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 L’inchiesta di Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro 

(guarda il video cliccando il link in fondo all’articolo)

Come in tutte le guerre, c’è chi lotta per la sopravvivenza e chi va a gonfie vele. L’Italia comincia a fare la conta dei danni da Coronavirus. La prima fotografia dei dati l’ha fatta il Centro Studi di Confindustria (CsC): a marzo, primo mese di lockdown, la produzione industriale è precipitata del 16,6% rispetto a febbraio. Si fa ancora fatica a stimare gli effetti di uno shock generalizzato che coinvolge sia l’offerta sia la domanda. Secondo il Fondo Monetario internazionale il Pil 2020 dell’Italia crollerà del 9,1%, il peggiore dalla Seconda guerra mondiale.
Sette milioni di lavoratori a casa

Secondo i calcoli dell’Istat sono rimaste ferme metà delle imprese presenti in Italia: il 49% del totale, ovvero 2,2 milioni, che danno lavoro a 7,4 milioni di persone (di cui 4,9 milioni dipendenti). Per quel che riguarda l’altra metà l’Istat ha presentato alla commissione Bilancio del Senato i conti aggiornati: sono rimaste aperte 2,3 milioni di imprese (il 51% del totale), con 9,3 milioni di addetti di cui 6,8 milioni dipendenti. Queste imprese nel 2019 hanno rappresentato un fatturato di 1.373 miliardi (57,4%), un valore aggiunto di 464 miliardi (59,3%) e un valore delle esportazioni di 146 miliardi (35%). In generale, su 23,3 milioni di occupati totali, circa 16 milioni sono rimasti al loro posto, in quei settori di attività ancora attivi. Una sorta di zoccolo duro del Pil italiano. Ma questo in teoria, perché una cosa è «il potenziale aperto», un’altra è quello che si è davvero prodotto.

Le imprese aperte: poche incassano

Oltre al personale sanitario (quasi 2 milioni), e gli addetti ai servizi alle famiglie (733 mila), l’elenco di chi ha potuto continuare l’attività è abbastanza lungo: addetti alla logistica e ai trasporti, giornalisti e comunicatori, bancari e assicuratori, pubblica amministrazione, insegnanti. Hanno lavorato quasi tutti gli addetti all’agricoltura (il 94% con 854 mila lavoratori), così come hanno tenuto aperto quelli nelle attività immobiliari, i professionisti, gli addetti al noleggio, le agenzie di viaggio, i servizi di supporto alle imprese. Poi ci sono le «altre attività di servizi collettivi e personali», in totale sono rimasti al lavoro 281 mila addetti, e tra questi, ad esempio, gli organizzatori di matrimoni e le pompe funebri; ma i primi non hanno battuto un chiodo, i secondi invece sono impegnati 24 ore al giorno. Solo un quinto è rimasto invece al lavoro nel settore alberghi e ristorazione (318 mila persone), di fatto quei ristoranti che possono consegnare a domicilio. Lo smart working ha aiutato parecchie di queste attività a mantenere il livello produttivo (tutto il settore della pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, informazione). Ci sono poi alcune aziende che si sono parzialmente riconvertite nella produzione di mascherine, disinfettanti o componenti di ventilatori polmonari. Fra questi ci sono anche imprese che hanno svolto attività solo «pro bono» e quindi non hanno incassato: per esempio Lamborghini e Ferrari per le valvole respiratorie, oppure i grandi marchi del lusso che si sono messi a produrre camici per i sanitari.

Le filiere in deroga

Altre aziende sono state autorizzate a lavorare in deroga perché producono beni funzionali ai «settori essenziali» rimasti aperti, come i produttori di componenti che servono nell’industria medicale. Ma queste imprese possono lavorare solo per la quota relativa alla fornitura per la filiera cui appartengono e non al 100% della loro capacità. Una parte corposa poi conta i clienti sulle dita di una mano: dagli alberghi alle agenzie di viaggio ai distributori di benzina. Possono lavorare ma i loro incassi sono crollati dell’80%, stima l’Istat. E a marzo si sono vendute in Italia appena 20 mila auto, un decimo del solito. Quindi molte lavorano a regime ridotto per scarsità della domanda, e il centro studi di Confindustria ha stimato un calo del 15% della produzione industriale nel secondo trimestre.

I settori in crescita

In questo scenario tremendo, a qualcuno è andata bene. I primi numeri su marzo, mese di avvio del lockdown, li ha appena diffusi la Confcommercio, relativamente alle vendite al dettaglio rispetto allo stesso mese del 2019. Il comparto alimentare ha registrato un +9,6%, perché le famiglie hanno mangiato di più a casa e hanno fatto scorte di cibo; più 4% la vendita di prodotti farmaceutici e terapeutici; più 8% i servizi di telecomunicazione, dato che internet è l’unico mezzo che consente di lavorare da casa e di restare in contatto con parenti e amici.

Solo chi lavora e produce in questi settori nel 2020 potrà dire di averla scampata. Ma ancora non è detto: serve che a maggio si esca dall’emergenza sanitaria, che ci sia una ripartenza graduale durante l’estate e che gli Stati investano massicciamente per stimolare la ripresa. Se queste condizioni si verificheranno, nelle statistiche si vedranno dei segni «più». Gli economisti di Prometeia stimano per l’intero anno un +6,5% nei consumi interni per alimentari e bevande, +4,4% per il largo consumo, +3,9% per sanità e assistenza sociale, +3,6% per la farmaceutica, +2% per i beni intermedi e +1% in poste e telecomunicazioni. Per tutti gli altri settori se ne riparla, forse, nel 2021.
Conto positivo solo per sanità e igiene

Ma anche nei settori che vanno bene non è tutto facile. Per esempio, l’alimentare: solo l’effetto «scorte» – ha calcolato Federalimentare nella nota congiunturale su marzo – ha prodotto 750 milioni di euro di vendite in più. Ma è un incremento che solo in parte – spiegano da Prometeia – compenserà le mancate esportazioni, l’assenza di fiere internazionali come Vinitaly e Cibus, e il crollo delle vendite nei ristoranti, nei pub e nei bar. In sostanza c’è da attendersi che il fatturato complessivo dell’alimentare calerà a fine anno del 4,6% dato che in tanti, avendo meno soldi in tasca e temendo magari un contagio, preferiranno mangiare in casa piuttosto che fuori. A livello di ricavi cresceranno solo la farmaceutica (+3,9%) e la sanità e l’assistenza sociale (+2,9%), dato che ci sarà una domanda sempre più forte di farmaci e di dispositivi di protezione individuale e prodotti per l’igiene e la casa. Un esempio è la multinazionale P&G: venerdi 17 ha presentato nei conti del trimestre un + 6% nelle vendite, grazie a Nord America e Europa. Ha venduto soprattutto prodotto per l’igiene, ma ha subito un crollo nei rasoi Gilette: se non si va in ufficio ci si rade di meno.

Le imprese che non hanno più liquidità

È previsto invece un impatto «attenuato» nei settori di internet, telefonia e abbonamenti digitali, dato che sempre più si farà smart working, e-learning e streaming. Anche le vendite di notebook e i piccoli elettrodomestici, come quelli per il trattamento dell’aria, potrebbero ricavare qualche beneficio. Tutto il resto – dai viaggi per turismo o affari, il settore dello spettacolo, delle attività ricreative, la cura della persona, l’automobile, l’abbigliamento, l’edilizia, i mobili e gli altri beni cosiddetti «durevoli» per la casa – subirà tracolli.

Prometeia calcola che le conseguenze sono immediate sulla capacità di sopravvivenza delle aziende: tre su quattro hanno liquidità per meno di tre mesi (2,7 per la precisione). Vuol dire che non riusciranno a salvarsi se l’aiuto dello Stato, attraverso le banche, non arriverà nelle loro tasche entro fine maggio.

Sorgente: Coronavirus, chi ha guadagnato con il lockdown? | Milena Gabanelli – Corriere.it

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