è stata dividere le donne in donne perbene e donne permale, in base a come, con chi e a quanto sesso fanno o hanno fatto all’interno della loro vita» dice Selmi. «In questa divisione manichea le donne perbene sono quelle che stanno dentro a una relazione monogama, avocata alla cura e la cui sessualità è controllata dal dispositivo del matrimonio, mentre quelle permale sono le donne che trasgrediscono una certa idea di femminilità. Sante, da una parte, puttane dall’altra».

Basti pensare all’accezione negativa delle tante espressioni in cui la parola “puttana” è usata (“figlio di puttana” o “puttanata”). E a come il termine stesso, nelle sue molte varianti, venga spesso utilizzato come un’offesa rivolta a una donna con una vita sessuale libera e autodeterminata, contro cioè chi interrompe le regole sulle quali la società o i rapporti tra sessi sono stati costruiti: famiglia e riproduzione. «Si corre il rischio di essere una puttana per molte cose, che non sono necessariamente vendere professionalmente sesso» precisa Selmi. «Basta aver avuto più di un fidanzano da adolescente che ti ritrovi la scritta nel bagno della scuola».

Marginalizzazione, isolamento e discriminazione
Se in generale quello che lo stigma sanziona è soprattutto la reputazione, chi pratica la prostituzione (a prescindere dal genere) è “personificatǝ” dallo stigma: il lavoro definisce cioè l’intera persona e la persona diventa automaticamente quel lavoro. Un’attivista del collettivo femminista di sex worker Ombre Rosse usa come esempio una tipica frase riferita al lavoro sessuale: «”Vendi il tuo corpo”, mi si dice. La mia risposta è che il mio corpo torna a casa con me, non me ne taglio un pezzo per venderlo: io vendo prestazioni sessuali».

«La società impone una ”identità” e un “ruolo sociale” ai/alle sex workers che va oltre il riconoscimento che utilizziamo i nostri corpi e le nostre intelligenze come una risorsa economica individuale per guadagnare dei soldi.
L”identità” e il “ruolo sociale” che ci vengono imposti ci definiscono come intrinsecamente indegni/e e come minaccia all’ordine morale, pubblico e sociale; etichettandoci come peccatrici e peccatori, criminali o vittime; questo marchio di infamia ci separa dai/dalle “buoni/e” e “decorosi/e” cittadini/e e dal resto della società.

Questo marchio di infamia porta la gente a considerarci unicamente come “puttani/e” in modo negativo e stereotipato – il resto delle nostre vite e le diversità fra di noi diventano invisibili.

Questo ci nega un posto nella società. Per proteggersi ed assicurarsi un posto nella società la maggior parte dei/delle sex workers tengono nascosto il loro coinvolgimento nel sex work; molti/e interiorizzano la stigmatizzazione sociale di vergogna e di indegnità e vivono nella paura di essere scoperti/e e di conseguenza accettano gli abusi che vengono loro inflitti. L’esclusione sociale causata dalla stigmatizzazione dei/delle sex workers porta all’impossibilità di accesso alla sanità pubblica, agli alloggi, alle possibilità di un lavoro alternativo, all’isolamento e alla separazione dai figli.
(…) Affermiamo che il sex work è un’attività sesso-economica e non ha nulla a che fare con le nostre identità, il nostro valore e la nostra interazione sociale».

Dal Manifesto dei/delle Sex Workers in Europa, Bruxelles, 2005

Lo stigma è un processo sociale che «produce marginalizzazione, isolamento e discriminazione» spiega Selmi. E ha effetti molto concreti su chi lo subisce: incide realmente sui corpi e sulle vite, produce materialmente varie forme di violenza (fisica, psicologica, simbolica, istituzionale), e spesso considera le violenze subite come intrinsecamente e inevitabilmente legate al tipo di lavoro.

Nel 1982 Pia Covre contribuì a fondare in Italia il Comitato per la tutela dei diritti civili delle prostitute, ed è una figura storica dell’attivismo. Al Post spiega che uno dei primi effetti quotidiani dello stigma è l’isolamento: «Si vive nell’ombra, si fa una doppia vita, spesso la famiglia viene tenuta all’oscuro altrimenti ti sbatte fuori di casa, se hai figli pensano che tu non possa essere una buona madre, anche se non è certo dimostrato che le puttane siano madri peggiori delle altre, e la minaccia costante è che ti vengano tolti. Non è facile trovare una casa in affitto, trovare un altro lavoro o mantenerlo se chi ti ha assunta viene a sapere cosa facevi prima. E poi ci sono la mancanza di credibilità: in generale e all’interno del sistema giudiziario».

Come ha spiegato Ombre Rosse, lo stigma «condona, giustifica e motiva gli abusi, gli attacchi e le violenze» contro chi pratica il lavoro sessuale: «Ci rende ricattabili» e «in caso di rapporti violenti, una tale stigmatizzazione ci toglie la capacità di cercare aiuto e assistenza». L’offerta di servizi sessuali, racconta un’attivista del collettivo, non è un invito alla violenza: «Le persone pensano di potersi prendere delle libertà, con te e con il tuo corpo, come se fosse sempre a disposizione».

Lo stigma colpisce anche in altre direzioni: le persone che stanno accanto a chi fa un lavoro sessuale, chi compra questi servizi, e, spiega Covre, anche «chi sostiene le nostre lotte, ad esempio dentro al mondo accademico».

Lo stigma impedisce, soprattutto, di considerare il lavoro sessuale come un lavoro.

Sex work
Una delle strategie per lottare contro la stigmatizzazione è stata quella di inventare una nuova parola. Il termine sex work venne introdotto all’interno di una conferenza femminista dall’attivista Carol Leigh, lavoratrice del sesso del gruppo COYOTE e attivista femminista americana, alla fine degli anni Settanta: «L’uso del termine sex work definisce la nascita di un movimento. Riconosce il lavoro che facciamo piuttosto che definirci per il nostro status».

Il termine sex work permette di tener conto delle tante forme con cui si può praticare il sesso a pagamento, sottrae la prostituzione dal terreno della morale, della psicologia o della violenza e la inscrive nell’ambito del lavoro. Permette di riconoscere la capacità di agire e di organizzarsi per esigere diritti e protezioni, e mette al centro del discorso la collocazione sociale di chi lo pratica, non la sua sessualità o il suo genere.

Le prime organizzazioni di lavoratrici del sesso nacquero negli anni Settanta, sull’ondata dei movimenti delle donne di quel tempo, quando alcuni gruppi politici per i diritti delle prostitute e alcune prostitute cominciarono a prendere parola pubblicamente, spiegando la complessità delle loro esperienze e mettendo in crisi alcune delle idee più radicate sul commercio del sesso.

Contro
All’interno dei movimenti femministi la prostituzione è, storicamente, uno degli argomenti più divisivi. Molto spazio l’ha occupato il tema dell’abolizionismo che, con varie argomentazioni, conclude che la prostituzione non possa essere considerata una forma di lavoro e vada abolita. Perché, dice chi sostiene questa tesi, non è mai esercitata come una vera e propria scelta, è una delle forme della violenza patriarcale e dello sfruttamento capitalista, è dannosa a livello individuale e per tutte le donne in generale.

Le argomentazioni sono molto articolate, ma semplificando si sostiene che la prostituzione rappresenti la forma estrema della disuguaglianza di genere, del dominio maschile sulle donne e della loro riduzione a oggetto sessuale. In questa interpretazione, le donne che si prostituiscono e che la rivendicano come una scelta collaborano attivamente a promuovere il patriarcato. A questa disuguaglianza di genere, secondo alcune, si sommano le disuguaglianze sociali e di classe, cioè le condizioni materiali delle donne: la prostituzione, dunque, non sarebbe per loro un’opzione, ma sempre e comunque una forma di oppressione e di costrizione che quindi va eliminata.

Ci sono poi argomentazioni che si potrebbero definire essenzialiste, che considerano la sessualità e le pratiche sessuali come inseparabili dall’identità di una persona. Non si potrebbe dunque parlare di “commercio del sesso”: l’esperienza sessuale è ciò che compra il cliente, mentre dall’altra parte non è possibile vendere dei servizi sessuali, si vende sé stesse con gravi conseguenze per chi lo fa, simili a quelle causate da uno stupro.

Protesta di sex workers a Las Vegas, 2 giugno 2019. Gli ombrelli rossi, a partire da una marcia che si tenne a Venezia nel 2001 durante la Biennale, sono il simbolo del Movimento Internazionale dei/delle sex workers (AP Photo/John Locher)

“Sex work is work!”
Negli anni Settanta, alcune militanti e teoriche femministe cominciarono a lavorare sulla divisione sessuale del lavoro: a mettere in discussione l’invisibilità del lavoro domestico e di cura come naturalmente destinato alle donne e svolto in forma gratuita, e ad analizzare il ruolo della sessualità all’interno di questo contesto e del contratto matrimoniale. Inquadrarono la sessualità come parte dei servizi (i doveri coniugali) che le donne dovevano obbligatoriamente fornire agli uomini.

La filosofa e attivista femminista Silvia Federici, raccontando quella svolta teorica e politica, l’ha spiegata così:

«Si è capito – e il movimento femminista l’ha analizzato – che gli uomini si vendono sempre, o cercano di vendersi, nel mercato del lavoro salariato. Ci vendiamo anche nel mercato del matrimonio. Per molte donne sposarsi è una soluzione economica, perché la divisione del lavoro è stata organizzata in modo tale che è molto più difficile per le donne avere accesso ai lavori salariati. Quindi, molte donne si sposano non perché lo vogliono, ma come soluzione economica per le loro vite. E fai sesso perché fa parte del tuo lavoro. (…) In molti casi, puoi avere un buon rapporto con tuo marito, ma non importa.

La realtà è che il modo in cui lo Stato ha costruito il matrimonio ha costretto le donne a farvi affidamento per sopravvivere e, quindi, a offrire sesso in cambio di sussistenza». E ancora: «Abbiamo insistito sul fatto che c’è una continuità tra la casalinga che di notte, dopo aver lavato i piatti e il pavimento, deve aprire le gambe e fare sesso, che lo voglia o no, che sia stanca o no – e molte donne sono state picchiate perché rifiutavano il sesso – e la donna che vende sesso per strada. Una lo vende a un uomo e un’altra lo vende a molti uomini, ma tra le due c’è una continuità».

Alcuni collettivi per i diritti delle prostitute cominciarono a stringere alleanze con questa parte del movimento femminista, ritenendo che rivendicare e rendere visibile la prostituzione come lavoro potesse aiutare tutte le donne dentro o fuori dall’industria del sesso a innescare processi di liberazione, «a negoziare per il proprio piacere e interesse le condizioni di questa imposizione alla sessualità, o per rifiutarla più facilmente».

Covre racconta: «La mia è stata una ribellione. Farmi pagare è stata una ribellione al fatto ingiusto che se eri donna, la sessualità gliela dovevi garantire gratuitamente, nel matrimonio o anche nel lavoro. I tuoi servizi sessuali erano continuamente richiesti. Allora ho rifiutato questo principio: che dovevo dare qualcosa gratuitamente all’uomo perché era un suo diritto per nascita. Se questa cosa te la do, la voglio riconosciuta. Rivendicando di farmi pagare, mi sono tolta da una posizione di sottomissione». Marte, femminista, spiega a sua volta: «Le persone che fanno sex work hanno avuto e continuano ad avere il potere di rimettere in discussione i ruoli patriarcali. Dire “il corpo è mio e decido io sulla mia sessualità” fa paura, perché salta quel meccanismo che continua a infantilizzare le donne, a considerarle come il sesso debole da proteggere e a volerle pie e sante. Che vuole continuare a sottrarre loro il potere decisionale sulla sessualità».

Con queste argomentazioni, dunque, le lavoratrici del sesso hanno rifiutato l’immagine di vittime sostenendo che come in qualsiasi altro lavoro, anche in quello sessuale le persone fanno delle scelte legate alla loro situazione di partenza e ai progetti di vita che hanno. Che gli aspetti negativi connessi a questa pratica non dipendono dal lavoro in sé, ma dalle condizioni entro le quali il lavoro si esercita. E che nel lavoro sessuale, come in altri lavori, esistono forme di sfruttamento che vanno eliminate.

«Ho cominciato come spogliarellista in un night dove inizialmente lavoravo come barista. Era il locale dove si esibiva una mia amica e compagna del collettivo femminista in cui militavo quando ero giovanissima.

(…) L’interesse economico è il motivo fondamentale per cui si sceglie questo lavoro. Ma se non avessi avuto bisogno di lavorare per vivere probabilmente non avrei fatto nessuno dei lavori che ho fatto. Per molti il sex work è un secondo lavoro che si fa per arrotondare, pagare gli studi e le spese che non ce la fai a sostenere. Per me è stato il lavoro principale, anzi è stato il lavoro e lo è ancora.

(…) Dicono: “Tu sei serva del patriarcato perché il tuo fine è dare piacere all’uomo”, ma io non mi metto a disposizione in modo incondizionato. Anzi, ti dirò che il sesso a pagamento paradossalmente può essere una forma di ribaltamento del patriarcato perché la escort si fa pagare per quello che fa, il sesso non è dato per scontato, non è un diritto assoluto dell’uomo. Il fatto che io mi occupi del maschio ha un prezzo, che io contratto. Poi, è chiaro, tutto dipende dalle reali possibilità di contrattazione della sex worker».

Parte di una storia raccolta dalla sociologa Elettra Santori e pubblicata su MicroMega 6/2020

Decriminalizzazione
Dal punto di vista normativo, la prostituzione può essere disciplinata secondo quattro modelli principali: quello proibizionista (Croazia) sanziona e punisce la persona che si prostituisce, il cliente e tutto ciò che ne può agevolare l’esercizio; quello abolizionista (Italia e Spagna, tra gli altri) vuole scoraggiare la prostituzione criminalizzandola indirettamente, punendo cioè tutta una serie di condotte collaterali come favoreggiamento, induzione, sfruttamento; quello neoregolamentarista (Paesi Bassi, Austria, Germania, tra gli altri) ha come linea guida la decriminalizzazione attraverso una regolamentazione, che può concretizzarsi in modi molto differenti: il disciplinamento può cioè essere minimo oppure capillare.

sex work

Manifestazione di sex worker a Düsseldorf, Germania, 27 agosto 2020 (EPA/FRIEDEMANN VOGEL)

Infine, c’è il cosiddetto “modello svedese”, che può essere definito neoproibizionista e che si basa sulla criminalizzazione del cliente. La Svezia l’ha introdotto con la legge 408 del 1998, è stata poi seguita da Norvegia, Islanda e Francia, tra gli altri, ed è il modello sostenuto da una relazione del 2014 presentata al parlamento europeo. Questo modello si basa sul principio che la prostituzione è una violenza dell’uomo contro la donna, e che la donna è automaticamente una vittima dello sfruttamento sessuale. Ha dunque come obiettivo principale quello di eliminare le condizioni dell’offerta e le cause culturali alla base della domanda. Quando in Svezia venne approvato, le opinioni delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso rimasero completamente escluse dal dibattito politico.

– Leggi anche: La nuova legge contro la prostituzione in Francia

I collettivi e i comitati che lavorano per il riconoscimento del sex work sostengono la decriminalizzazione. Covre dice che «chi pensa di proibire questo lavoro per combattere lo sfruttamento, pensa che non riconoscendo o non consentendo il lavoro quello stesso lavoro scompaia. E con esso, di conseguenza, anche lo sfruttamento». Un po’, spiega, come se per eliminare il caporalato o lo sfruttamento in agricoltura si proponesse di eliminare l’agricoltura stessa. «In realtà non è così, perché la condizione di non riconoscimento dei diritti mette qualsiasi lavoratore e lavoratrice in una condizione di maggiore sfruttabilità. Lo sfruttamento non si combatte rendendo le sex worker più vulnerabili e rendendo le già difficili condizioni di lavoro ancora più precarie».

«L’alienazione, lo sfruttamento, l’abuso e la coercizione effettivamente esistono nell’industria del sesso, come in qualunque altro settore industriale; essi non definiscono noi o la nostra industria. Tuttavia solo nel momento in cui il lavoro viene formalmente riconosciuto, accettato dalla società e sostenuto dai sindacati, si possono stabilire dei limiti, solo quando i diritti del lavoro vengono riconosciuti e applicati i lavoratori e le lavoratrici saranno nelle condizioni di denunciare gli abusi e organizzarsi contro condizioni di lavoro inaccettabili e uno sfruttamento eccessivo».

Dal Manifesto dei/delle Sex Workers in Europa, Bruxelles, 2005

Le visioni proibizionista o abolizionista «vorrebbero cancellare il fenomeno e vietarlo», dice Covre. «Molte proposte vanno poi in una direzione fortemente regolamentatrice, ma questa attività, spesso, funziona meglio quando le persone riescono ad autogestirsi. Poi ci sono vari tipi di lavoro sessuale, e non è possibile ricondurre tutto a un’unica regolamentazione». Secondo Covre il dibattito politico e istituzionale in Italia contempla principalmente posizioni classiche e molto polarizzate tra regolamentazione o abolizione: «La classe politica si rifiuta e continua a rifiutarsi di discutere in modo moderno e approfondito di questo tema, sentendo cioè le voci delle dirette interessate».

Per Marte, che è a favore della decriminalizzazione, continuare a confondere nel dibattito pubblico i piani della coercizione e della scelta, è «conveniente: per il mercato e per continuare a portare avanti politiche securitarie. Ciò che non si vuole riconoscere è l’organizzazione di una classe lavoratrice, abbandonata alla mercé del mercato che abbassa i prezzi delle prestazioni con la complicità dell’illegalità».

«Il lavoro forzato e le pratiche assimilabili alla schiavitù possono verificarsi in molti mestieri; ma laddove le attività sono legali e il lavoro riconosciuto, le possibilità di denunciare e fermare le violazioni dei diritti e impedire gli abusi sono notevolmente maggiori.
Chiediamo di avere accesso alla previdenza sociale che dà diritto all’indennità di disoccupazione e alla malattia, alla pensione e all’assistenza sanitaria.
I/le sex workers dovrebbero pagare imposte regolari sulla medesima base degli altri lavoratori e dei liberi professionisti, e dovrebbero ricevere i medesimi benefici».

Dal Manifesto dei/delle Sex Workers in Europa, Bruxelles, 2005

 

fotografia: In piazza per lo sciopero internazionale femminista dell’8 marzo 2021, Buenos Aires, Argentina. (Marcos Brindicci/Getty Images)

Sorgente: Il sex work dovrebbe essere considerato un lavoro? – Il Post

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