Sono accusati di crimini contro l’umanità per gli orrori commessi dalle dittature militari di 40 anni fa in Argentina e Uruguay. Si nascondono in Italia. Ecco dove e protetti da chi
di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Elena Basso, Marco Mastrandrea, Alfredo Sprovieri. Coordinamento multimediale di Luciano Nigro. Grafiche e video a cura di Gedi Visual
Questa inchiesta è parte del progetto “On the run from the past”, in fuga dal passato, ed è vincitore del programma pilota Stars4Media, co-finanziato dalla Commissione europea. Nove giornalisti delle redazioni di “El Salto” (Spagna), “Streetpress” (Francia) e “Centro di giornalismo permanente” (Italia) hanno lavorato per tre mesi alla ricerca dei torturatori delle dittature sudamericane tuttora in fuga dalla giustizia dei loro Paesi. Ecco il loro racconto.
Da sinistra Jorge Nestor Troccoli, don Franco Reverberi e Carlos Luis Malatto
Sono tre uomini anziani. Abitano nella provincia italiana e conducono una vita tranquilla: vanno a pesca e passeggiano sul lungomare. Passano inosservati, parlano un buon italiano e si sono integrati nella comunità. Nessuno potrebbe mai immaginare che siano ricercati per crimini contro l’umanità commessi durante le dittature sudamericane degli anni ’70. A Battipaglia vive Jorge Nestor Troccoli, spietato ex capo dei servizi di intelligence uruguaiani accusato della sparizione di decine di militanti. In provincia di Parma celebra la messa don Franco Reverberi, un sacerdote accusato di aver assistito alle torture dei detenuti di un campo di sterminio in Argentina, mentre Carlos Luis Malatto, un ex tenente appartenente ad uno dei più sanguinari corpi militari della dittatura di Videla, oggi vive in un esclusivo residence in Sicilia. I tre si trovano nel nostro Paese da molto tempo e nel corso degli anni l’Italia ha rigettato le richieste per la loro estradizione, ma ora la situazione sta per cambiare.
Processo Condor: ventiquattro ergastoli. Questa la sentenza della Prima Corte d’assise d’Appello bis di Roma
Il 26 maggio scorso, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato l’istruzione di un processo penale in Italia contro Carlos Luis Malatto. Il 2 ottobre, in Argentina è stata presentata un’istanza per richiedere una seconda volta l’estradizione di don Franco Reverberi, rigettata nel 2014. E mentre è stata fissata per il prossimo 24 giugno l’udienza della Corte di Cassazione per il processo Condor che potrebbe confermare l’ergastolo per Nestor Troccoli, gli inquirenti stanno indagando su due omicidi di cittadini italoargentini che coinvolgerebbero l’ex militare uruguaiano. Ci siamo messi sulle tracce di questi tre uomini. Abbiamo ricostruito le loro vite in Sud America e in Italia provando a scoprire chi li ha protetti e chi continua a farlo.
Buchi neri
In Sudamerica gli anni ’70 sono stati segnati da feroci regimi militari che hanno portato, nella sola Argentina, alla scomparsa ed eliminazione di oltre 30mila oppositori politici: i desaparecidos. Chiunque fosse ritenuto sovversivo, veniva sequestrato dai militari e quindi trasferito in un centro clandestino di detenzione per essere torturato e il più delle volte ucciso. Quei “buchi neri” erano centinaia e ufficialmente non esistevano, perché tutto ciò che avveniva fra quelle mura doveva restare segreto.
Carri armati di fronte alla Casa Rosada, il palazzo governativo a Buenos Aires in Argentina. È il 24 marzo 1976, giorno del colpo di Stato che depone Isabel Martínez de Perón
I centri erano ovunque: in un garage al centro di Buenos Aires, nel porto di Montevideo, in ville di provincia o nei palazzi dell’amministrazione pubblica. I militari assegnati ai centri clandestini avevano ricevuto uno speciale addestramento alle tecniche di tortura: i detenuti venivano stuprati, picchiati a morte, appesi alle pareti, seviziati con corrente elettrica. Molti non ce la facevano. Chi sopravviveva, restava rinchiuso per anni, oppure veniva caricato su un aereo per essere buttato in mare con i “voli della morte”. Un’intera generazione è stata sterminata: giovani fra i 15 e i 25 anni, che militavano per opporsi alla dittatura. I corpi di molti di loro non sono mai stati ritrovati. Ci sono voluti molti anni perché si cominciasse a scoprire la verità. Per decenni, i responsabili dell’orrore hanno continuato a negare. Poi, i sopravvissuti hanno iniziato a testimoniare e alcuni militari hanno cominciato ad ammettere. Finché, nei primi anni 2000, in seguito all’annullamento delle leggi che garantivano l’immunità ai responsabili dei crimini commessi durante le dittature sudamericane, sono iniziati i primi processi.
Il generale Jorge Rafael Videla (al centro) a capo della giunta militare in Argentina dopo il colpo di Stato del 1976
Oggi, nella sola Argentina, sono 1.003 i condannati per i crimini commessi durante il regime di Videla. Per sfuggire alla giustizia, in molti sono scappati in Stati senza estradizione e in tre hanno deciso di volare nel nostro Paese, sfruttando le origini italiane delle loro famiglie.
I protagonisti
Don Franco
Sono le sei di pomeriggio e il rumore delle campane invade la piccola piazza di Sorbolo, un comune di novemila abitanti in provincia di Parma. Nella luce del crepuscolo, un uomo anziano, che si sorregge a un bastone, entra nella pizzeria a lato della piazza. Si sente una voce di donna: “Prenda pure la pizza don, è stata già pagata”. L’uomo si gira ed esce dal locale. Si chiama don Franco Reverberi ed è il parroco italoargentino del paese. Aveva lasciato Sorbolo a 11 anni con la sua famiglia per andare in Argentina e, dal 2011, è il parroco del borgo emiliano. Ben accolto e amato dalla comunità, ha condotto una vita tranquilla e defilata, fino a quando la sua foto segnaletica non è comparsa sul sito dell’Interpol. Era il 2012. L’accusa: crimini contro l’umanità e tortura.
La foto segnaletica di don Franco Reverberi sul sito dell’Interpol
Difficile riconoscere nell’uomo che esce dalla pizzeria il don Franco Reverberi ricercato dall’Interpol. Indossa un parrucchino e occhiali. “Scusi, è don Franco Reverberi?”. “Sì”. Alla richiesta di un’intervista il parroco si allarma. Dice di essere “un uomo malatissimo”. Si affretta verso casa e, chiudendosi la porta alle spalle, aggiunge: “Io non ero nemmeno cappellano militare in quegli anni, non potevo essere lì”. La storia, tuttavia, documenta dell’altro. Don Franco, per oltre 40 anni, ha vissuto ed esercitato come parroco a San Rafael, città argentina a sud di Mendoza, dove, negli anni della dittatura, era stato creato un centro clandestino di tortura e sterminio, la “Casa Departamental”, l’unico dei 340 in Argentina all’interno di un tribunale. A San Rafael sono state detenute, torturate e uccise decine di persone. E per processare gli autori di quei delitti nell’agosto 2010 è stato celebrato un maxi-processo. Don Franco Reverberi, negli anni della dittatura, era cappellano militare dell’esercito di quella città ed è stato chiamato a testimoniare.
Don Franco Reverberi, accusato di torture, dal 2011 è il parroco della chiesa dei Santi Faustino e Giovita a Sorbolo, in provincia di Parma (video dalla pagina Facebook del Gruppo Giovani Anspi della parrocchia)
Con la Bibbia in mano
Durante il processo, quattro testimoni dissero infatti che mentre venivano torturati era presente il cappellano militare, che identificarono in don Reverberi. Era parroco della loro città e lo conoscevano bene sin da prima di essere detenuti. Dissero che don Franco indossava abiti militari e assisteva ai pestaggi con la Bibbia in mano invitando i torturati a collaborare. Mai una parola di conforto. Il 23 agosto 2010, don Reverberi si dichiarò estraneo ai fatti. Ma il 14 giugno 2011, quando il procuratore federale José Maldonado lo convocò con un mandato di comparizione, aveva già fatto perdere le sue tracce. Il 10 maggio di quell’anno era volato in Italia. E al suo posto, in aula, si era presentato il vice cancelliere del vescovo Luis Marcelo Gutiérrez per consegnare ai giudici una cartella clinica che certificava problemi cardiaci. Gli stessi che avrebbero impedito al sacerdote di viaggiare per presenziare al processo. Il 26 settembre del 2012, l’Argentina ha richiesto l’estradizione e l’Interpol ha emesso un mandato di ricerca internazionale nei confronti del parroco. Il 20 ottobre del 2013 la richiesta d’estradizione è stata negata dalla Corte d’appello di Bologna.
“Pulite il sangue con il corpo”
Mario Bracamonte sentiva freddo. Era riverso sul pavimento di una stanza buia. Era notte e intorno a lui le mattonelle erano rosse e appiccicose. Era il 9 luglio del 1976 e Mario era stato torturato per moltissime ore insieme ad altri detenuti. Il pavimento era ricoperto di sangue: il loro. Non era la prima volta. Succedeva quasi tutte le notti, ma mai così. Mario aveva 28 anni e si chiedeva se sarebbe sopravvissuto a quella notte. La sofferenza fisica era tale che faticava a sentire qualcosa di diverso dal dolore del proprio corpo, finché non udì distintamente i militari che gli ordinavano di pulire la stanza dal sangue. I detenuti non avevano nulla per farlo e i carcerieri furono chiari: dovevano asciugare strisciando a terra con i loro corpi. A osservare lo spettacolo delle torture e dei detenuti che strisciavano in terra – ricorda Mario – c’era don Franco. E lo ricorda perché, mentre lo torturavano, di quel prete cercò lo sguardo, prima che i militari gli tirassero un calcio: “Cosa guardi, negro?”. Mario Bracamonte sopravvisse a quella notte. Oggi ha 67 anni e vive ancora a San Rafael. È in pensione e, insieme a sua moglie Titi, ricostruisce le ore più buie della sua vita. Si interrompe più volte, gli mancano le parole e la voce. Interviene sua moglie per spiegare quanto sia difficile. Entrambi però dicono che è necessario. “Conoscevo don Reverberi, era il parroco della città. Quando mi hanno sequestrato e l’ho visto entrare la prima volta insieme ai militari non ci potevo credere – racconta Mario – A me non interessa nemmeno che Reverberi vada in carcere, voglio solo che risponda alle domande.
Se ha partecipato alle nostre torture, era sicuramente presente anche quando facevano sparire i corpi dei morti. Io voglio solo che mi dica dove sono i miei compagni scomparsi, non chiedo altro.
Voglio che risponda alle domande per ritrovare i compagni che oggi non possono più essere qui con noi”.
“Vuoi vedere il messaggio del Vescovo?”
Mentre don Franco rientra a casa con la pizza d’asporto, nella Chiesa al centro della piazza di Sorbolo c’è don Aldino Arcari, parroco della diocesi. Lavora da molti anni al fianco di don Franco. Arcari sta sanificando la Chiesa come previsto dalle norme anti Covid: è da poco finita la messa e a breve comincerà un battesimo. La sua voce rimbomba fra le navate: “Non capisco cosa vogliate voi giornalisti da don Franco. Lui non era nemmeno cappellano militare in quegli anni, non poteva nemmeno essere lì. Ora basta, non ci posso credere che siate venuti sin da Roma per questa roba qui. Poveretto, ma lo sapete che ha avuto due infarti? Quello che state facendo è un accanimento, è una tortura nei suoi confronti. Sono passati 40 anni, dovete lasciarlo in pace. Comunque qualche giorno fa, quando voi giornalisti siete arrivati a Sorbolo, ho scritto al vescovo per dirgli che stavate cercando don Franco. Il vescovo mi ha risposto: dagli un pugno nei denti. Vuoi vedere il messaggino?”.
Negli ultimi anni, il caso di don Franco è tornato spesso agli onori della cronaca: un parroco ricercato dall’Interpol per crimini contro l’umanità fa discutere. Trovare qualcuno disposto a parlarne a Sorbolo però è molto difficile. La comunità è chiusa in un silenzio compatto. Non ne sanno nulla, dicono. E anche se sanno non ne vogliono parlare: la richiesta di estradizione è stata negata, quindi per loro don Franco è innocente. Qualcuno, però, la pensa diversamente. Cristina Milanese fa l’insegnante e vive accanto alla Chiesa di Enzano, frazione di Sorbolo.
La testimonianza di Cristina Milanese che vive accanto alla chiesa di Enzano, frazione di Sorbolo, dove don Reverberi ha iniziato a dire messa
È da questa piccola località che proviene don Reverberi ed è proprio qui che nel 2011 ha iniziato a dire messa. Quando Cristina ha scoperto che il parroco era ricercato dall’Interpol è uscita di casa e ha parlato con i suoi vicini chiedendo loro di non frequentare più le messe officiate da don Franco. Cristina è seduta al tavolo della sua cucina e alle sue spalle si trova la finestra da cui si può vedere la chiesa. “Nessuno mi ha ascoltato, tutti hanno continuato a frequentare la messa. Sono convinta che per sapere se una persona sia colpevole si debba aspettare l’esito del processo, non si può giudicare a priori. E allora che don Franco si faccia processare. Devi dare la possibilità alla giustizia di condannarti o di scagionarti, se non hai fatto nulla. Non ti puoi sottrarre a questo, soprattutto se predichi il Vangelo. È molto grave. Questi fatti non dovrebbero succedere, almeno quelle famiglie si meritano un po’ di giustizia. Penso a quelle mamme, ai ragazzi di 20 anni torturati e uccisi: non si può, sono figli di tutti”.
Nel 2016 era stata l’associazione Antigone a proporre ai fedeli di Sorbolo il boicottaggio delle messe officiate da Reverberi. Racconta il presidente Patrizio Gonnella: “Siamo garantisti, chiediamo che ci sia un processo. Quello che sosteniamo però è che un prete, ancora più di un laico, dovrebbe avere un senso di giustizia eterno e non sottrarsi a un processo. Per questo motivo don Franco dovrebbe andare davanti a un giudice, spiegare, difendersi e se non è responsabile uscirne indenne. Quello che abbiamo sostenuto nel 2016 come associazione non era di condannare Reverberi, ma che perlomeno si facesse giudicare. Un giorno vorrei organizzare con Antigone un convegno a Sorbolo e invitare accademici e giudici per parlare della tortura e dei regimi che la producono. Perché sarebbe giusto discuterne con la comunità, sarebbe lecito parlarne.
C’è un sacerdote accusato di violenza negli anni ’70 e un giorno dovrà risponderne. Vogliamo e dovremmo ritornare in quella comunità, perché non può essere che tutto finisca con la messa celebrata ogni domenica.
Nel 2013, quando la richiesta di estradizione di don Reverberi è stata rigettata, la legge sul reato di tortura era assente nel nostro codice penale e questo ha favorito l’impunità dell’ex cappellano militare”.
Ed è proprio per l’introduzione della legge sulla tortura nel codice italiano che il 2 ottobre scorso è stata presentata ai giudici argentini un’istanza per richiedere per la seconda volta l’estradizione dall’Italia di don Franco, rigettata una prima volta nel 2014. Nel documento, si richiede che i capi di accusa siano ampliati a omicidio aggravato, privazione abusiva di libertà con uso di violenza e associazione a delinquere. Si richiede inoltre che sia ripristinato il mandato di cattura internazionale dell’Interpol diramato nel 2012 e che oggi risulta decaduto. L’istanza è stata firmata da Richard Ermili, avvocato dell’Apdh (Asamblea permanente por los derechos humanos), che spiega: “In Argentina la religione cattolica è quella maggiormente seguita dalla popolazione e in virtù di questo don Reverberi esercitava un’autorità da cui ci si aspetta compassione, aiuto e guida spirituale. Ma non era questo che stava facendo negli anni della dittatura mentre invitava i detenuti a collaborare con le persone che li avevano sequestrati. Io credo ai testimoni: persone che sono state sequestrate senza ragione, senza causa, senza processo. Credo a quello che dicono, credo loro profondamente. E non lo faccio per convenienza, ma perché li ho ascoltati. E se li ascolti sai che dicono la verità”.
“Il peccato è la tenebra. Mantieni la fede”
Le messe a Sorbolo non si sono fermate nemmeno durante il periodo di quarantena imposto per l’emergenza Covid. I parroci hanno continuato a officiare le messe in streaming. E, in occasione della quarta domenica di quaresima, è stato proprio don Franco a salire sul pulpito, aprendo la sua omelia con voce sicura: “Il peccato è la tenebra, la morte e la lontananza di Dio. Convertiamoci e chiediamo al Signore perdono. Prima eravamo tenebre, adesso dobbiamo essere luce del Signore”. Le messe streaming della parrocchia di Sorbolo hanno riscosso molto successo, tanto che il 28 marzo scorso una foto della funzione è stata pubblicata sulla copertina della prestigiosa rivista inglese The Guardian Weekly. In basso a destra c’è don Franco, al centro una scritta Keeping the faith – Mantieni la fede.
Una foto della funzione in streaming della parrocchia di Sorbolo pubblicata sulla copertina inglese The Guardian Weekly. Da sinistra il diacono Marco Cosenza, don Aldino Arcari e don Franco Reverberi
A testimoniare contro Reverberi, oltre a Mario Bracamonte, sono stati altri tre ex detenuti politici: Sergio Chaqui, Roberto Rolando Flores Tobio ed Enzo Bello Crocefisso. Quest’ultimo ha dichiarato di essere stato arrestato nel dicembre del 1976 a General Alvear, una città a 85 chilometri da San Rafael, e di essere stato interrogato da un parroco che gli aveva parlato in italiano, fatto non comune fra i sacerdoti della zona. Mentre il 5 novembre 2013 si è presentato spontaneamente al tribunale federale di San Rafael Aurelio Guerrero, psichiatra italoargentino, che ha testimoniato di aver visto don Reverberi entrare in svariate occasioni dal 1976 al 1978 in un centro usato dai servizi dell’intelligence argentina ubicato proprio a San Rafael. Ha spiegato di essere sicuro che quell’uomo fosse don Franco, dato che lo conosceva sin da quando era bambino.
In contrasto con i testimoni che hanno dichiarato di aver visto il parroco in diversi centri clandestini e in luoghi dell’intelligence, don Reverberi il 23 agosto 2010 ha testimoniato davanti ai giudici argentini di essere completamente estraneo ai fatti e di non essere mai entrato in un centro clandestino. A sostegno della sua versione, ha mostrato il documento del vescovado che lo nomina ufficialmente cappellano militare dell’esercito di San Rafael il 26 maggio del 1980. E tuttavia, i luoghi dove, negli anni della dittatura, migliaia di oppositori sono stati torturati e uccisi erano clandestini. Chi vi operava lo faceva al di là delle norme statali. È quindi lecito pensare che non esistano documenti ufficiali che riportino i nomi di chi transitava all’interno dei centri.
I cappellani dell’orrore
I casi documentati di cappellani che, come don Franco, assistevano i militari nei centri di sterminio sono molti. Come spiegano Lucas Bilbao e Ariel Lede, ricercatori dei legami fra Chiesa e dittatura argentina e autori del libro “Profeta del genocidio”: “I casi di parroci riconosciuti dai sopravvissuti ai centri di detenzione e sterminio sono vari. I più famosi sono quelli di José Eloy Mijalchyk e Alberto Ángel Zanchetta e anche in questi due casi – come per don Reverberi – la nomina ufficiale a cappellani militari è avvenuta anni dopo rispetto ai fatti riportati dai testimoni. Zanchetta era uno dei cappellani della Esma di Buenos Aires, uno dei più letali centri di sterminio di tutto il Paese dove furono detenute oltre 5.000 persone.
Nel 1995 il giornalista Horacio Verbitsky intervistò Adolfo Scilingo che fu in assoluto il primo militare argentino a parlare dei campi di sterminio e dei “voli della morte” con cui i corpi dei detenuti – ancora in vita – venivano lanciati in mare per farli sparire. Scilingo raccontò anche dei cappellani militari dell’Esma e menzionò Zanchetta che lo confessò dopo il suo primo volo della morte. Zanchetta fu cappellano della Esma dal 1975 al 1977, ma non risulta nella lista ufficiale dei cappellani militari fino al 1984. Mijalchyk invece fu nominato ufficialmente cappellano militare nel 1982 ma sono numerose le testimonianze di sopravvissuti che raccontano di essere stati interrogati da lui nel centro clandestino “Arsenales” in provincia di Tucuman fra il 1976 e il 1977. Il parroco che – a quanto riportano i testimoni – invitava i detenuti a collaborare con i militari e che si rifiutava di pregare insieme a loro perché “sarebbero comunque andati tutti all’inferno”, è stato il primo prete a essere imputato in un processo in Argentina per “crimini di lesa umanità”.
Arturo Salerni, legale di parte civile per la Repubblica argentina nel processo contro il sacerdote
Arturo Salerni che, nel caso Reverberi, è stato parte civile in Cassazione per la Repubblica argentina e che dal 2015 al 2019 a Roma è stato uno dei principali avvocati difensori delle vittime del maxi-processo Condor nel quale sono stati condannati in secondo grado all’ergastolo 24 responsabili dei crimini commessi durante le dittature sudamericane, spiega: “In questo tipo di processi non ci sono mai documenti ufficiali che attestino le attività degli imputati, dal momento che erano illegali. Reverberi è stato accusato dai sopravvissuti di essere stato un complice delle torture, e non di essere stato un mero osservatore con un atteggiamento passivo, ma di aver dato ulteriore stimolo e determinazione all’attività dei torturatori, legittimandoli con la propria presenza attiva e benedicente. In questi processi le azioni compiute dagli imputati si ricostruiscono principalmente attraverso il racconto dei testimoni, di chi è passato da quelle camere delle torture ed è sopravvissuto. Nel caso di Reverberi ci sono stati diversi testimoni e tutti hanno fatto un preciso riconoscimento del prete: era lui, era lì”.
Il volto di S2
Cristina Flynn era bendata, tre uomini la tenevano stretta e la spingevano. Le dicevano che l’avrebbero violentata e fatta sparire. Aveva un’arma puntata alla testa. Non sapeva dove fosse, ma le arrivava forte l’odore della salsedine. Dalla benda riusciva a vedere solo il pavimento del luogo dove stava camminando: erano le piastrelle del porto di Montevideo, la sua città. Cristina era molto giovane e militava per opporsi alla dittatura che in quegli anni opprimeva il suo Paese, l’Uruguay. La portarono in una sala e la torturarono per ore. Era il dicembre del 1977. Cristina sopravvisse alle torture e alla fine le fecero abbassare la benda per firmare un verbale. Non scordò mai il volto del militare che si trovò di fronte quel giorno e quasi 20 anni dopo, nel 1996, rivide quella faccia sulle copertine di tutti i giornali. Quel militare si chiamava Jorge Nestor Troccoli. All’epoca del rapimento di Cristina era il capo dell’S2, l’intelligence della Marina uruguaiana e nel 1996 fu il primo militare a parlare pubblicamente di quello che accadde negli anni del terrorismo di Stato.
Manifestazione a Montevideo in Uruguay per chiedere la verità sui desaparecidos durante la dittatura militare (1973-1985)
Esplose il caso in Uruguay, Troccoli firmò una lunga lettera aperta sul quotidiano El Pais in cui ammetteva di aver sequestrato e torturato i militanti, fece diverse interviste e l’anno dopo pubblicò un libro intitolato “L’ira del Leviatano” in cui ripercorreva quegli anni dal suo punto di vista. All’epoca di quella clamorosa uscita pubblica, Troccoli aveva 49 anni, era un militare, viveva a Montevideo con la moglie Betina ed era perfino iscritto all’università ad antropologia. I tempi dei processi ai militari erano ancora lontani, si negava che ci fossero stati morti, desaparecidos, torture.
Marina di Camerota
Troccoli conduceva una vita serena fino a quando, nel 2007, si sono aperti i processi contro i militari della dittatura. Come ha spiegato ai giudici romani Mirtha Guianze Rodriguez, pubblico ministero uruguaiano che ha avviato il processo contro Troccoli a Montevideo, durante la sua testimonianza al processo Condor il 20 ottobre 2015: “Quando inviammo un mandato a Troccoli il suo avvocato difensore ci disse che il suo cliente era in Brasile per lavoro, ma non era vero. Era già in viaggio verso l’Italia”. Ad ottobre del 2007, infatti, Jorge Nestor Troccoli arrivò a Marina di Camerota, un piccolo comune cilentano da cui la sua famiglia proveniva. Qualche anno prima, aveva richiesto e ottenuto la cittadinanza italiana, al suo arrivo nel paese trovò l’avvocato Adolfo Domingo Scarano, che divenne il suo primo avvocato difensore e che racconta: “Lo andai a prendere alla stazione di Pisciotta alle 9 di sera e notai subito che aveva due valigie molto grandi.
Il racconto di Adolfo Domingo Scarano che fu il primo in Italia a difendere il torturatore ricercato
Ricordo che dissi subito a mio fratello che qualcosa non mi tornava, che secondo me era scappato. Il giorno dopo mi raccontò qual era la situazione e lo portai qui a casa mia, in una stanzetta al piano di sopra fino a Natale quando andò ad abitare per un periodo nel campeggio di mio fratello dato che il piano di sopra di casa mia era stato affittato per le festività. Mi disse ripetutamente di voler parlare con un magistrato dato che era ricercato con un mandato internazionale, ma io gli risposi: ‘Tu in tribunale dal magistrato vai quando lo dico io’. Gli consigliai di non farsi vedere troppo in giro perché mi ero informato ed effettivamente c’era un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti e da avvocato volevo farlo costituire nel periodo migliore. Ho giocato d’astuzia e sapendo che in Uruguay i tribunali si fermano 45 giorni, dal 25 dicembre al 10 febbraio, gli ho consigliato di far passare il Natale e di andarsi a costituire prima di Capodanno. Però il 21 dicembre è comparso un trafiletto sul Mattino con la sua fotografia e così si è costituito prima del previsto”. Troccoli in effetti lo fece la notte del 23 dicembre, venne immediatamente arrestato e incarcerato a Regina Coeli, da dove fu scarcerato il 24 aprile 2008 dato che l’ambasciata uruguaiana non trasmise entro i tempi previsti la richiesta di estradizione alla cancelleria italiana. Errore che in Uruguay fece molto clamore e portò alla rimozione dell’allora ambasciatore uruguaiano in Italia Carlos Abín.
Dopo la scarcerazione l’ex fuciliere uruguaiano cominciò la sua vita da pensionato a Marina di Camerota. Nel paese si conoscono tutti. La maggioranza degli abitanti qui ha legami con il Sud America, l’emigrazione – soprattutto verso il Venezuela – è stata fortissima. Gli abitanti descrivono Troccoli come un uomo molto abile, intelligente e schivo. Ha vissuto qui per anni insieme alla moglie Betina, insegnante d’inglese in Uruguay, che a Marina di Camerota lavorava in una boutique vista mare. Troccoli, che continua a ricevere dall’Uruguay la pensione come ex militare, provò a mettere su una piccola attività di noleggio go-kart per i numerosi turisti che ogni estate si riversano a Marina di Camerota. I macchinari che gli furono venduti risultarono però difettosi – motivo per il quale cercò di intentare una causa civile – e il lancio dell’attività saltò.
Il processo a Roma nei confronti di 33 ufficiali militari e civili sudamericani accusati di aver collaborato alle sparizioni forzate e all’omicidio di oltre 40 oppositori politici. Tra i desaparecidos anche cittadini italiani. In piedi il magistrato Giancarlo Capaldo
Condor
Nel 2015, arrivò una notizia sconvolgente per la tranquilla vita di Jorge e Betina: il pubblico ministero Giancarlo Capaldo, che aveva istruito il mandato internazionale per Troccoli, riuscì a istituire a Roma un maxi-processo per le vittime italiane delle dittature sudamericane. Nel maxi-processo Condor, nell’aula bunker di Rebibbia, fra gli imputati figurava anche l’ex fuciliere uruguaiano Jorge Nestor Troccoli, l’unico attualmente residente in Italia e che il 13 ottobre del 2016 fece delle dichiarazioni spontanee in aula. Il processo riguardava le vittime di origine italiana del cosiddetto Plan Condor, l’operazione nata nel novembre del 1975 a Santiago del Cile con cui otto Stati sudamericani si impegnavano a catturare i militanti esiliati in America Latina, negli Stati Uniti e in Europa.
Come spiega l’ex pm Giancarlo Capaldo: “Il processo italiano è stato unico perché gli altri processi per le vittime delle dittature sudamericane riguardavano la scomparsa delle singole persone, mentre con il processo Condor sono state messe in luce le vicende come articolazioni di un piano di repressione sistematico e internazionale. Troccoli, all’epoca, era un giovane rampante ufficiale della marina uruguaiana che, secondo la nostra ricostruzione, si dava molto da fare e collaborava con altri servizi per la cattura clandestina, la tortura e la scomparsa di persone. Troccoli, che viveva bene in Uruguay, è venuto in Italia perché nel suo Paese erano iniziati i processi contro le giunte militari ed alcuni suoi commilitoni erano stati arrestati. Così, per sfuggire alla giustizia uruguaiana, Troccoli si è ricordato di avere la cittadinanza italiana ed è espatriato”.
Giancarlo Capaldo è il magistrato che ha istruito il mandato internazionale per Troccoli
Ma perché Troccoli – capo dell’intelligence uruguaiana – figura fra gli imputati di un processo riguardante il Plan Condor? Troccoli, che all’epoca dei fatti era un giovane militare, faceva parte del Fusna – i fucilieri della marina uruguaiana –, gruppo che dagli anni ’70 aveva lo specifico compito di dedicarsi alla repressione politica. Nel 1977 venne trasferito in Argentina con il pretesto di un corso di formazione, ma in realtà il suo compito era un altro: doveva catturare – come militare dell’Operazione Condor – i militanti uruguaiani esiliati in Argentina, soprattutto a Buenos Aires.
Sono molti i testimoni che in quegli anni hanno visto l’ex fuciliere uruguaiano dentro all’Esma, il centro clandestino più grande di Buenos Aires. Come osserva Francesca Lessa, ricercatrice all’università di Oxford, e una delle massime esperte dell’operazione Condor: “Quando Troccoli venne spostato a Buenos Aires divenne l’ufficiale di collegamento tra la Marina uruguaiana e quella argentina. Assunse una funzione strategica in territorio argentino già dalla fine del ’77 e nel ’79 entrò a far parte del famigerato gruppo operativo dell’Esma dove portò avanti operazioni di sequestro e di interrogatorio e torture per ottenere informazioni che potessero portare all’arresto e al sequestro di altri militanti politici. Tutto questo si evince dal fascicolo militare di Troccoli, dove viene anche elogiato ampiamente da ufficiali di alto livello”.
A Roma il processo di primo grado contro il torturatore italo-uruguaiano, al termine del quale nel 2017 Troccoli verrà assolto. In appello sarà condannato all’ergastolo. Il 24 giugno del 2021 ci sarà la sentenza della Cassazione
Durante il processo Condor Troccoli è stato imputato della morte e sparizione di 20 persone e sono decine i testimoni volati a Roma per deporre nel corso di quasi due anni di udienze. Il 17 gennaio del 2017 Troccoli è stato assolto dalla Corte di Assise di Roma, ma la sentenza è stata poi ribaltata in secondo grado: nel luglio del 2019 è stato condannato all’ergastolo dai giudici romani. L’ex militare uruguaiano, ancora residente in Italia, è ora in attesa della lettura della sentenza di Cassazione che è stata fissata per il 24 giugno 2021. Oggi vive a Battipaglia, ha lasciato Marina di Camerota anni fa dopo vari dissidi con i familiari e con l’ex avvocato difensore. Abbiamo rintracciato Nestor Troccoli nella sua abitazione, che si trova all’interno di alcuni fabbricati popolari nel quartiere Belvedere di Battipaglia. L’ex militare dice di non poter parlare con i giornalisti perché in attesa della sentenza della Cassazione. Attualmente, l’unica misura restrittiva adottata nei suoi confronti è il divieto di espatrio con conseguente sequestro del passaporto. La sua foto più recente lo mostra in vacanza con la moglie Betina: indossano le mascherine per le misure anti Covid, pantaloncini, magliette a maniche corte e occhiali da sole. Appaiono spensierati, al collo i fili di un’audioguida, e alle spalle un albero fiorito.
Oggi, le autorità italiane stanno indagando su due nuovi casi che coinvolgerebbero l’ex fuciliere uruguaiano: l’omicidio dei due militanti italoargentini Raffaela Filipazzi e José Agustin Potenza. I due furono sequestrati in Uruguay, a Montevideo, il 25 giugno del 1977. Erano alloggiati all’hotel Ermitage e furono arrestati durante un’operazione congiunta delle forze uruguaiane e paraguaiane. Di entrambi non si seppe più nulla per moltissimi anni. I figli in tutto questo tempo però non hanno mai smesso di cercarli e nel 2017 c’è stata la svolta: in una fossa comune a Misiones, in Paraguay, sono stati trovati i loro resti. Silvia Potenza, figlia di Agustin, oggi chiede giustizia per il padre e dice: “Ritrovare il suo corpo è stato importantissimo per me, avere un familiare desaparecido significa avere sempre qualcosa in sospeso. Gli ultimi anni sono stati durissimi, ho ritrovato mio padre e l’ho riportato a casa. Ho bisogno di voltare pagina, ma voglio anche che Nestor Troccoli sia condannato e paghi per quello che ha fatto. Non accetto che i militari della dittatura uruguaiana passino i loro ultimi anni come pensionati qualunque”.
José Agustin Potenza fu sequestrato in Uruguay, a Montevideo, il 25 giugno del 1977. Di lui non si seppe più nulla fino al 2017, quando fu ritrovato il suo corpo. Troccoli è sospettato di avere avuto un ruolo nella sua morte
È dello stesso avviso Rafael Michelini, ex senatore uruguaiano e figlio di Zelmar Michelini: principale figura politica di opposizione alla dittatura, ucciso nel 1976 mentre si trovava in esilio a Buenos Aires. Troccoli ha dedicato a Rafael il suo libro “L’ira del Leviatano”. In quelle pagine racconta che l’ex senatore era andato a trovarlo più volte dopo la pubblicazione della sua lettera aperta. Come sottolinea Michelini: “Era importantissimo che finalmente un militare parlasse e dicesse pubblicamente: ho torturato. Speravo di poter aprire un dialogo con Troccoli, soprattutto per sapere cosa fosse successo ai desaparecidos. Le dichiarazioni dell’ex militare però non si trasformarono mai in un aiuto concreto o nell’assunzione completa della propria responsabilità. È certo che il terrorismo di Stato sia stato applicato dall’alto, però in molti hanno detto di no e tutti loro avrebbero potuto fare lo stesso. Ancora oggi sia lui che i suoi commilitoni sono convinti di aver salvato la patria dai terroristi e che quello fosse l’unico modo di agire.
La marcia del silenzio per commemorare i desaparecidos della dittatura uruguaiana si tiene ogni 20 maggio, anniversario dell’assassinio dell’ex senatore uruguaiano Zelmar Michelini, avvenuto nel 1976
Negli anni ’70, in Uruguay, c’erano alcune organizzazioni armate che pianificavano la rivoluzione, contro di loro andava applicata la legge con un processo e non la tortura sistematica, l’occultamento e la sparizione dei cadaveri. A Troccoli devono essere garantiti tutti i suoi diritti, ma deve pagare per ciò che ha fatto. In quegli anni i militari uruguaiani hanno deciso la vita e la morte di centinaia di cittadini. Un delitto del genere non può rimanere impunito”.
L’inferno di San Juan
Il 26 maggio scorso, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato l’istruzione di un processo contro Carlos Luis Malatto per i reati di omicidio plurimo aggravato, sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale nei confronti di cinque cittadini argentini: Alfredo e Marta Lerouc, Anne Marie Erize, Arias Florentino e Juan Carlos Campora. L’ex tenente argentino all’epoca del golpe aveva 27 anni ed era secondo in capo del Rim22, il Reggimento 22 della fanteria di Montagna della città di San Juan. Per sfuggire alla giustizia argentina Carlos Luis Malatto vive in Italia da quasi dieci anni e dopo aver fatto perdere le proprie tracce per diverso tempo, era stato rintracciato da Repubblica nel giugno 2019 a Portorosa, un esclusivo residence in provincia di Messina.
Carlos Luis Malatto sorpreso nella sua abitazione nel complesso turistico di Portorosa, in provincia di Messina
Tra il 1976 e il 1983 a San Juan sono stati sequestrati e fatti sparire oltre 100 oppositori politici e questi delitti sono ritenuti opera proprio del Rim22. Come rivela Eloy Camus, storico e autore del libro “Vittime del terrorismo di Stato a San Juan”: “Tutto il coordinamento delle azioni repressive era responsabilità del tenente Malatto, alla guida del gruppo che realizzava i sequestri, le torture e gli omicidi”. Gli uomini del Rim22, come testimoniato dai sopravvissuti durante i processi svolti a San Juan per crimini contro l’umanità, si sono distinti per l’efferatezza delle pratiche repressive adottate. Eloy Camus oggi ha 61 anni e vive ancora a San Juan dove, quando aveva solo 18 anni, è stato sequestrato e torturato dagli uomini del Rim22. Negli anni è stato uno dei principali testimoni dei processi che hanno riguardato i desaparecidos di San Juan e come denuncia Camus: “Un altro successo dell’organizzazione del Rim22, reso possibile solo dalla scrupolosa e metodica attenzione del tenente Malatto, è che a San Juan non sono mai stati ritrovati i corpi di nessuno degli scomparsi”.
Il neonato sulla veranda
Era un pomeriggio di ottobre del 1976, Manuel e Ana Saroff si trovavano nella loro abitazione a Mendoza quando sentirono il pianto di un bambino. Corsero fuori: sulla loro veranda c’era un neonato. Era il nipote Fernando. Da qualche mese i genitori del bambino, Alfredo e Marta Lerouc, vivevano in clandestinità a San Juan: erano militanti Montoneros – organizzazione guerrigliera d’opposizione alla dittatura – e sapevano di essere in pericolo. Manuel e Ana non potevano immaginare che qualche giorno prima Alfredo era stato ucciso per strada dagli uomini del Rim22 e che Marta era detenuta. Di Marta da allora non si seppe più nulla e ancora oggi continua a essere desaparecida.
Eva Lerouc è volata a Roma per deporre contro Carlos Malatto. Nel 1976 suo padre è stato ucciso mentre sua madre risulta desaparecida. Responsabili sono stati ritenuti gli uomini del Rim22, il reggimento di cui l’ex tenente faceva parte
Eva Lerouc nel 1976 aveva due anni e quel pomeriggio era a casa con i suoi nonni Manuel e Ana quando hanno ritrovato il suo fratellino nella veranda. Da allora non ha mai smesso di chiedere giustizia per i genitori e lo scorso novembre è volata a Roma per deporre contro l’ex tenente Carlos Malatto. Oggi vive ancora a San Juan e accusa: “Per chi ha commesso questi crimini terribili chiediamo il carcere. I miei genitori non hanno avuto diritto a un processo, ma noi non chiediamo altro per chi li ha torturati e uccisi. In Argentina si cerca spesso di far passare gli ex militari della dittatura come poveri vecchietti che chiedono solo di essere lasciati in pace. Questi poveri vecchietti però hanno fatto sparire 30mila persone. Un dolore come quello che vivo io non si supera, si può solo sopravvivere. Sapere che chi ti ha causato tutta questa sofferenza sta pagando la sua condanna è l’unico modo che ti permette di andare avanti”.
Residence Portorosa
Oggi Carlos Malatto vive nell’esclusivo residence di Portorosa in provincia di Messina: un grande complesso turistico che ha all’interno vari bar e ristoranti di lusso, un porto con servizio di yachting e diversi hotel. Lo scorso novembre, Eva ha visitato il luogo dove vive l’ex tenente argentino: “Fa male sapere che Malatto sia ancora libero e che goda di una vita che un cittadino comune non si può permettere. È come se Hitler avesse vissuto alle Bahamas e se chi ha causato l’Olocausto fosse stato libero di vivere una vita di piaceri.
Fa male e ti senti impotente. Sono venuta in Italia a denunciare Malatto anche per fare in modo che i vicini sappiano chi è quest’uomo, perché gli italiani sappiano a chi hanno dato la cittadinanza e, se lo stanno proteggendo, sappiano chi stanno proteggendo”.
L’ex tenente argentino, dal maggio 2018 ha ricevuto in comodato d’uso gratuito da una donna residente a Enna un villino a due piani nel complesso di Portorosa. La sua abitazione, con giardino e le inferriate rosse, si trova in prossimità di un viale e affaccia sul mare. La villetta gode di un accesso privato ai due lidi presenti sulla lunga spiaggia che si trova di fronte a Portorosa: bastano due passi per arrivare alla prima sdraio in riva al mare. Malatto, dicono gli abitanti del luogo, passa le giornate sulla sua piccola barca ormeggiata al porto e possiede due automobili, una vecchia Panda bianca che utilizza solo per brevi spostamenti dal residence e una Mercedes Benz grigia metallizzata che usa per andare a Enna. Spesso cena in una pizzeria poco distante da Portorosa. È quasi sempre solo, anche se nel periodo precedente al Covid è stato visto più volte con la sua compagna argentina. Dopo il clamore suscitato dal suo ritrovamento, Malatto non si è fatto vedere per un lungo periodo nella zona. Oggi gli abitanti del luogo non possono affermare con certezza che viva ancora nel residence. E in effetti dell’ex tenente argentino non c’è traccia, fino a quando all’ora di pranzo nel vialetto sotto casa sua compare la sua vecchia Panda bianca. Il finestrino è abbassato e le chiavi si trovano sul cruscotto. La finestra che dà sul viale è aperta e da lì si scorge Malatto. In pochi minuti richiude la finestra e la porta di casa. Sale in macchina e, con la stessa fretta con cui è arrivato, se ne va.
Gratta e Vinci
Dal 2015 al 2018 Malatto ha vissuto a Calascibetta, un piccolo comune siciliano di 4mila abitanti. Oggi al campanello dell’ex abitazione di Malatto non risponde nessuno, ma poco più in là, in via Conte Ruggero, risponde al citofono la donna che anni prima aveva concesso l’immobile al tenente. Dice di non aver mai avuto a che fare con Malatto prima che gli affittasse l’abitazione. Spiega che era registrato con contratto regolare e che se n’è andato ormai da due anni. Non vuole aggiungere altro. Sono molti gli abitanti del paese che ricordano l’ex tenente: quando lo scorso anno hanno letto gli articoli su di lui non potevano credere che quel gerarca fosse lo stesso uomo che avevano visto camminare per le vie di Calascibetta. Lo vedevano sempre solo, ma ricordano che una volta è venuto a trovarlo il figlio. Non ha fatto amicizia, non era molto socievole con gli abitanti ma il proprietario del tabacchi lo ricorda molto bene: “Lo vedevo quasi tutti i giorni, parlava benissimo l’italiano. Era un tipo particolare, aveva dei modi di fare molto distinti. Qui acquistava sempre un gratta e vinci, ma lo portava a casa per grattarlo e il giorno dopo veniva a ritirare l’eventuale vincita. Mi aveva anche raccontato di essere stato un militare nel suo Paese, ne era molto fiero: mi aveva confessato che era stato un militare importante”.
Nel comune siciliano in provincia di Enna, Malatto ha vissuto dal 2015 al 2018. “Era un tipo particolare, aveva dei modi di fare molto distinti”, lo ricorda qualcuno, “mi aveva confessato che era stato un militare importante”
Prima di risiedere a Calascibetta, Malatto era stato sorpreso a Genova nell’ottobre del 2014, dove era ospite della parrocchia di San Giacomo Apostolo nella piccola frazione di Cornigliano. Aveva dichiarato di essere stato aiutato dal padre argentino don José Galdeano Fernández che in quegli anni era parroco lì. Oggi don Galdeano vive a Madrid dove svolge funzione di parroco nella Chiesa di San Valentín e San Casimiro, nel quartiere di Vicálvaro. È originario della stessa città di Malatto, Mendoza, dove ha preso gli ordini il 2 ottobre del 1988. Racconta: “Conoscevo sua moglie, una signora che ha combattuto molto a lungo contro il cancro. Sono stato parroco della zona in cui viveva dal ’92 al ’97, veniva a messa con la sua famiglia ma non avevo idea del suo passato. Nell’estate del 2014 mi ha chiamato, sapeva che ero in Italia e mi ha chiesto ospitalità: ha detto di avere famiglia a Genova e di doversi fermare per un breve periodo. In totale è rimasto circa 15 giorni, come è apparso se ne è andato. Un giorno è venuto un camioncino a prenderlo e non l’ho mai più visto. Sono certo che qualche organizzazione lo stesse proteggendo, non lavorava e so che la sua famiglia non era ricca, però viveva tranquillamente”.
Nel 2013 l’ex tenente argentino stava affrontando, proprio al tribunale dell’Aquila, competente per territorio, il processo per la richiesta di estradizione avanzata dal governo argentino. A difenderlo il suo avvocato di fiducia Augusto Sinagra, già legale di Licio Gelli e dell’ex capo del Rim22 Jorge Olivera. Agli atti risulta che Carlos Malatto risiedeva in quegli anni in un bed&breakfast in una piccola frazione dell’Aquila. La proprietaria della struttura ha dichiarato di non avere idea di chi fosse Carlos Malatto: nessuna persona con quel nome ha mai passato una singola notte nel b&b. All’ufficio anagrafe dell’Aquila e alla questura risultano in effetti due differenti indirizzi di residenza dell’ex tenente, e nessuno dei due corrisponde a quello del b&b. Uno degli indirizzi è Piazza del Santuario 21 a Madonna di Roio, la casa di soggiorno dell’istituto delle Serve di Maria Riparatrici. “Lo abbiamo ospitato per due anni nella nostra struttura, dove pagava un affitto regolarmente e dove ospitavamo tante altre persone, molti studenti ad esempio”, racconta suor Pia, che in quegli anni era responsabile della struttura. “Aveva un avvocato e prestava servizio alla Misericordia, i suoi figli lo venivano a trovare ed è tornato altre volte a salutarci, è un bravo cattolico che frequentava la messa. Io non capisco, perché voi giornalisti continuiate a indagare. Lasciatelo vivere in pace”.
Da “La noche de 12 años”, film drammatico uruguaiano del 2018 diretto da Álvaro Brechner e presentato per la prima volta al 75° Festival Internazionale del Cinema di Venezia