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Coronavirus, la spesa fatta dai tassisti e i vestiti lavati spesso: i 60 italiani in attesa di rimpatrio a Wuhan

Il racconto dalla città isolata per il virus: «Qui sono tutti gentili. Al supermercato si trova di tutto». Ma il piano è di farli rientrare il prima possibile

di Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino

Abita vicino al mercato dove pare sia esploso il coronavirus, uno dei circa 60 italiani confinati a Wuhan dalla gigantesca quarantena cittadina imposta dal governo. «Sto a casa, sono uscito ieri a fare la spesa, usando vestiti vecchi che poi ho messo in lavatrice a temperatura alta».

Al telefono, la voce del connazionale è serena, chiede subito di non preoccupare di più i parenti e gli amici in patria. «Al supermercato ho trovato tutto quello che serviva, anche prodotti italiani che prima non sempre c’erano: i rifornimenti funzionano, bisogna essere grati ai tanti lavoratori cinesi che tengono aperti i negozi, ai tassisti del servizio gratuito organizzato dalle autorità, che consegnano a casa la spesa. Possiamo stare qui a casa, in attesa che la situazione migliori».

Già, ma quale è la situazione dei 60 italiani che stanno a Wuhan, tra residenti stabili e di passaggio? L’obiettivo è farli rientrare il prima possibile. Washington ha mandato un charter per raccogliere i suoi diplomatici, le famiglie e gli altri americani che vogliono andar via, ma sono più numerosi dei 250 posti del Boeing 747 inviato: la maggior parte dovrà aspettare. E poi sottoporsi a quarantena negli Stati Uniti, dove sono già stati individuati 5 casi di contagio e un centinaio di sospetti.Nella serata di lunedì è arrivata anche la conferma ufficiale del primo caso di coronavirus in Germania.

Alla Farnesina e all’ambasciata di Pechino stanno valutando più opzioni. «Si è parlato di muoverci in pullman verso Changsha, un’altra grande città nel centro della Cina. E poi di stare 14 giorni in osservazione lì. All’inizio c’è stato un po’ di panico, poi abbiamo pensato che la cosa migliore ora sia restare in casa qui a Wuhan, dove siamo ragionevolmente al sicuro», dice il giovane manager con cui parliamo (niente nome, non si sente di fare il portavoce).

Ora la tendenza dei residenti è a restare: «La prospettiva di passare due settimane in quarantena in un’altra città non ci piace, potrebbe essere più rischioso, soprattutto per chi ha i figli con sé». Tra i piani c’è fare fronte comune con i francesi, che a Wuhan hanno un consolato, una fabbrica di auto della Psa, una scuola, in tutto 800 residenti. Stessa situazione incerta per britannici, spagnoli, tedeschi e giapponesi. Parigi insiste che a metà settimana un ponte aereo sarà attivato. La Farnesina dice che anche l’Italia valuta «soluzioni aeree» per portar via i nostri da Wuhan ma con realismo ripete che «dipende dall’autorizzazione cinese».

E intanto, che succede se qualcuno accusa sintomi influenzali o ha bisogno di assistenza per altri problemi? «L’ambasciata a Pechino è in contatto con tutti, abbiamo numeri di riferimento. E soprattutto se si ha bisogno di consulto medico si usano WeChat e email, per non dover andare in ospedale dove si corre il rischio di aspettare tra malati contagiosi». Il consiglio che ricevono è di non terrorizzarsi per una febbre, di stare a casa e curarsi come per una normale influenza, se non si ha il fisico debilitato.

Ma la situazione nello Hubei è seria. Un italiano che era in campagna ha visto villaggi che hanno sbarrato le strade con mucchi di terra e fossati per impedire l’accesso «a quelli di fuori». Chi ha bambini ha il problema di tenerli al chiuso: la scuola è in vacanza per Capodanno e la chiusura è già stata prolungata per almeno due settimane. «Intrattenerli è il problema», dice mentre al telefono arriva in sottofondo uno schiamazzo allegro. Per il lavoro si usa l’email. E il mercato degli animali selvatici vicino a casa? «Ora i cinesi dicono che è stato un errore disinfettarlo senza aver prima individuato la specie dove si era annidato il virus: come cancellare le impronte sul luogo del delitto».

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