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Non sono preoccupato dai camerati col braccio teso di Acca Larentia, ma dalla cultura dell’infelicità. Fortunatamente però esistono Combattenti per la libertà che salvano vite e offrono dignità

MAURIZIO MAGGIANI

Viva l’Italia antifascista!! Ben detto. Ma dopo? Qualcosa dovrà pur succedere dopo perché questo bel fiato sgorgato da un cuore colmo di legge morale non s’involi nel cielo stellato e si disperda nella voragine della materia oscura. Dovrà pur significare qualcosa che abbia immagine e materia, e conseguenze, perché non si riduca a uno slogan spolpato del suo senso e della sua ragione. Perché l’Italia antifascista viva sul serio, altrimenti, e nel migliore dei casi, non è più un’esclamazione, ma prende il tono di una sconsolata invocazione, o quello deprimevole di un’implorazione all’avverso destino. Allora, cosa vogliamo metterci dentro a questo nostro viva l’Italia antifascista!!? È un grido di battaglia? è un giubilo di trionfo? Se è battaglia, e se lo è vuol solo dire che il fascismo non è stato ancora sconfitto, allora che facciamo, dove è il campo su cui combattere? Che si fa, si torna in armi in montagna? O forse il campo ora è un altro e le armi sono diverse da quelle da taglio e da fuoco? Se invece di trionfo si tratta, di giubilare per la definitiva vittoria dei valori costituenti della Repubblica, dove e come possiamo constatarlo, dove e come possiamo toccarlo questo trionfo, viverlo, operando, costruendone prosperità e durevolezza? Ora e qui, in questo Paese che si è dato con voto democratico un parlamento e un governo la cui maggioranza è composta da eredi, figli e nipoti, letteralmente, del fascismo storico, cosa che all’occasione e secondo opportunità negano con così poca convinzione da dare l’impressione che potrebbero persino farne a meno, e che prevedono di farne al più presto a meno. Cresciuti e educati nel disprezzo di quei valori, orgogliosamente fascisti fino a quando hanno capito che proclamarsi conversi dell’antifascismo non costa niente e frutta molto. Basta, appunto, a quella formuletta di rito non attaccarci niente. Non costa niente nemmeno giurare sulla Costituzione, si ricorderà di quanti lo hanno fatto nei passati ministeri dopo aver proclamato ai quattro venti di Pontida che la Costituzione potessero ficcarsela in quel posto.

Si dice che la Storia sia giudice ed eserciti assolvendo e condannando, e che il fascismo è stato condannato dalla Storia, quello che è certo è che la Storia non pratica la condanna a morte, e il fascismo non è morto impiccato a Piazzale Loreto. E non è vivo perché ad Acca Larentia un bel plotone di giovanotti e giovanotte ha appena celebrato il rito funebre con il braccio teso e il present’arm in onore di tre loro camerati assassinati messo secolo fa. L’abbiamo inventato noi il fascismo, è un nostro copyright, una nostra eccellenza; appartiene, come disse Piero Gobetti, all’autobiografia della Nazione, come non troppo dissimilmente dichiarò il suo capo, “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dal cuore degli italiani”. Se il fascismo è stato a suo tempo militarmente sconfitto, annientato, è stato anche cancellato dalle nostre autobiografie, estirpato dall’italico cuore?

Voglio raccontare della prima volta che sono entrato in contatto con il fascismo. Ero un ragazzino, andavo ancora in terza media e mi sono preso il primo e ultimo ceffone paterno nella mia carriera di figliolo. Non so più per quale ragione, immagino per questioni di pagella, discutendo con mio padre me ne sono uscito con “e io me ne frego”. Assieme al manrovescio mi sono beccato un secco, “in casa mia di fascisti non ce ne voglio”. Mio padre aveva un problema con il fascismo e con i fascisti, ad esempio era stato condannato a morte dalla Repubblica Sociale. Non che ne parlasse molto, e io ho impiegato un bel po’ di tempo per mettere assieme il mio me ne frego con il fascismo, ma alla fine ho capito. Sì, lo so, so che penso rozzamente, so che il fascismo è una cosa complicata che va studiato bene per non sbagliare e confondere, che è meglio spaccare il capello in quattro piuttosto che rischiare la semplificazione, ma per me l’essenza del fascismo si compendia bene lì, in quel “me ne frego”. Poi, certo, viene tutto il resto, ma prima di tutto è un’imprecazione contro la vita. Il culto della patria è il culto del sangue, il culto della guerra è culto della morte, il culto della natura è il culto della caccia, il culto della famiglia è il culto dell’oppressione dei sessi e delle generazioni, il culto del capo è il culto dell’irresponsabilità, il culto della nazione è il culto della razza, e per il resto me ne frego, ce ne fregammo un dì della galera, ce ne fregammo della brutta morte. Il fascismo è culto della pubblica infelicità. E, alla fine, a noi si declina bene in a me, così come prima gli italiani in prima io. E io so anche, e ne ho la tattile certezza, di vivere in un tempo dell’infelicità, esco di casa e sento, sottile e ottuso e persistente, il sordo ronzio di un rumore di fondo di infelicità, quest’epoca si è ingravidata di fascismo. È come se si fosse spalancato alto sulla Nazione un balcone, i consoli del tempo della disgrazia si sono fatti avanti sul popolo e hanno ululato il loro grido di battaglia: dio è morto, affanculo tutto, viva la morte. Me ne frego. Non è che l’umanità intera non possa essere infettata dalla malattia dell’infelicità, ma il genio italico ha saputo fare di una malattia un’ideologia, un partito e un regime che mezzo mondo ci ha invidiato e imitato. Complimenti.

No, non mi preoccupano un granché i camerati di Acca Larentia, e nemmeno i ragazzi di Casa Pound, non troppo. So bene che molti di loro sono usciti di casa in cerca di qualcosa di meglio del niente e della solitudine che gli erano offerti, potevano svoltare a destra o a sinistra. A sinistra non c’era niente, a destra hanno trovato un posto che li ha accolti, che ha offerto di stare in compagnia al caldo di un mito e un ideale, distorti e pervertiti quanto si vuole, ma pur sempre un’offerta di cui hanno disperato bisogno, là, a due passi da casa, un’offerta senza concorrenza.

Mi spaventa invece la smemoratezza e la pigrizia in cui la Repubblica alligna nella pubblica infelicità. Mi preoccupa, e molto, la baldanza incensurabile e impunibile con cui si sta mettendo mano alle stesse ragioni fondanti della Repubblica. Mi preoccupa moltissimo, tanto per fare un esempio, la seconda carica dello stato, il presidente del Senato, che si guarda bene dal tendere il braccio nel saluto a lui pur caro, e ricordando la caduta del muro di Berlino ha rinovellato e perorato la lotta senza tregua e senza fine contro il comunismo, così la repubblica nata dalla liberazione dal fascismo diventa per bocca della sua più alta autorità la repubblica rifondata nella lotta vittoriosa contro il comunismo. Mi spaventa un ministro della Repubblica che riferendosi a esseri umani li definisce “carico residuo”, mi spaventa l’acquiescenza con cui accettiamo, noi figli e nipoti di coloro che hanno fondato al Repubblica ripudiando la guerra, di vivere quella che ci sembra la nostra solita vita in stato perenne di guerra, guerra alle porte, guerra in casa.

No, il fascismo non è morto, non morirà mai, e dunque sì, viva l’Italia antifascista!! è un grido di battaglia, una chiamata alle armi. Per fortuna c’è ancora segno di vita nella Repubblica nata dalla Resistenza, sparuti nuclei Combattenti per la Libertà operano nella clandestinità; si possono però riconoscere quando li senti e li vedi, nel tempo del me ne frego, non disquisire, ma operare in nome del ce ne importa. Costruttori di vita comune, edificatori di felicità pubblica. Resistenti che salvano vite e offrono dignità, praticano e educano alla coscienza che “homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un uomo, niente di quello che è umano mi è estraneo, seguaci di Publio Terenzio, anche se non è indispensabile che lo sappiano. Prendono il pane e lo dividono con lo straniero, prendono la Costituzione e la spartiscono con i loro alunni, sanno che nessun umano è perduto per sempre e vanno nelle carceri ad ascoltare l’umano che le sbarre hanno zittito, sottraggono vite alla guerra, anime alla solitudine, cuori all’ignoranza. Non frequentano cerimonie memoriali, ma custodiscono memoria e la fecondano, non depongono corone, ma offrono fiori freschi. Combattono l’unica battaglia degna con le uniche armi efficaci.

Sorgente: Non basta giurare sulla Costituzione per proclamarsi veri antifascisti – La Stampa

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