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MICHELA MURGIA

Se c’è una cosa che abbiamo imparato in questi ultimi anni è che più di una volta, quando il gioco si è fatto duro, a giocare sono andate le ragazze, qualunque fosse il campo. Non importa cosa si dice loro, cosa gli si augura, cosa si vorrebbe che facessero o non facessero e come: le donne che fanno le cose con un senso sembrano avere il dono di andare avanti comunque e se le regole che trovano non bastano a salvare il senso, allora cambiano le regole, ma mai il senso.

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Se dovessimo contare solo le più celebri, prima è venuta Malala, che a undici anni ha iniziato un percorso militante per i diritti umani e ha portato all’attenzione delle nazioni unite il diritto all’istruzione per i bambini di tutto il mondo, a partire dal suo Pakistan dove ha rischiato la vita per mano degli estremisti islamici. Poi è arrivata Nadia Murad, che ha denunciato gli orrori dell’Isis sugli yazidi, mentre le donne della sua etnia imbracciavano i fucili e si inventavano combattenti per resistere sulla frontiera contro i talebani. La terza è stata Greta, svedese di sedici anni, che da mesi detta ai governi il conto alla rovescia del pianeta e porta in piazza i coetanei a chiedere futuro e salute. Carola Rackete, tedesca e attivista umanitaria, è solo l’ultima delle donne che si stanno prendendo la responsabilità delle contraddizioni del tempo in cui viviamo, ma per molti versi è la più emblematica, anche perché – a differenza delle altre – non sta ricevendo riconoscimenti, ascolto e premi, ma sui media di tutto il mondo gira la sua foto agli arresti per aver salvato 42 persone dalla morte in mare e averle portate a terra dopo 17 giorni di inutile attesa di un porto sicuro.

Tutte queste donne hanno in comune un tratto: incarnano il dissenso contro un potere che si manifesta in modo violento qualunque forma assuma, che si tratti di una cultura che discrimina le donne e le bambine, di una teocrazia estremista che vuole imporre le sue leggi ovunque, di un capitalismo spietato che consuma le risorse vitali o di un continente intero che nega alle persone il diritto di scappare da scenari di guerra e fame per trovare una vita migliore. Tutte loro hanno agito non contro persone, ma contro sistemi, prendendosi il carico di metterli in discussione, e tutte hanno dovuto affrontare molte resistenze prima di essere finalmente ascoltate e poter innescare i processi di cambiamento che chiedevano. La vicenda di Carola Rackete è ancora in corso ed è difficile prevedere se e quando le verrà riconosciuto il merito di aver ricordato a tutta Europa che i diritti umani vengono prima delle valutazioni politiche. Intanto però il suo caso restituisce un’evidenza che riguarda in modo diretto anche noi, perché il suo arresto e il modo in cui sta venendo gestito dicono che l’Italia è ormai un paese dove per chiunque esprimere dissenso alla linea di governo è diventato non solo difficile, ma anche rischioso.

Le persone non si rendono conto di quanto le loro libertà siano diminuite solo perché la maggior parte non ha bisogno di usarle. Chi vi ricorre misura invece tutti i giorni quanto si siano ridotti i limiti di esercizio del dissenso democratico. Lo sa Paola Atzeni di Isili, denunciata col compagno per uno striscione contro Salvini e Meloni appeso al loro balcone di casa in un comune dove nessuno dei due politici doveva recarsi in visita. Lo sa Rosa Maria Dell’Aria, sospesa dall’insegnamento per una diapositiva realizzata dalla sua classe contro il decreto sicurezza a firma Salvini. Lo sa Eleonora, casalinga romana di Borgo Pio, condotta in commissariato e identificata per aver gridato “buffone” al ministro degli interni che passava con le auto blu.

I casi sono talmente tanti che solo elencarli stroncherebbe qualunque tentativo di ridurli a episodi occasionali. Mostrano invece la mappa di un percorso deliberato che punta a inibire ogni manifestazione di dissenso contro il governo. Cittadini famosi o sconosciuti, scrittori o cuochi, cantanti o filosofi, soubrette o calciatori non ha alcuna importanza, il messaggio è comunque chiaro per tutti: mettersi contro il vicepremier ha un prezzo alto e chi ci prova lo deve pagare. I metodi per escuterlo variano a seconda della visibilità. I volti noti nel migliore dei casi rischiano di trovarsi il giorno dopo sulle pagine dei social media del ministro degli interni, additati a migliaia di suoi fans incarogniti che augurano loro la forca o lo stupro a seconda del sesso; nel peggiore vengono querelati o gli si minaccia la revoca della scorta. I cittadini comuni che si espongono con parole contrarie scoprono invece sempre più spesso un insospettabile zelo in alcuni esponenti delle forze dell’ordine e della burocrazia, che chiedono documenti, ritirano striscioni o avviano procedimenti disciplinari anche quando il dissenso rientra perfettamente nell’esercizio costituzionale garantito dall’articolo 21.

Ci sono però casi, come quello di Carola Rackete, in cui nessuna di queste tecniche può essere messa in atto con efficacia. In quei casi il furore del ministro degli interni – l’uomo a cui nessuno deve dire no – è emblematico. Le parole pesanti usate senza misura – “sbruffoncella”, “mi sono rotto le palle” e lo sprezzante “ricca criminale” – sono segnali di frustrazione e scorno, il ghigno teso che si nasconde sempre meno bene dietro alla maschera bonaria che manda i bacioni. Carola Rackete ha segnato una differenza che è di campo, oltreché di metodo, e il fatto che sia una donna è un elemento portante della sua efficacia. Se al comando di quella nave ci fosse infatti stato un maschio – uno alla De Falco, per citare chi in mare ha già dato prova di personalità con l’indimenticato “salga a bordo, cazzo!” – sarebbe stato sin troppo facile per i media costruire una narrazione dialettica da uomo forte a uomo forte, da scontro tra titani, Poseidone in acqua e Zeus a terra, protagonisti di un virile braccio di ferro. Si sarebbe sprecate le parole “sfida”, “scontro” e “duello”. Avremmo visto copertine di profili da gladiatore incrociati, emblema di una volontà contro un’altra, espresse dentro alla cornice muscolare del “vinca il più forte”.

Invece Carola Rackete ha sparigliato le carte. Donna, giovane e determinatissima, se non ha accettato l’ingaggio personale non è perché manchi di personalità o physique du rôle, ma perché ha tenuto sempre presente che avere ragione di Salvini non è la sua missione. Quello che le premeva era tenere la rotta, effettiva e simbolica, fino al compimento di quella che per lei era ed è sempre rimasta la priorità: portare le persone in salvo. A chi ha cercato di condurla sul piano dello scontro personale con il vicepremier – Ha letto cosa dice il ministro di lei? Ha sentito cosa ha dichiarato? Come risponde? – Rackete ha sempre replicato con chiarezza: «Non ho letto i suoi commenti, non ho tempo. Ho 40 persone, più 20 di equipaggio, quindi 60 persone di cui occuparmi. Mi tengono occupata giorno e notte. Salvini si metta in fila».

C’è un altro mondo di riferimento in quel categorico “Salvini si metta in fila”. Con quella semplice frase Rackete – che capitana evidentemente lo è per davvero – ha mostrato un senso delle proporzioni che sembra mancare a tutta Italia, per prima a un’opposizione che da troppi anni non solo si fa dettare l’agenda dal segretario della Lega sulla questione immigrazione, ma poi per giunta la segue. Inutile infatti attendere segnali di profezia da un Pd dentro al quale la cinica linea filolibica vince ancora sulla priorità dei diritti umani. Sarà pur vero che non c’è mai la condizione ottimale e qualcosa devi sempre sacrificare, ma un vecchio squalo della politica sarda un giorno mi disse: «Ricordati che è meglio vendersi il culo per salvarsi l’anima che vendersi l’anima per salvarsi il culo». Cosa stia scegliendo il Pd non lo investigo, ma una cosa è certa: le sole anime salvate a questo giro sono le 42 portate a riva da Carola Rackete. E con lei libera torniamo un po’ più liberi tutti

in “L’Espresso” del 7 luglio 2019

Sorgente: Il dissenso è donna | RIFLESSIONI

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