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Anatomia del Pd e della sua crisi permanente

DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO EDITORIALE), STEFANO CAPPELLINI, EMANUELE LAURIA, LUCIANO NIGRO, CONCETTO VECCHIO, GIOVANNA VITALE, CON UN EDITORIALE DI EZIO MAURO, COORDINAMENTO MULTIMEDIALE DI LAURA PERTICI, VIDEO DI FRANCESCO GIOVANNETTI, GRAFICHE E IMMAGINI DI GEDI VISUAL

Quando il 4 marzo scorso Nicola Zingaretti si è dimesso da segretario è sembrato che il Partito democratico, nato appena 13 anni fa, fosse sul punto di implodere. Già il 4 marzo di tre anni prima la sconfitta disastrosa alle Politiche del 2018, dopo una legislatura trascorsa tutta al governo, pareva aver aperto una crisi irreversibile. Di fatto, quasi non c’è stato un anno nella vita del Pd in cui non si sia presentato il sospetto o il timore del fallimento, quello definitivo, quello inevitabile. La sconfitta elettorale del 2008, le dimissioni di Walter Veltroni, la non vittoria di Pier Luigi Bersani, i 101 che nel 2013 tradirono Romano Prodi sul Quirinale, e prima di lui Franco Marini, le scissioni da destra (Rutelli, Calenda, Renzi) e da sinistra (Civati, Fassina).

Segretario dem è uno dei mestieri più precari del Paese. Veltroni, il primo a occupare la carica, a un certo punto disse di non poterne più delle correnti che lo logoravano e si dimise. Prese il suo posto Dario Franceschini in quanto vicesegretario e Matteo Renzi lo bollò subito “vice-disastro”. Poi arrivò Bersani e lasciò pure lui, bombardato da ogni angolo dopo i flop di Marini e Prodi, bruciati nella corsa al Quirinale dai franchi tiratori del partito. Arrivò appunto Renzi, si prese in pochi mesi segreteria e Palazzo Chigi. Poi, passato in tre anni dal 40 per cento al 18, spiegò il suo inarrestabile declino con la teoria del “fuoco amico”. Arrivato Nicola Zingaretti, Renzi passò subito dalla parte del fuoco, meno da quella dell’amico. Sullo sfondo le famigerate correnti, come quei boiardi in attesa che esca di scena il ministro di turno, resistono granitiche ma accoglienti, sempre pronte a dare rifugio alle truppe in fuga del generale degradato. Si contano a decine i dirigenti e gli amministratori dem che sono stati fedelissimi di ciascuno dei leader elencati, nessuno escluso.
Il Pd, nato con l’ambizione di rendere stabile il bipolarismo italiano, è insomma un organismo di formidabile instabilità ed è difficile credere che il problema sia solo responsabilità del segretario di turno. Più passano gli anni e più si fa fatica a capire quale sia l’identità reale di questo partito. Liquido e americano con Veltroni; laburista e frontista con Bersani; liberista e post ideologico con Renzi; ambientalista e contiano con Zingaretti. Troppe svolte e troppo repentine per pensare che dietro l’insegna del momento ci sia una visione condivisa e partecipata, dunque una concretezza di azione e di programma. L’unica costante è la straordinaria affidabilità istituzionale: il Pd ha trascorso al governo nove degli ultimi dieci anni. Una condizione di apparente successo che, però, stride con lo stato di salute del partito.

I rami spezzati dell’albero democratico

Un po’ di Ulivo, un po’ di Quercia, un po’ di Margherita: ecco da dove viene e come è fatto il partito torre di Babele che eredita Letta. Sempre in cerca di un’identità, ha già subito sei scissioni

Letta, l’ultima chance

Dall’elezione in Assemblea sono trascorsi appena quattro giorni quando un giornalista della stampa estera chiede a Enrico Letta un pronostico su se stesso: “Perché pensa di poter durare alla guida di un partito che in 14 anni ha già cambiato nove segretari?”. Anche fuori dall’Italia hanno capito che, dopo le traumatiche dimissioni di Zingaretti, l’impresa ha il profilo dell’azzardo. “Perché questa è l’ultima chance”, replica secco l’ex dean di Sciences Po.
Autonomia e stabilità. Sono le due condizioni poste subito, nel primo weekend di marzo, quando Letta riceve le prime telefonate da Roma. “Il Pd è sull’orlo dell’implosione, solo tu puoi salvarlo”, provano a convincerlo Nicola Zingaretti, Dario Franceschini e Paolo Gentiloni. Serve una personalità autorevole e al contempo fuori dai giochi per rimettere in sesto un partito che, ferito da una doppia scissione, dopo la caduta del Conte II sembra aver smarrito ragione sociale e voglia di stare insieme. Per il 53enne Letta significa mollare dall’oggi al domani un lavoro prestigioso a Parigi e una non trascurabile retribuzione. Non erano questi i programmi quando sette anni prima aveva deciso di dare un taglio netto alla sua vita di prima: lasciare il Parlamento e il Pd dopo la cacciata da palazzo Chigi, per lanciarsi in una nuova avventura, estranea alla politica militante intrapresa fin dai banchi del liceo a Pisa. Dove, appena 14enne, era già leader di Alternativa democratica, la formazione studentesca che faceva capo alla Democrazia cristiana, per poi bruciare tutte le tappe della carriera.

Enrico Letta insieme a Beniamino Andreatta, di cui era assistente alla Farnesina e poi al ministero del Bilancio

All’università gli amici con cui condivide gli ideali dell’azionismo cattolico sono Franco Gabrielli, futuro capo della Polizia e oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, e Simone Guerrini, oggi capo segreteria di Sergio Mattarella al Quirinale. Quando Guerrini nel 1986 viene a Roma per guidare il Movimento giovanile della Dc porta con sé il ventenne Letta come suo braccio destro. Nel 1993 è il “maestro” Beniamino Andreatta a giurare da ministro degli Esteri nel governo Ciampi e a volerlo capo di gabinetto. Quindi Enrico – di cui già alle medie si diceva studiasse da presidente del Consiglio – va a fare il segretario generale del Comitato euro al Tesoro, dove conosce l’allora direttore generale Mario Draghi. Ma è la politica il fuoco sacro. Vicesegretario del Ppi; tre volte ministro, la prima a 32 anni nel governo D’Alema; parlamentare italiano ed europeo; sottosegretario a palazzo Chigi con Prodi nel 2006, vicesegretario del Pd con Bersani, fino alla conquista di palazzo Chigi e lo sfratto 10 mesi dopo. Disarcionato a seguito di una drammatica direzione di partito, preceduta dal famoso hashtag #enricostaisereno, in cui tutti quelli che fin lì l’avevano sostenuto gli preferiscono Matteo Renzi. Il quale, non contento, continua a coltivare una profonda avversione: “Non mi farò mai presiedere da Letta”, mette il veto nell’autunno 2014 l’allora premier italiano quando il belga Von Rompuy gli propone il nome del suo predecessore per il Consiglio europeo. Merkel e Hollande, che pure erano d’accordo, restano basiti.

La decisione: si cambia tutto

A distanza di sette anni dalla fine del suo governo, Letta fatica a fidarsi. “Ho un’altra vita e un altro mestiere”, twitta dopo che Repubblica anticipa la notizia della sua candidatura al post-Zingaretti. Ma il pressing è fortissimo. E arriva dall’alto. Mattarella in quei giorni segue con preoccupazione la crisi del Pd che rischia di mandare in fibrillazione l’intero governo. Mario Draghi lo chiama per spiegarglielo: un Pd debole e acefalo espone l’esecutivo alle scorribande della Lega.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il presidente del consiglio Mario Draghi nel salone del Quirinale durante la cerimonia del giuramento il 13 febbraio 2021

È in quel momento che Letta capisce di non potersi tirare indietro. Gli tocca ricominciare un’altra volta, ma non più daccapo. “Adesso sono una persona diversa da quella che se n’è andata”, dirà la sera della sua elezione in tv. Diversa da quella in cui Renzi gli sfilò la poltrona: un’esperienza sublimata nel libro “Ho imparato”, che due anni dopo appare quasi profetico.

Letta e Draghi nel 2016 durante un convegno ABI

Il baedeker del segretario dem che visse tre volte. Richiamato in prima linea, a occuparsi del Pd, dopo il lungo “esilio” da preside della Scuola Affari internazionali all’università Sciences Po, portata in pochi anni dal tredicesimo al secondo posto nel ranking delle migliori al mondo, con la sola Harvard davanti. Crocevia di una rete di rapporti vastissima: lì vanno a tenere lezioni e conferenze Ngozi Okonjo-Igueala, neodirettrice dell’Organizzazione mondiale del commercio, Bill Burns scelto da Joe Biden come capo della Cia, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Relazioni che ora Letta intende mettere al servizio del Pd, rendendolo principale interlocutore di Draghi (il cui sottosegretario a Chigi, Roberto Garofoli, è suo amico di vecchia data), dell’Europa e della nuova amministrazione Usa.

La lezione di Andreatta contro le correnti

Facendo tesoro degli insegnamenti di Andreatta, antesignano della lotta alle correnti Dc, da leader del Pd ha smesso gli abiti del moderato per indossare l’elmetto. Nella sua prima settimana cambia tutto: organigrammi e metodo di lavoro. Al Nazareno porta con sé un gruppetto piccolo e affiatato: l’ex deputato Marco Meloni, motore e uomo-macchina; la storica portavoce Monica Nardi; l’ex allievo Michele Bellini. Sceglie da solo i due nuovi vice: Irene Tinagli a coprire l’area liberal, diventa vicaria, la prima donna in quel ruolo; Peppe Provenzano per l’ala sinistra. Poi la segreteria, otto uomini e otto donne, anche se stavolta il bilancino si avverte. Le correnti stanno tutte dentro, all’opposizione non resta nessuno. Poi apre il fronte dei capigruppo: vuole due donne al posto di Graziano Delrio e Andrea Marcucci. Un riequilibrio di genere che certo ha anche un significato politico, su due incarichi assunti prima ancora che Zingaretti diventasse segretario. Ora Letta può pensare alle riforme: ius soli, legge elettorale, norma anti-trasformisti. E a costruire la coalizione per le comunali, partita che avoca a sé, stoppando l’anarchia dei territori. Sa bene che l’apertura di credito non durerà in eterno. E se sbaglia, non glielo perdoneranno. Per questo va veloce. Per mettere in sicurezza il Pd prima che malumori e giochetti riprendano il sopravvento.

Le riforme unica via

Risollevare il Pd è un’impresa veramente difficile. Stiamo parlando di un partito che, di fatto, non è mai nato e che ha equivocato fin dall’inizio sulla sua natura post ideologica. Doveva essere la chiave per attrarre voti da ogni parte ed è diventata la via migliore per scontentare tutti, per primi molti dei propri elettori storici o potenziali. Letta sa di non avere molte armi per contrastare lo strapotere delle correnti. Di più, è consapevole che corre il rischio di fare loro da paravento, scongiurando il default del partito e garantendo alle fazioni di continuare il business politico: l’occupazione di potere senza più rappresentanza di interessi, quantomeno non quelli degni di un grande partito della famiglia socialista europea. Ma l’unica arma a disposizione di Letta, se accetterà, è proprio quella del governo e dell’azione parlamentare sulle riforme istituzionali: è solo lasciando un segno concreto in questi ultimi due anni di legislatura che il Pd può rimettersi in marcia. 

La cassa piange

Il Pd ha anche problemi più prosaici della linea politica e del consenso. Il referendum del 2016 non ha spaccato solo il partito. Ha fatto esplodere anche le sue casse. E tuttora il bilancio dei dem porta i segni dell’azzardo di Matteo Renzi: ci sono 2 milioni e mezzo di debiti verso i fornitori. Gran parte di quelle somme, spiega chi conosce bene le finanze del partito, è dovuta alle Poste, per pagare l’invio di cartoline e materiale informativo a cittadini ed elettori per cercare di far vincere il Sì. Obiettivo che, com’è noto, è stato mancato. E molte di quelle missive, si fa notare al Nazareno, neppure sono giunte in tempo ai destinatari. Il referendum è costato in tutto 13 milioni di euro: un vero e proprio sconquasso. È anche per questa ragione che il partito ha rischiato seriamente il crac nel 2018 e tuttora combatte con una situazione economica asfittica. I numeri dell’ultimo rendiconto approvato, nel 2019, e quelli che filtrano del 2020, raccontano molto dello stato di salute del Pd ma anche dell’incancrenirsi di certi rapporti. A partire da quello con l’ex Rottamatore.

Il referendum, sia chiaro, non è stata l’unica mazzata sui conti per il Pd. Che si porta appresso, da anni, il peso delle spese allegre che hanno caratterizzato l’inizio della sua storia. Pierluigi Bersani, un altro ex segretario (ed ex iscritto) che di Renzi certo non è amico, non badò a spese per la sua campagna elettorale del 2013: furono investiti 9,3 milioni di euro, due volte i fondi approntati per le Politiche di cinque anni dopo. Ed è sempre di quegli anni il reclutamento in massa di personale, soprattutto ereditato da Ds e Margherita, che portò l’organico oltre quota 200 dipendenti. Oggi impiegati, funzionari, giornalisti sono 132 e continuano a costituire una delle voci in uscita più cospicue del bilancio dei dem: oltre quattro milioni di euro, meno della metà della spesa di dieci anni fa (10,3 milioni) ma pur sempre una cifra che il partito non può sostenere. Alcuni lavorano negli uffici del governo e del Parlamento, gli altri sono in cassa integrazione. Il piano è quello di ridurre l’organico di due terzi, portandolo a 45-50 unità, attraverso esodi incentivati che sono al centro di un tavolo aperto con il ministero e i sindacati.

Le sezioni senza soldi

D’altronde, il tempo delle vacche grasse è finito da un pezzo: la progressiva eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti (peraltro decisa durante il governo di Enrico Letta, che nemesi per il neosegretario) ha costretto a tagli sempre più incisivi: basti pensare che nel 2013 i finanziamenti dallo Stato per il Pd ammontavano a 24,7 milioni, mentre quest’anno con il meccanismo del due per mille – scattato dal 2017 – sono arrivati 7,4 milioni di euro.

Lo scambio della campanella
tra Letta e Renzi il 22 febbraio 2014

Un milione in meno dell’anno precedente: tre quarti dei mancati introiti – esattamente 714 mila euro – sono finiti nelle casse di Italia Viva, che dopo la scissione ha debuttato di fronte ai contribuenti impoverendo gli ex compagni. Un altro tassello che spiega, da angolazione diversa, i rapporti non idilliaci fra gli attuali vertici del Pd e colui che nella storia dei dem li ha guidati più a lungo, Matteo Renzi. E sì che – al di là della “follia” del referendum – la gestione Renzi tentò comunque di sistemare i conti con una drastica politica di riduzione delle spese. Poi con Zingaretti (che ha affidato la tesoreria al decano dei senatori Luigi Zanda) si è giunti nel 2019 a un avanzo di 682 mila euro. Resta un patrimonio netto che ha un saldo negativo di 2,5 milioni.

Le entrate, oggi, si limitano dunque al due per mille e ai contributi dei parlamentari, che oltre alle donazioni volontarie consistono nell'”obolo” fisso di 1.500 euro mensili. Ma quanta fatica per incassare questi soldi. Si consideri che nel rendiconto del 2019, l’ultimo disponibile, alla voce “crediti verso parlamentari”, c’era la cifra di quasi un milione e che 296 mila euro, relativi ai contributi della fine della scorsa legislatura, sono passati fra le somme non esigibili. Nel frattempo, è partita la stretta verso gli eletti che non pagavano le loro quote: nel 2018 sono stati emessi 63 decreti ingiuntivi nei confronti di deputati e senatori morosi. In 27 casi il recupero dei fondi è stato poi possibile grazie ad accordi transattivi. In questo scenario, a pagare dazio – oltre ai giornali di area come l’Unità ed Europa – è stata soprattutto l’attività in periferia. I fondi per le federazioni locali e per le sezioni sono scesi da 13,6 milioni del 2013 ai 164 mila euro del 2018: in pratica, si sono ridotti di sessanta volte. Zingaretti ha tentato di ridare vita ai circoli, destinando loro 700 mila euro prelevati dagli introiti del due per mille.

Ma la situazione dei circoli – che pure costituiscono un patrimonio che altri partiti non hanno – è da allarme rosso: erano 7.200 alla fine del 2014, sono 5.125 nell’ultimo report a disposizione dell’organizzazione. In alcune regioni “rosse” la presenza rimane capillare: 667 circoli in Toscana e 600 in Emilia-Romagna, regioni che lasciano il primo posto del podio alla Lombardia con 754. E il Veneto del leghista Zaia conta comunque 452 sedi che sono avamposti dell’opposizione nel territorio. Ma solo un terzo di questi circoli ha una sede propria, gli altri per una buona metà sono in affitto (anche solo per singoli eventi) o si appoggiano ad altre associazioni o enti. Tutti hanno un segretario o un commissario ma non tutti sono davvero attivi. In Toscana, per dire, si stima che oltre 150 siano “silenti”. La maggior parte, in questo periodo, opera online – anche i due ultimi nati a Roma, Selva Candida e Pineta Sacchetti – ma l’obiettivo, superata la pandemia, è quello di rinforzare il radicamento fisico sul territorio, di “ridare un tetto alla politica” per dirla con le parole del responsabile dell’organizzazione Stefano Vaccari.

Servono soldi, soldi, soldi, anche in un momento in cui gli introiti derivanti dal tesseramento, da manifestazioni, cene di autofinanziamento e feste tradizionali (in calo già prima dell’emergenza Covid) vengono a mancare. “Abbiamo intenzione di riportare i circoli in posti simbolici e nelle periferie – afferma il tesoriere Walter Verini – e allo scopo vogliamo promuovere progetti specifici aperti al finanziamento dei simpatizzanti. Per riuscire in questa missione abbiamo bisogno di lavorare perché il partito sia credibile, come strumento di una politica che lavora per la gente e non per se stessa”. Nel frattempo, molto è affidato allo spontaneismo: a Napoli i militanti si incontrano fuori dallo storico circolo del quartiere Sanità, e non per questioni legate al virus: la sede, acquistata da operai e artigiani comunisti, finita nel patrimonio della fondazione Ds, dopo un lungo contenzioso è sprangata da anni. A Milano il circolo Gino Giugni è ripartito grazie a un mutuo con i militanti. E a Leonforte, in provincia di Enna, un gruppo di giovani dem ha fatto una colletta per riappropriarsi della sezione che era stata chiusa perché il partito dei “grandi” si era disciolto causa contrasti interni. Per Letta è la prima sfida, quella di ripartire dalle gloriose sezioni, resa plastica dall’esordio al circolo di Testaccio.

L’ultima risorsa: i militanti

Alle nove del mattino, il segretario della sezione Trionfale-Mazzini, Giovanni De Lupis, sta spazzando il pavimento della sede in via Giannone 7, a Roma. I muri sono impregnati di umidità. La stanza di cinquanta metri quadri è riempita da poche sedie e un tavolo con tre bottiglioni di gel in bella vista, alle cui spalle sono appese le bandiere del Pd e dell’Europa. Nel muro laterale campeggia la prima pagina dell’Unità il giorno della morte di Enrico Berlinguer, con il titolo “Addio”. In fondo c’è una libreria a vetro con dentro i classici del marxismo, molto Gramsci, i saggi di Paolo Spriano, un po’ di Pasolini e un po’ di Simenon. “Il Pd è una piramide rovesciata: molti dirigenti e pochi iscritti”, ridacchia De Lupis, mentre con lo scopino raduna l’intonaco. Ha 34 anni ed è laureato in storia. Parla con gentile proprietà.

Il segretario Giovanni De Lupis ci guida alla scoperta della sezione Trionfale-Mazzini, che con i suoi 249 iscritti è oggi la più popolosa della capitale. Iscritti che in un’assemblea via Zoom danno la linea al neo segretario Enrico Letta. Servizio di Francesco Giovannetti e Concetto Vecchio

Guida la sezione democratica più grande a Roma. “Abbiamo 249 iscritti, molti rinnovano la tessera sin dai tempi del Pci, il tesseramento del 2020 è ancora in corso”, dice. Non sono tanti, facciamo notare, per un circolo che riunisce i quartieri di Prati e Trionfale. “In effetti potrebbero essere di più” ammette De Lupis. “Essere i primi non so se sia un merito o un demerito”, concede. “Spero ogni volta di venir superato, il radicamento territoriale è importante in un partito popolare come il nostro”. Nicola Zingaretti è iscritto qui, l’altro vip è il presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Il segretario uscente ha rinnovato la tessera dopo le dimissioni. De Lupis gliel’ha portata personalmente in Regione. La cosa ha fatto notizia. “Ne hanno scritto Il Foglio e Repubblica“, dice. “Con Nicola abbiamo chiacchierato piacevolmente per dieci minuti”. La tessera del Pd costa 40 euro, venti vanno alla Federazione, venti per i costi della sezione. L’affitto mensile è di 600 euro. “I soldi non bastano mai. Andiamo avanti di mese in mese, a forza di donazioni”.

Dall’uscio del circolo si può ammirare la Cupola di San Pietro in lontananza. Un signore si affaccia e chiede dov’è la copisteria. “Dietro l’angolo”, risponde il segretario. Sarà l’unica persona che passerà in tutta la mattina. Sul tavolo De Lupis ha due documenti. Il discorso d’insediamento di Enrico Letta riassunto in ventuno punti, su cui ogni sezione è chiamata a dire la sua, cento parole per ogni punto. Perciò per mercoledì 17 marzo ha indetto un’assemblea su Zoom. È giusto ripartire dalla consultazione della base per rifondare il partito, lo giudico un inizio promettente”. L’11 marzo, all’indomani dell’uscita di scena di Zingaretti, si sono collegati su Zoom in 74 per dibattere su come andare avanti. “Se le cose vanno male il militante accorre per dire la sua. Quando perdemmo le elezioni nel 2018 venne Matteo Orfini e c’era talmente tanta gente che mettemmo i megafoni fuori per permettere a chi non era riuscito ad entrare di seguire la discussione sui marciapiedi”.

La targa all’ingresso della sezione Trionfale-Mazzini a Roma (foto di Concetto Vecchio)

La sede apre tre volte alla settimana. Martedì e giovedì dalle 18 alle 20, la domenica dalle 10,30 alle 12,30. Nell’ultimo week end si sono raccolte le firme per sostenere la legge di iniziativa popolare proposta dal Comune di Stazzema contro i messaggi inneggianti al nazifascismo. Talvolta un consigliere circoscrizionale aggiorna sulle cose realizzate nel rione. Prati e Trionfale rappresentano uno degli ultimi bastioni del Pd. Prati elegante ed umbertina, con la Rai, il liceo Mamiani e la via dello shopping in via Cola di Rienzo, ha un cuore borghese; Trionfale, con i suoi mercati, quello dei fiori e quello di frutta e verdura, è più popolare, fiero della sua lunga tradizione democratica. De Lupis è figlio di commercianti. Rifornisce di prodotti le barberie e i parrucchieri di Roma. “Da ragazzo”, confessa, “ho fatto volantinaggio per Forza Italia. Mi sembrava la scelta più naturale, considerata la mia provenienza familiare: stare in un partito che sostiene le imprese. Ma poi ho capito che faceva troppo poco sia per i diritti individuali che per quelli sociali. E quando hanno imposto di mantenere in vita a tutti i costi Luana Englaro me ne sono andato indignato. Mi sono avvicinato, per reazione, al partito più antiberlusconiano di tutti, Italia dei Valori, un passaggio breve, erano davvero troppo giustizialisti. Nel 2013 mi sono iscritto al Pd. Cinque anni dopo mi hanno chiesto di fare il segretario. Alle assemblee capita di essere il più giovane”. Non è un percorso ideologicamente inconsueto? “Non posso rinnegare il passato. A un certo punto ho capito però per chi batteva il cuore. Ho fatto carriera? “No”, ride. È una responsabilità e un piacere. Per il mio lavoro vengo a contatto con tanta umanità. Faccio politica per le stesse ragioni. Mi è sempre piaciuto il contatto con la gente”.

Tra nostalgia e pandemia

A un certo punto De Lupis dice: “Tanti compagni e compagne lavorano in silenzio in periferia, tra mille difficoltà”. Dice proprio compagni e compagne, come se fossimo ancora nel Pci. Come nello spezzone video del film di Ansano Giannarelli che si può vedere su YouTube, che racconta la vita della sezione comunista di via Giannone nell’inverno 1978. Sono quattro minuti di nostalgia. La gente si ferma a leggere l’Unità affissa in bacheca, uomini e donne discutono animatamente fumando come turchi, risuonano parole auliche, frasi piene di subordinate, polemiche contro i socialisti, un militante al semaforo di piazzale degli Eroi vende il quotidiano fondato da Antonio Gramsci agli automobilisti sotto la pioggia sferzante. Nella piazzetta accanto, in via Pomponazzi, c’era la sede delle femministe e dei collettivi extraparlamentari. Giravi l’angolo e ti ritrovavi in un’altra sinistra.
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La sezione Trionfale-Mazzini a Roma nel 1978. Tratto da “Un film sul Pci” di Ansano Giannarelli

E oggi? La pandemia impedisce incontri pubblici, ci si parla, come tutti, dallo schermo dei tablet. “La vetrina dei libri era stata pensata per organizzare uno spazio culturale per i giovani”, dice De Lupis. “Il progetto è congelato”. I giovani negli anni Settanta leggevano libri come “Crisi del marxismo?, l’intervista a Umberto Cerroni”, che fa bella mostra di sé nella biblioteca. Quanti sono i giovani iscritti? “Non quanti ne vorrei, ma ci sono. Un paio del 2001, un altro paio del 2002. C’è un 2000 che sta imparando sul campo…”. La cantera democratica, insomma, non è esattamente rigogliosa.

Un partito non per giovani

Immaginate un club di calcio che chiuda per un lungo periodo le iscrizioni alle squadre giovanili. Non occorre sapere di calcio per capire che dopo qualche anno si troverà a dover acquistare giocatori da altre società o a non avere nessuno da mandare in campo. Traslate tutto alla politica e avrete la situazione in cui si trova da tempo il Partito democratico (non solo il Pd, naturalmente, ma qui è di questo che parliamo).

Anni di disaffezione, perdita di iscritti, crollo del giro di attivisti e simpatizzanti hanno portato i dem dove sono oggi: il partito è guidato da ciò che resta della generazione dei 50enni, l’ultima figlia degli anni d’oro della militanza. Intorno e dietro di loro ci sono – nel governo, nella segreteria e nella direzione – esponenti più giovani. Nativi dem, diciamo. Ma provate a fare il nome di uno di loro che sia un credibile aspirante alla leadership del futuro. Anzi, provate a fare il nome di uno di loro e basta. Farete fatica.

“Abbiamo il culto del governo”

De Lupis ci fa strada nell’altra ala della sede, andata in fumo per un incendio doloso appiccato da ignoti una notte di giugno del 2013. Conteneva una sala da 130 posti a sedere, che ora è tutta annerita. Bruciarono importanti cimeli e le carte storiche, tra cui i libroni con l’elenco degli iscritti sin dalla fondazione e la bandiera ricamata a mano della cellula dei partigiani di Trionfale. “Tutto distrutto”, dice il segretario, guardandosi intorno. “Per miracolo recuperammo, giorni dopo, almeno la valigia con i giornali della Resistenza”. Anche l’iscrizione muraria di Peppe Otello, morto alle Fosse Ardeatine, è rimasta sfregiata dal fuoco. In un angolo, appoggiato per terra nella stanza dei Giovani democratici, giace abbandonato il ritratto di Karl Marx.

Il segretario della sezione Trionfale-Mazzini Giovanni De Lupis nella sala distrutta dall’incendio del giugno 2013 (foto di Concetto Vecchio)

È buio fitto, si procede azionando la luce degli smartphone: un po’ come lo stato d’animo del Pd. È rimasto in piedi, chissà perché, il manifesto di Matteo Renzi con le fotografie dei componenti della sua segreteria: i renziani dell’illusorio 40 per cento. “L’Italia sta cambiando verso. Ora tocca all’Europa”, c’è scritto. “Dopo il Conte 1 dovevamo andare alle elezioni”, dice De Lupis, forse per associazione di idee. “Non è che dobbiamo avere sempre questo culto del governo, altrimenti si rischia di confondere alla lunga il mezzo col fine”. Rendere di nuovo agibile questa ala della sezione costa almeno 30mila euro. “A pandemia finita si farà”.

La prima riunione dell’era Letta

Mercoledì 17 marzo, a tre giorni dall’elezione di Enrico Letta, i tesserati della sezione Trionfale-Mazzini, tornano a riunirsi. L’appuntamento è alle ore 18 su Zoom. “Qualcuno ha letto tutto il documento di Letta?”, chiede Sofia Guerra. Cento parole non sono troppe per ciascuno dei 21 punti indicati, è l’interrogativo che si pongono alcuni. Ogni tesserato potrà dire la sua.

Enrico Letta nel circolo di Testaccio a Roma il 13 marzo 2021

De Lupis raccomanda di rispettare la scadenza: “Le vostre risposte non devono arrivare oltre le 23,59 di sabato”. Sono collegati in 36. “Ci sono state molte invasioni ultimamente nelle nostre chat e quindi durante la mia relazione vi silenzierò per precauzione. Vi prego di non parlare di Roma. Niente interventi su Gualtieri. Oggi si affronta il futuro dell’Italia. Se una settimana fa ci avessero detto che avremmo dovuto discutere tra noi delle proposte programmatiche formulate dal nuovo segretario nazionale, Enrico Letta, non ci avremmo creduto. Ha chiesto di aprire al dialogo con la base, dobbiamo sostenere il suo sforzo. È la scelta più logica, la migliore possibile. Ed è votata al 2023, per arrivare entro la fine della legislatura ad una fase costituente del nostro partito. Questa è la sua ambizione e in politica l’ambizione è fondamentale. Vuole ancorarci dentro un nuovo centrosinistra che sappia affrontare a testa alta il centrodestra alle prossime elezioni. La nostra età è altina, anche se siamo tutti giovani dentro. Dobbiamo aprirci ai giovani. E meno male che c’è Capasso”. Davide Capasso, 21 anni, esponente della Giovanile, sorride sornione dal salotto di casa sua. Alle 18,15 i partecipanti sono saliti a 52. De Lupis dichiara aperto il dibattito. “Mi raccomando, siate incisivi, rapidi, efficaci. Sintesi!”, esorta.

Angela Marino e Annalisa Giannella fanno notare che nel documento di Letta manca qualsiasi riferimento alla ricerca. Entrambi concordano sul fatto che un partito senza giovani non ha futuro. “Dobbiamo sacrificarci noi per loro, la nostra generazione dopo la laurea trovava lavoro, loro non sempre”, denuncia Giannella. “Non siamo attrattivi. Il circolo dovrebbe rappresentare un luogo di aggregazione sociale, non solo politico. Un tempo questa funzione la svolgeva anche l’oratorio, ora non so. I ragazzi si telefonano tra loro per prendersi a botte”, spiega Marino. “Va bene dare il diritto di voto ai sedicenni, ma questi che sanno fare oltre gli smartphone e il calcio?” è scettico Andrea Ambrogetti. “Vi segnalo anche che la fascia d’età tra i 28 e i 35 non la intercettiamo per nulla, non ci votano, semplicemente perché non facciamo nulla per loro”, spiega Giulia Callini.

Alle ore 18,30 i partecipanti sono diventati 65. “Buona partecipazione” fa notare De Lupis. “Ma quanto mi manca non vedervi in carne e ossa in sede, adoro la sezione, e quanto erano belle le nostre discussioni in presenza!”.

Letta e la trappola dell’unanimismo

“Letta mi ha colpito, perché ha subito dato un profilo identitario preciso al partito, che è una caratteristica molto importante quando si sta in un governo del presidente. La gente deve riconoscere i nostri valori. E lo Ius soli in questo ci definisce”, dice Giovanni Silvestri, sindacalista in pensione. “Dobbiamo capire che viviamo in una società multiculturale”, approva Emanuele Mariani. “Meloni e Salvini ci hanno subito attaccato. Buon segno! E noi dobbiamo insistere su questa strada”, s’infervora Giulia Tempesta. “Sì, lo ius soli è inevitabile”, concorda Massimiliano Ruzzeddu. La base sembra più aperta e radicale del ceto dirigente. Anche se Massimo Scarlata predica realismo: “Non dimentichiamo che Lega e Fdi rappresentano quasi metà degli italiani, ed è una fetta che non vuole concedere la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia”. Sì, dice De Lupis. “Noi non dobbiamo avere paura. Si farà una lotta politica. Noi qui tra noi discutiamo sempre educatamente, ma fuori, nella società, dobbiamo fare la battaglia per le nostre idee”.

“Buonasera compagni”, esordisce Simon Cossutta. “Dobbiamo recuperare quel pezzo di popolo che non ci segue più. Cosa ci sta dicendo il Covid, con i suoi 100 mila morti, se non che il capitalismo e le privatizzazioni hanno fallito. S’impone un programma socialista. Il Pd sia il partito dei lavoratori, non della Ztl. E dobbiamo essere radicali anche nel metodo”. Letta ha detto una cosa importante”, sostiene Nicola Nanni. “Il governo Draghi è il nostro governo, e io sono d’accordo. Vengo dal Pci ed ero un po’ perplesso sulla sua nomina, l’inizio invece mi è parso eccellente”. “Che sia il nostro governo lo trovo discutibile. Diverso è dire che siamo d’accordo con quello che Draghi ha detto in Parlamento”, rintuzza Ettore Greco.

Il dibattito procede spedito, tutti sono più o meno rapidi e incisivi come aveva auspicato il segretario. Pierluigi Panici propone di approvare la legge sul salario minino. Si accalora quando sostiene che bisogna riparare ai guasti delle leggi sul lavoro, fatte approvare dal duo Renzi-Poletti. “Hanno consentito di replicare per cinque volte di fila i contratti a termine, aumentando le precarietà. Negli ultimi vent’anni le ingiustizie e le diseguaglianze sono aumentate, e noi siamo stati spesso al governo”. Si sono fatte le 20,20, “e il partito della pastasciutta non ha ancora vinto”, sottolinea con una punta di soddisfazione De Lupis. Ce la farà la sezione Trionfale-Mazzini a portare il suo mattone nella impervia ricostruzione del Pd? Fanno parlare per ultimo il vecchio compagno Vittorio Dello Ioio, iscritto dal 1970. Regala un finale di sincerità su cui riflettere: “Non mi è piaciuto come il partito ha votato all’unanimità per Letta. Non ho apprezzato questo coro. Quando succede significa che ci sono troppe cose nascoste”.

Nulla è realizzato
Nulla è perduto

di Ezio Mauro

La questione è semplice, la soluzione è difficile. Visto da fuori, sembra quasi un problema di scuola: c’è un’area vasta e c’è un recipiente molto più piccolo; come si risolve la questione tra il contenuto e il contenitore? Nel frattempo, gran parte di ciò che non entra nel recipiente va perduto, si smarrisce, finisce per dissiparsi o isolarsi, col risultato che alla fine i conti non tornano quasi mai, e il quesito rimane senza risposta. Ma una domanda che da anni rimane aperta, sospesa, in politica è una domanda inevasa, e si trasforma in un dubbio. Che fare dunque del Pd, se non riesce ad assorbire, interpretare e rappresentare l’idea di sinistra che pure vive nel Paese?

Intanto, per onestà intellettuale, andrebbe messa in campo subito la difesa, con il suo argomento principale: attenzione, perché negli anni della crisi, quando tutto congiurava contro il mondo del lavoro e si accentuavano le disuguaglianze, con il mondo che scivolava nuovamente verso il nazionalismo e il sovranismo, il Pd è stato il soggetto chiave per testimoniare un’opzione alternativa, per difendere i valori del costituzionalismo liberale, per cercare una correzione del liberismo trasformato in moderna ideologia egemone. In sostanza, è la forza che nella tempesta ha portato in salvo i Lari e i Penati della tradizione, o almeno ciò che ne restava dopo l’Ottantanove, ha mantenuto vivo il rito e il culto per gli ideali e i valori antichi, e camminando controvento ha infine salvaguardato il concetto di sinistra nella traversata del deserto, custodendolo fin qui, depurato, liberato, aggiornato, ma comunque superstite, e vivo.

Accettando l’obiezione, resta comunque da capire perché non sia compiutamente sbocciata, o perché non abbia una forza espansiva una proposta politica teoricamente e tecnicamente adatta a incrociare lo spirito dei tempi, che invece preferisce soffiare altrove, prevalentemente a destra. Eppure, dopo il tramonto del secolo delle ideologie, con la democrazia che sembrava l’unica religione civile superstite, il progetto e l’offerta di una forza semplicemente “democratica”, senza aggettivi specificativi o metafore vegetali, sembrava proporre un’identità finalmente risolta, chiara, positiva, anzi ampia e inclusiva, post-ideologica, occidentale ed europea. In grado dunque di parlare alla vasta parte d’Italia che si considera convintamente o genericamente progressista, chiede un cambiamento, punta ad una crescita che unisca il talento e il merito alla solidarietà e all’emancipazione, resta convinta che la civiltà del lavoro rimanga la base della società democratica, continua a credere nella giustizia e nella libertà.

Aggiungiamo la congiuntura favorevole nei tempi e nei modi. Il nuovo partito si collocava alle sue origini alla confluenza di mondi storicamente affini e conflittuali, distinti e separati ma prossimi, che la prima repubblica non era riuscita ad avvicinare di più, ma che invece la stagione berlusconiana degli eccessi, delle forzature e della dismisura aveva fatto trovare tutti dalla stessa parte, come in uno spostamento d’aria. Da un lato le formazioni storiche della sinistra, con la grande maggioranza del post-pci e una parte del socialismo post-craxiano, poi pezzi della galassia laica e centrista d’ispirazione risorgimentale, e soprattutto l’area del cattolicesimo democratico che usciva dalle esequie della Dc per andare infine all’incontro organico con la sinistra italiana. Un perimetro largo, senza più barriere (anche se con scorie eterne) per una piattaforma cultural-politica che con una parola sola si potrebbe definire “repubblicana”, nel senso che sposa le ragioni di fondo della legittimazione del nostro Stato attraverso la resistenza, la rifondazione istituzionale dopo la dittatura con la costituzione, il divenire del Paese nel bene e nel male di questi decenni, che hanno comunque coniugato progresso e democrazia anche nei passaggi più difficili e nei momenti di infedeltà.

Tutto questo andava completato e risolto con una lettura finalmente condivisa della vicenda intera della sinistra italiana – in particolare del comunismo – per arrivare finalmente ad un rendiconto degli errori, dei meriti e delle colpe, e a quel punto poter esibire gli aspetti positivi del lascito ereditario, che hanno pesato nella storia del Paese. Il rendiconto invece è mancato, nella convinzione che il contenitore avrebbe spiegato da solo il contenuto, come se la sinistra italiana potesse soltanto scivolare per identità progressive, incapace di trovare da sé il bandolo della sua storia, per la fatica di guardarla negli occhi, a cominciare dalla scissione di Livorno, cent’anni fa.

La vera scommessa, decisiva, andava però molto al di là dell’assemblaggio a tavolino del ceto politico ed era tutta da giocare fuori dal Palazzo, nella società. Una scommessa doppia: da un lato sulla capacità del Pd di attirare i “nativi democratici”, persone che non venivano dai partiti preesistenti ma entravano nella politica dalla porta del nuovo soggetto, convinti dalla libertà, dalla novità e dalla prospettiva della proposta; dall’altro lato, sulla possibilità di suscitare un ceto sociale allargato di riferimento, non più una classe ma una condizione e un’aspirazione diffuse e condivise alla modernizzazione del Paese. Un mondo di riferimento capace di incarnare l’idea democratica nel lavoro e nelle relazioni quotidiane, e di premere sulla politica chiedendo la rappresentanza di interessi legittimi, ma soprattutto di un’esigenza di innovazione, di legalità, di cambiamento.

Tutto questo non era facile, perché non era neutrale. Da questa ricerca del partito-società discendeva infatti necessariamente una concezione del tutto trasparente e disarmata del Pd come forza politica scalabile perché aperta, contendibile in quanto libera. Non un movimento destrutturato e messo al vento: un partito vero e proprio, che però è nuovo perché non ha paura delle energie che riesce a destare e a mettere in circolo, dunque continuamente sollecitato dalla società che lo attraversa e lo anima, alimentato e rinnovato dalla sua stessa base. Questa architettura mobile si riproduce nelle regole: vocazione maggioritaria, naturalmente, primarie per ogni incarico rilevante, dibattito aperto e pubblico sulle grandi questioni, senza paura di disegnare una maggioranza e una minoranza, dunque senza la ricerca di falsi unanimismi. E un conseguente spirito laico che riconosce il Pd come tetto condiviso, quindi scongiura la corsa a nuove scissioni quando l’ex leader finisce in minoranza.

La coscienza del partito come bene comune si doveva accompagnare ad una precisa coscienza identitaria: il Pd nasce per rappresentare la sinistra italiana, e quindi sa di essere la proiezione moderna di quella storia, trovando oggi nuove ragioni per proporsi al Paese come alternativa alla radicalità di questa destra estrema. Fine dunque dell’eterna diatriba tra riformisti e massimalisti, è ora di dire che il riformismo ha vinto mentre la sinistra perdeva, e oggi è la cultura politica più adatta a interpretare una sinistra di governo, anche quando sta all’opposizione. Con questo semplice radicamento identitario il Pd disegnerebbe un campo largo, aperto alle forze, ai soggetti, alle culture che vogliono condividere la stessa idea di trasformazione del Paese. Il centrosinistra possibile.

Che dire, misurando lo scarto tra le attese e i risultati, tra le ambizioni e la realtà? Nulla di questi propositi è definitivamente perduto, ma nulla è compiutamente realizzato. Così il Pd resta una grande incompiuta, con il popolo della sinistra in attesa, da anni, pronto ogni volta a mettersi in fila ai gazebo nonostante le delusioni e gli errori. Da questo giacimento di disponibilità democratica deve ripartire Enrico Letta. Forse la magnifica condanna di un partito nato dal lavoro è proprio questa officina politica continua: la fabbrica è riaperta.

Sorgente: Pd, un partito mai nato: 10 anni di storia tra segretari e correnti | Rep

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